La domanda di combustibili fossili è crollata con la crisi Covid e potrebbe non superare più i picchi del 2019. Quando l’economia globale si riprenderà, tutto il nostro settore produttivo potrebbe essere alimentato da fonti rinnovabili. Ma i governi sono a un bivio, ora devono decidere da che parte stare.
Tra le vittime colpite dalle conseguenze della pandemia di Covid-19 potrebbero esserci anche i combustibili fossili. Dopo decenni di resistenza e opposizione all’attivismo dei movimenti ambientalisti, dopo fiumi di denaro destinati ad attività di lobbying per ostacolare le politiche sul clima e e dopo martellanti campagne comunicative volte a rassicurare l’opinione pubblica sulla loro non pericolosità, i fossili ora rischiano davvero grosso. Secondo un Rapporto di Carbon Tracker Initiative – un think tank ambientalista con sede a Londra – le compagnie fossili devono temere molto di più il coronavirus che Greta Thunberg.
Certo, lo stato di salute del settore ancora prima dell’irruzione del virus non era dei più rosei: la crescita della domanda totale di combustibili fossili rallentava dell’1% all’anno. In un precedente studio del 2018, Carbon Tracker aveva calcolato che la richiesta di fossili avrebbe raggiunto il picco nel 2023 a parità di crescita dell’innovazione tecnologica delle energie rinnovabili. La crisi ha contagiato anche il settore finanziario, con la caduta dei prezzi delle azioni del 10% nell’ultimo decennio. Un settore, insomma, che stava diventando sempre più vulnerabile di concerto con l’aumento della percezione dei rischi legati ai cambiamenti climatici.
Ma il peggio arriva adesso: secondo l’analista Kingsmill Bond estensore del Rapporto, il biennio 2019-20 potrebbe segnare un punto di non ritorno. E le fossili potrebbero definitivamente cedere il testimone alle energie rinnovabili. Se un settore già in crisi e vicino al picco viene infatti investito da una crisi ciclica più profonda, si legge nel Rapporto, il picco della domanda potrebbe essere anticipato di alcuni anni. In occasione della crisi del 2008, la domanda di combustibili fossili per l’elettricità crollò senza mai più raggiungere i livelli pre-crisi. Certo, furono bruciati 150 miliardi di dollari nel settore finanziario, ma le fossili all’epoca non scomparvero e impararono a “convivere” con le loro cugine.
Ma ora? Secondo il Rapporto, anche il settore delle rinnovabili sarà danneggiato dalla crisi. Ma a differenza del settore fossili, in perdita e obsoleto, quello delle energie verdi sopravviverà per la costante innovazione tecnologica, che andrà di pari passo con il continuo decremento dei costi e la sempre più alta qualità di servizi e prodotti. In tutto ciò, i governi dovranno scegliere da che parte stare, stretti tra le richieste di salvataggi e finanziamenti da parte del settore fossile e la possibilità di cambiare le cose imprimendo una svolta decisiva al processo di decarbonizzazione.
In occasione della crisi del 2008 le compagnie petrolifere e del gas vennero finanziate e salvate, perchè si pensava che fossero come le banche, cioè too big to fail. Ma dodici anni dopo, la situazione è completamente diversa: i prezzi di molte tecnolgie verdi sono crollati di oltre il 90% e, ad oggi, la fonte di energia elettrica più economica in quasi tutti i paesi del mondo sono le energie rinnovabili. “La crescita, l’innovazione, i posti di lavoro, la creatività si stanno spostando rapidamente verso i nuovi settori energetici, lasciando sulla loro scia una grande quantità di capacità di combustibile fossile non necessaria”, si legge nel Rapporto di Carbon Tracker.
Il Green Deal, la nuova strategia per la crescita verde recentemente inaugurata dalla Commissione europea, potrebbe essere un volano di sviluppo del settore, sia a livello europeo che globale, con lo spostamento di enormi risorse economiche nei prossimi decenni.
Ma i governi devono decidere cosa vogliono fare da grandi, soprattutto con le energie non rinnovabili. Stando alle ultime proiezioni dell’International Energy Agency, nel 2017 il “regalo” fatto complessivamente da 191 paesi mondiali all’industria dei combustibili fossili ammonta a oltre 300 miliardi di dollari. Mentre in Italia sono circa 18,8 i miliardi di euro che, per Legambiente, sono arrivati nel corso del 2018 al settore delle fonti fossili, tra sussidi diretti e indiretti.
In questi giorni difficili che stanno sconvolgendo le nostre vite e causando oltre 130mila vittime nel mondo, è bene comunque ricordare che il coronavirus non è l’unico killer in circolazione: secondo Greenpeace South Asia e Center for Research on Energy and Clean Air, sono circa 4,5 milioni le morti premature attribuibili ogni anno all’inquinamento atmosferico prodotto dalla combustione di carbone, petrolio e gas, per un costo di circa 8 miliardi di dollari al giorno.
Il tempo che abbiamo a disposizione è sempre di meno: secondo il Rapporto del 2018 dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) dell’Onu, il gruppo di scienziati che monitora il cambiamento climatico elaborando strategie per contrastarlo, ci restano solo 11 anni per invertire la rotta e impedire l’innalzamento delle temperature al di sopra dei 1,5-2°C previsti dall’Accordo di Parigi. E in questo quadro non giova di certo l’annullamento della 26ma Conferenza delle parti sul clima (COP-26), che avrebbe dovuto tenersi a fine 2020 a Glasgow, ma è stata posticipata a data da destinarsi a causa dell’emergenza sanitaria. La COP-26 era considerata infatti molto importante: secondo le regole dell’Accordo di Parigi, i Paesi aderenti avrebbero dovuto presentare nuovi target climatici entro il 2020.
Siamo a un bivio ed è il momento di decidere. È giunta l’ora di accelerare la transizione verso un sistema più sostenibile e di lanciare la Terza Rivoluzione Industriale di cui parla ad esempio Jeremy Rifkin, mettendo a punto un’infrastruttura intelligente di pannelli solari, turbine eoliche, reti, punti di ricarica per veicoli elettrici, nuove fonti di energia per l’industria. Perché mentre al coronavirus potremo sopravvivere, alla crisi climatica probabilmente no.