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La norma “acchiappa ricchi” nella Legge di Bilancio

L’introduzione di una imposta sostitutiva sui redditi prodotti all’estero potrebbe presentare profili di incostituzionalità e rischia di avere effetti perversi per la fiscalità generale

Nei giorni politicamente roventi della campagna elettorale e durante le (rapide) convulsioni della crisi politica seguita all’esito referendario del 4 dicembre, il Parlamento italiano ha licenziato la Legge di Bilancio per il 2017. Una norma che finora non ha ricevuto adeguata attenzione mediatica e scientifica. Complice il suo probabile scarso impatto iniziale sulle finanze pubbliche, televisioni e giornali hanno tralasciato di esporre in maniera organica quella che è stata subito etichettata come “norma acchiappa-ricchi”, contenuta all’art. 22 della sezione normativa del testo votato dalla Camera dei Deputati e approvato senza modifiche dal Senato il 7 dicembre[1]. Quali i contenuti della disposizione? E quali le sue possibili implicazioni sul sistema fiscale italiano?

Prima di procedere ad una valutazione critica, è bene tenere presente il testo dell’articolato. La norma è stata così descritta dal report del Servizio studi di Camera e Senato:

«I commi da 5 a 7 e da 10 a 12 dell’articolo 22 introducono un’imposta sostitutiva forfettaria sui redditi prodotti all’estero.

In particolare il comma 5 – introducendo un articolo 24-bis nel Testo unico delle imposte sui redditi – TUIR, di cui al D.P.R. n. 917 del 1986 – consente alle persone fisiche che trasferiscono la residenza fiscale in Italia di optare per l’applicazione di una imposta sostitutiva sui redditi prodotti all’estero, a specifiche condizioni.

Destinatari della norma (comma 1 del nuovo articolo 24-bis) sono le persone fisiche che trasferiscono la residenza fiscale in Italia ai sensi dell’articolo 2, comma 2 TUIR. Esse non devono essere state residenti in Italia in almeno nove dei dieci periodi d’imposta che precedono l’inizio del periodo di validità dell’opzione. L’imposta sostitutiva colpisce i redditi prodotti all’estero […]

Il comma 2 del nuovo articolo 24-bis del TUIR fissa la misura dell’imposta sostitutiva, calcolata in via forfettaria, a prescindere dall’importo dei redditi percepiti, nella misura di 100.000 euro per ciascun periodo d’imposta in cui è valida la predetta opzione.

L’importo è ridotto a 25.000 euro per ciascun periodo d’imposta per ciascuno dei familiari (di cui al comma 6) a cui il soggetto passivo può chiedere di estendere l’applicazione dell’imposta sostitutiva.

L’imposta è versata in un’unica soluzione entro la data prevista per il versamento del saldo delle imposte sui redditi. Per l’accertamento, la riscossione, il contenzioso e le sanzioni si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni previste per l’imposta sul reddito delle persone fisiche. Essa non è deducibile da nessuna altra imposta o contributo. […]

Ai sensi del comma 4 l’opzione è revocabile; comunque cessa di produrre effetti decorsi quindici anni dal primo periodo d’imposta di validità.

Gli effetti dell’opzione cessano in ogni caso in ipotesi di omesso o parziale versamento, in tutto o in parte, dell’imposta sostitutiva, nella misura e nei termini previsti dalle vigenti disposizioni di legge, fatti salvi gli effetti prodotti nei periodi d’imposta precedenti. La revoca o la decadenza dal regime precludono l’esercizio di una nuova opzione […]»[2].

“L’acchiappa-ricchi” prevede quindi alcune significative novità in termini di complessiva giustizia fiscale del sistema: tramite l’opzione sopra descritta, per fare un esempio, essa garantirebbe a chi incamerasse all’estero 10 milioni di euro un’aliquota pari all’1% del reddito, percentualmente molto meno di quanto pagato da un operaio metalmeccanico o da un bracciante agricolo.

Una norma incostituzionale?

Nell’avvicinarsi alla norma, quel che appare problematico sin dal primo sguardo è lo stesso rapporto che intercorre tra il principio ispiratore della disposizione e il dettato costituzionale. Particolarmente coinvolto è il «criterio di progressività» a cui dovrebbe esplicitamente informarsi tutto il sistema tributario italiano (art. 53, c. 2). Si potrebbe certo ipotizzare che l’imposta forfettaria così come formulata sia dettata da particolari ragioni che spingono il legislatore ad adottare un regime privilegiato nei confronti di particolari soggetti. Ma quali sarebbero i motivi per cui mettere una situazione di netto vantaggio fiscale il contribuente che decidesse di trasferire la propria residenza in Italia? Stando al testo della legge, per giustificare lo sconto non si vedono altri motivi oltre a quello della stessa ricchezza, letta come elemento intrinsecamente positivo che dovrebbe essere attratto tout court il più possibile nel nostro Paese. La ratio che anima il provvedimento è quindi esattamente opposta rispetto a quella sancita dal testo costituzionale, che certo non intende scoraggiare la produzione di ricchezza, ma che – nondimeno – ne impone una “condivisione” con il resto della platea contributiva[3].

Nella Legge di Bilancio, la crescita del reddito prodotto all’estero viene così premiata il più possibile: da qui, la scelta di imporre un’aliquota marginale pari a zero, che rende la nuova imposta molto più regressiva di un’eventuale flat tax su questa particolare categoria di contribuenti (ipotesi vagliata, ma scartata). Si rimanda ai paragrafi successivi le considerazioni sugli “effetti perversi” della norma, ma qui è necessario sottolineare che l’imposta sostitutiva si applica soltanto sui redditi prodotti all’estero, finendo per scoraggiare – paradossalmente – investimenti in Italia. Se infatti l’aliquota media decresce al crescere del reddito prodotto fuori dall’Italia, il nuovo contribuente non sarà certo incentivato ad investire là dove la crescita dell’aliquota marginale è direttamente legata a quella del reddito. Primo effetto indesiderato della riforma è che, pensata per attrarre ricchi, essa rischia di incentivarli a produrre e investire al di fuori del Bel Paese proprio in ragione dell’imposizione più vantaggiosa.

Ad aumentare i sospetti di incostituzionalità della norma si aggiunge poi anche il lungo lasso di tempo di applicabilità dell’imposta sostitutiva. Se, infatti, uno sconto fiscale è ipotizzabile – anche se non necessariamente giustificabile – ad immediato ridosso del trasferimento (si può immaginare in ragione delle spese per l’acquisto di una nuova abitazione, per il trasloco…), si stenta a comprendere le ragioni che sono alla base del protrarsi di questo regime agevolato per così tanti anni (quindici).

Contribuenti residenti in Italia e provenienti dall’estero: forti disparità

Non è solo la supposta incostituzionalità a gettare pesanti dubbi su questa norma. Infatti, “l’acchiappa-ricchi” mette il contribuente residente in Italia in una posizione tutt’altro che comoda. I lavoratori percettori di un reddito medio potrebbero legittimamente chiedersi per quale ragione ricchi “paperoni” provenienti da altri Paesi paghino un’aliquota minore rispetto alla loro. Il fatto che un operaio metalmeccanico versi come Irpef una quota maggiore del suo reddito rispetto ad un miliardario straniero pone seri quesiti di giustizia sociale e fiscale. Allo stesso modo, col crescere del reddito, contribuenti italiani aventi il medesimo livello di benessere dei nuovi arrivati potrebbero legittimamente chiedersi le ragioni di una disparità tanto ampia. Se infatti si considera che l’aliquota media pagata per l’Irpef si avvicina asintoticamente al 43% (aliquota marginale più elevata per il quinto ed ultimo scaglione), non è difficile intuire la fortissima disparità che intercorrerà tra ricchi che differiscono solo per il diverso Paese di residenza in cui hanno vissuto negli anni passati. Questo, oltre a creare problemi di ingiustizia fiscale, potrebbe spingere anche soggetti benestanti residenti in Italia a cercare altrove legislazioni altrettanto favorevoli per i “nuovi venuti”, punto che sarà ulteriormente approfondito nei prossimi paragrafi.

Effetti indesiderati

La norma “acchiappa-ricchi” non presenta però solo potenziali profili di incostituzionalità e di sperequazioni nel trattamento tra chi risiede in Italia e chi proviene dall’estero. Anche volendo ignorare i due tipi di obiezioni sopra mosse, è infatti possibile ipotizzare effetti perversi allarmanti per la fiscalità generale, forse non previsti dagli autori della disposizione. La norma, certo molto vicina per contenuto e per idea ispiratrice alla legislazione di diversi paradisi fiscali, potrebbe essere anche adottata da altri Paesi dell’Unione Europea. Un tale spillover effect avrebbe due tipi di conseguenze: da un lato, potrebbe incentivare i contribuenti più ricchi a scegliere Paesi terzi anziché l’Italia come meta in cui trasferire la residenza. D’altro canto, potrebbero aprirsi vicini spiragli anche per i ricchi contribuenti italiani, che ad oggi non possono optare per regimi fiscali alternativi altrettanto vantaggiosi. Il risultato della congiunzione e della sovrapposizione di questi due effetti è evidente: la partenza di un italiano benestante dovrebbe essere bilanciata dall’arrivo dall’estero di diversi contribuenti facoltosi. Essi infatti dovrebbero compensare – tramite le loro quote pro capite da 100,000 euro – le perdite subite dalla fiscalità generale per la fuoriuscita di uno solo dei soggetti residenti residenti in Italia e sottoposti all’Irpef nella sua versione “piena”. Se il “flusso” di questi ricchi stranieri dovesse essere frammentato in più rivoli orientati verso Stati diversi dalle legislazioni analoghe, gli effetti sul fisco italiano sarebbero assolutamente incerti.

Il secondo effetto perverso della diffusione della norma “acchiappa-ricchi” a livello europeo consisterebbe, poi, in una sorta di “guerra fiscale” per creare le condizioni più vantaggiose al trasferimento della residenza. Non è infatti difficile pensare che Stati dalle dimensioni considerevolmente più ridotte possano “accontentarsi” anche solo di 70.000 o 50.000 euro di imposta sostitutiva per chi decidesse di trasferirvi la propria residenza. Il legislatore italiano si troverebbe così di fronte a un bivio: da un lato, potrebbe scegliere di mantenere invariato l’ammontare dell’aliquota sostitutiva, nonostante la sua scarsa “competitività” – ma rischierebbe così di perdere nuovi arrivi (e quindi ulteriore gettito). Dall’altro lato, nel tentativo di mantenere inalterato il numero degli arrivi, potrebbe optare per un “adattamento” ai regimi fiscali più vantaggiosi, rinunciando però sua sponte a parte delle entrate.

Non è qui il caso di fare ritorno sugli effetti che avrebbe sull’equità del sistema fiscale una simile concorrenza fatta per “acchiappare” il maggior numero di ricchi. La sola plausibilità di uno scenario simile – tuttavia – scoraggia i benestanti residenti in altri Paesi dal prendere una decisione subito, che per loro si rivelerebbe vincolante per i prossimi anni. L’obbligo di residenza in Italia per mantenere l’imposta forfettaria, sorto con il preciso intento di trattenere nel Paese i nuovi contribuenti – rappresenta, a voler adottare un approccio realistico, un invito ad attendere possibili sviluppi nelle altre legislazioni europee, onde poter poi scegliere quella più vantaggiosa. Per questa ragione (oltre che per l’ancora scarsa conoscenza della disposizione contenuta in Legge di Bilancio), è difficile credere in un massiccio arrivo di ricchi stranieri dall’estero nel corso del 2017. Nel breve periodo, ci si può soltanto attendere che “l’acchiappa-ricchi” vada a beneficiare solo un gruppo ristrettissimo di soggetti, acutizzando la sensazione di un immotivato trattamento preferenziale, soprattutto se protratto per così tanto tempo. Nel lungo termine, invece, gli effetti potrebbero essere ancora più nocivi anche per la fiscalità generale, soprattutto in caso di emulazione e di dumping tra gli stessi Paesi europei.

Conclusioni

 Nei paragrafi precedenti si sono evidenziate alcune criticità della norma “acchiappa-ricchi”, che si rivela problematica su un triplice piano: quello legale-normativo, quello della giustizia complessiva del sistema dei prelievi e quello fiscale stricto sensu. Risulta difficile non esprimere un parere critico su tutte le dimensioni in cui il provvedimento è stato scomposto: per quanto riguarda la sua compatibilità costituzionale, si è notato che la norma finirà per avere effetti regressivi – essendo l’aliquota media negativa – quando la Costituzione sancisce espressamente la progressività del sistema tributario. Sul versante della giustizia sociale, si sono notate le fortissime disparità che si creerebbero tra contribuenti divisi dalla sola residenza (passata, per giunta). Infine, per quanto riguarda il terzo piano d’indagine si è osservato che molto probabilmente nel medio termine gli effetti sul sistema fiscale rischiano di essere tutt’altro che positivi in termini di futuri introiti – andando così contro le stesse intenzioni che si possono attribuire al legislatore.

Un’eventuale abolizione della norma sarebbe dunque una scelta che eviterebbe una plausibile bocciatura della Corte Costituzionale e che contribuirebbe a non aumentare ulteriormente le già crescenti disparità tra i cittadini. Il fatto che “l’acchiappa-ricchi” non sia stata ancora pienamente implementata dovrebbe rendere – qualora ce ne fosse la volontà – ancora più facile una sua rimozione dall’ordinamento giuridico italiano.

 

[1]    Nel testo apparso sulla Gazzetta Ufficiale (l. n. 232/2016) le medesime disposizioni sono reperibili a partire dal comma 152 dell’art. 1 della parte I, sezione I.

[2]    Servizio studi della Camera dei Deputati e Servizio studi del Senato della Repubblica, Legge di Bilancio 2017 – Schede di lettura – A.C. 4127-bis, Sezione normativa, novembre 2016, pagg. 108-110.

[3]    Val la pena forse di ricordare che questo provvedimento si innesta in un’idea di “attrattività di capitali e di cervelli” che crea molte altre segmentazioni nel sistema fiscale e giuridico. Ne sono un chiaro esempio i commi precedenti dello stesso provvedimento (come il 148esimo), disposizione che modifica l’attuale regime di concessione dei permessi di soggiorno, rendendolo più flessibile per coloro che dovessero impegnarsi a compiere investimenti significativi nel Paese, consistenti gesti filantropici o acquisti di titoli di Stato per almeno 2.000.000 di euro.