Il documento finale della Cop 26 appare il peggiore che si potesse immaginare. Spariscono l’impegno tassativo al mantenimento della temperatura sotto 1,5 gradi entro il 2030 e i 100 miliardi per i paesi in via di sviluppo. L’Italia tra i peggiori. Cingolani torna sul nucleare e si sfila dall’accordo sull’automotive.
La COP26 si chiude tra decisioni non prese e rinvii ulteriori. Sulle questioni centrali, infatti, i membri del vertice non sono riusciti a trovare un accordo. Il documento finale è stato pubblicato domenica mattina, e il testo lascia perplessi soprattutto per tutti i nodi irrisolti.
Secondo il presidente della COP26 Alok Sharma è un patto “da proteggere” nonostante non sia il migliore dei documenti possibili. Ma a dire la verità questa versione edulcorata dell’accordo, è di fatto una delle peggiori che si potessero immaginare.
I capitoli del documento che riguardano finanza e mitigazione risultano del tutto diversi rispetto alle prime bozze uscite nella settimana precedente.
E’ sparito completamente l’impegno tassativo al mantenimento della temperatura al di sotto degli 1,5 gradi entro il 2030, e si parla solo di “fare tutti gli sforzi per limitarla” al di sotto di questa soglia. Ma di fatto l’obiettivo finale rimangono i 2 °C esattamente come già previsto nell’accordo di Parigi del 2015.
E poi sono spariti i 100 miliardi promessi nei primi giorni del vertice dedicati alla finanza, che sarebbero dovuti andare ai paesi less developed (meno sviluppati).
Infine c’è il tema dell’uscita dal carbone, dopo l’opposizione di India e Cina nella nottata finale delle trattative, si è riusciti a modificare phasing out nella formula phase down unabated fuels, sarebbe a dire riduzione delle fonti fossili e non uscita.
Non solo, quell’unabated significa che continuano a essere utilizzabili le fonti fossili “abbattibili” con tecnologie come lo stoccaggio delle CO2 per esempio, quindi il gas rimane nell’accordo.
Certo, almeno ci si è impegnati a “rivedere a livello nazionale i propri target di emissioni entro la fine del 2022 in modo da rispettare gli obiettivi di Parigi”, ma di fatto questo vuol dire rinviare nuovamente ad un ulteriore vertice di discussione la decisione.
L’ultimo impegno, per così dire “positivo”, riguarderebbe il fondo destinato “ai danni e alle perdite” subite dai Paesi vittime degli impatti ambientali. Si invitano tutti i Paesi a prevedere investimenti al riguardo e anche qui tutto rinviato alla discussione in Egitto. Non è chiaro, però, né quanti fondi saranno destinati a questo impegno, né se effettivamente esiste una strategia condivisa della COP su questo, al di là dei singoli impegni nazionali. Un fallimento su tutta la linea quindi.
L’Italia non va meglio. Di fatto esce da questo vertice senza niente in mano. Si è sfilata dall’accordo sul settore automotive per un’uscita rapida dalla produzione di veicoli a benzina e il nostro ministro Roberto Cingolani è tornato a parlare di nucleare come panacea di tutti i mali e del gas come migliore amico della transizione.
Quando si è trattato di prendere posizione sulle fonti fossili Cingolani è tornato a fare spallucce: all’alleanza BOGA (Beyond Oil and Gas Alliance), che punta a una graduale eliminazione della produzione di petrolio e gas attraverso obiettivi tangibili e misurabili, il nostro Paese darà il suo sostegno as a friend (ovvero come osservatore esterno), senza impegnarsi a prendere alcuna decisione.
Ad oggi, a politiche correnti, l’Italia ridurrà di appena il 26% le emissioni al 2030, circa la metà del più blando dei target raccomandati della comunità scientifica. Con il PNIEC ha previsto di aumentare la percentuale al 36%, ma il piano implementativo langue.
Se tutti i Paesi seguissero il nostro esempio lo scenario a fine secolo sarebbe torrido, con +3 °C di temperature medie. Calcolando il carbon budget dell’Italia e le sue responsabilità storiche, in uno studio commissionato dall’associazione A Sud, Climate Analytics, una delle più importanti organizzazioni che si occupano di ricerca sul clima, ha calcolato che il nostro paese dovrebbe diminuire le sue emissioni di ben il 92% entro il 2030 per poter rimanere in linea con gli accordi di Parigi. Più del triplo di quanto attualmente in campo.
Intanto arrivano i nuovi dati internazionali del Carbon Action Tracker, una delle organizzazioni più accreditate per la ricerca sul clima. Nel loro report dal titolo “Gap di credibilità di Glasgow per il 2030” gli scienziati di CAT hanno calcolato che, con le promesse e gli impegni in campo (inclusi quelli in ballo a Glasgow), il mondo si avvia verso un riscaldamento di +2,4° C entro la fine del secolo. L’IPCC delle Nazioni Unite stima addirittura uno scenario fino a 5 °C. Ma i grandi della Terra sembrano avere ancora tempo da perdere e si danno appuntamento per riparlarne alla prossima Conferenza delle Parti.