Il calo della produzione in Italia, le ultime mosse, le alleanze, i posti di lavoro al rischio. E il nodo dell’Alfa ancora da sciogliere. La situazione della multinazionale italiana dell’auto, e il suo ruolo a livello mondiale all’interno di un settore che è stato definito “un progetto di job creation finanziato dai governi”
Se si guarda alla redditività espressa dal settore dell’auto negli ultimi dieci anni e la si confronta con i rischi, appare evidente che dal punto di vista degli investitori il gioco non vale più la candela, almeno nei paesi ricchi. Come afferma uno specialista del settore, nella sua attuale configurazione quello dell’auto, almeno nell’ottica dei mercati finanziari, non è ormai nient’altro che ”un progetto di job creation finanziato dai governi”.
Naturalmente, questo punto di vista è in conflitto acuto con quello dei lavoratori del settore, molti dei quali rischiano nei prossimi mesi ed anni il loro posto di lavoro. Ne risulta una contraddizione che sarà difficile sanare.
Intanto l’Italia è diventata il paese al mondo con il più alto numero di automobili per chilometro quadrato; le nostre città sono intasate, il territorio devastato. I vari governi non hanno fatto nulla per arginare il fenomeno, ma hanno invece lasciato il sistema di trasporti pubblici in una situazione largamente sottosviluppata.
Il mercato
Nonostante i problemi incontrati nel 2008 e nel 2009, sembra che il peggio debba ancora venire. Così, almeno a livello europeo, il 2010 sarà per le vendite di auto il più cattivo da decenni. Qualcuno si azzarda a prevedere una ripresa soltanto per il 2013.
D’altro canto, non va certo male in tutto il mondo; Brasile, Corea, India e soprattutto Cina si difendono molto bene. Il mercato cinese è in pieno boom e nell’intero 2009 esso ha quasi raggiunto i 13 milioni di unità vendute.
I mercati dei paesi emergenti, nondimeno, non consentono i margini di profitto unitari di quelli maturi: vi si vendono soprattutto vetture piccole e a prezzi contenuti. Le vendite a livello mondiale, secondo una stima (The lex column, 4 gennaio 2010), potrebbero crescere del 70% nei prossimi 10 anni, grazie alla domanda di tali paesi, aumentando i profitti del settore di circa 86 miliardi di dollari nel periodo.
Vanno avanti i progetti per la riduzione dei livelli di consumi e di inquinamento nell’alimentazione a benzina e a diesel delle vetture. Ma gli investimenti necessari per ridurre ancora le emissioni saranno ingenti.
Un’altra tendenza di fondo appare quella alla concentrazione degli sforzi verso le auto piccole. Spingono in tale senso l’urbanizzazione crescente, l’invecchiamento della popolazione, almeno nei paesi sviluppati, l’aumento della domanda dei paesi emergenti, la corsa alla riduzione dei consumi e dell’inquinamento.
Ma, come dicevano una volta i dirigenti di Detroit, grandi auto grandi profitti, piccole auto piccoli profitti –peraltro mal gliene incolse, perché le società usa scelsero a suo tempo di continuare a produrre quasi solo quelle grandi, con i risultati che sappiamo. Comunque è vero che i modelli della fascia bassa tendono a dare poche soddisfazioni economiche. Una tendenza percepibile è così quella di incorporare nei vari modelli una serie di prestazioni di lusso e di opzionali, facendo salire i prezzi unitari.
In ogni caso, la filiera dell’auto produce, almeno in occidente, una torta ormai piuttosto magra, che le case devono per di più spartire con i produttori di componenti, i quali, grazie anche all’evoluzione tecnologica, hanno un sempre maggior peso nei confronti dei produttori finali.
La ristrutturazione del settore
La previsione fatta qualche tempo fa da Marchionne secondo la quale in pochi anni sarebbero rimasti in campo soltanto 5/6 produttori, appare insieme corretta e sbagliata.
E’ vero che il processo di concentrazione è andato avanti. Ma intanto esso sembra marciare più lentamente di quanto si potesse pensare; a parte quelli cinesi, indiani e russi, oggi sono ancora presenti ben undici gruppi a livello mondiale, trascurandone alcuni minori. Bisogna poi appunto considerare che si vanno affermando diverse nuove imprese cinesi ed indiane, anche se i loro livelli di produzione sono, almeno per il momento, abbastanza bassi. Questo pone il problema se sia veramente fondamentale essere molto grandi per sopravvivere, cosa che qualcuno nega.
Comunque, economie di scala e condivisione di tecnologie tra più produttori sono ora il nome del gioco nel settore.
Così segnano dei passi in avanti anche le intese produttive, che fanno emergere in maniera più forte che in passato anche un modello di concorrenza-cooperazione.
Sullo sfondo di tutti questi sommovimenti, c’è, tra l’altro, una situazione di grande capacità produttiva inutilizzata. A fronte di una potenzialità degli impianti pari nel mondo a 90-95 milioni di vetture all’anno, la produzione effettiva si colloca oggi intorno ai 55-60 milioni di unità.
Così negli Stati Uniti tra le condizioni del salvataggio di GM e Chrysler c’è stata la chiusura di ben undici siti importanti. Dal 2004 al 2009 le tre società Usa hanno cancellato 22 stabilimenti. Solo in otto casi si è trovato un compratore e gli iniziali progetti di riconversione non si sono quasi mai materializzati. Quando un impianto si ferma si perdono dei posti di lavoro, ma anche introiti fiscali per le comunità locali, mentre le attività commerciali languono e il valore delle proprietà immobiliari crolla (Vlasic, Bunkley, 2009).
Ora sembra arrivato il momento del dramma anche in Europa: in pochi mesi sono state annunciate la chiusura dell’impianto di Termini Imerese della Fiat, di una fabbrica della Opel ad Anversa, di uno stabilimento su due del gruppo Land Rover-Jaguar in Gran Bretagna. Ma lo stillicidio dovrebbe continuare.
La Fiat e l’Italia
Le cifre relative all’andamento dei livelli produttivi e dell’occupazione nel nostro paese nel settore dell’auto raccontano una storia certamente drammatica.
Nel decennio 1990-2000 le auto prodotte in Italia sono passate da 1.875.000 unità all’anno a 1.422.000 e si collocano ormai soltanto a 650.000 nel 2009. E questo mentre negli altri paesi europei la produzione cresceva o si manteneva comunque a livelli sostenuti.
I dipendenti complessivi del gruppo sono diminuiti dalle 220.500 unità del 1998 – cifra già in forte declino rispetto ai decenni precedenti – alle circa 162.000 di fine 2003. Nel settore dell’auto, nel 1979 gli occupati erano 168.800, mentre nel 2000 la cifra era scesa a 74.000 unità (Comito, 2005). A fine 2009 eravamo a circa 54.000.
Nell’aprile del 2010 è stato annunciato il nuovo piano strategico del gruppo, che è peraltro pieno di indicazioni finanziarie, ma non da alcuna notizia sui temi dell’occupazione. E’ in corso peraltro, una delicata trattativa con il sindacato che non sappiamo come andrà a finire. Per quello che si sa al momento, nei prossimi anni l’occupazione nel settore dovrebbe diminuire ancora in Italia di almeno circa 2500 unità: si tratta di decisioni già sostanzialmente prese –chiusura di Termini Imerese, riduzione organici a Cassino e a Pomigliano.
Ora la società annuncia a sorpresa un forte aumento entro il 2014 dei livelli produttivi nel nostro paese sino a 1.400.000 unità e nuovi investimenti per 20 miliardi di euro –si tratta certamente, per alcuni aspetti, di una bella notizia. Tali piani dovrebbero servire forse a stabilizzare la situazione dell’occupazione nel medio termine, ma nel frattempo la realtà del 2010 e anche di almeno una parte del 2011 sarà costituita da un rilevante livello di sofferenze ulteriori; oltre ai cali di occupazione già annunciati, si registrerà una cassa integrazione estesa, in relazione al cattivo andamento del mercato nazionale.
In termini generali, bisogna considerare che il rapporto tra la Fiat e l’Italia tende a farsi comunque sempre meno privilegiato. Già prima dell’ingresso nella Chrysler, il primo mercato e il primo centro produttivo era diventato il Brasile, con 750.000 vetture prodotte e con prospettive di crescita molto importanti; c’è poi la Polonia, con circa 630.000 vetture; ora si registrano, oltre all’ingresso nella Chrysler, il varo dell’iniziativa in Russia con 500.000 auto potenziali, l’avvio dell’attività in Serbia, nonché i nuovi impianti in Turchia, in Cina, in India.
L’ingresso nella Chrysler porta con sé la conseguenza che i centri di governo del sistema siano ormai almeno due, se non tre e per di più con il fatto che gli Stati Uniti diventano il centro della progettazione e produzione delle vetture della fascia medio-alta.
Nelle Americhe si concentreranno poi all’incirca i tre quinti della produzione e con margini più elevati di quelli europei. In dichiarazioni recenti, peraltro, J. Elkann ribadisce che il cuore e la testa del gruppo resteranno a Torino (Tropea, 2010) e Marchionne fa lo stesso. Il piano di sviluppo sembra almeno parzialmente confermarlo. Staremo a vedere.
La Chrysler e il gruppo Fiat
La Chrysler è una società con quote di mercato in caduta e una immagine di bassa qualità. Tutti si chiedono se Marchionne riuscirà a compiere di nuovo la prodezza già compiuta con la Fiat.
L’eventuale successo risolverebbe il problema della presenza a livelli adeguati della Fiat nei segmenti C e D, altrimenti sguarniti, poi anche quello dell’insediamento del gruppo negli Usa. Sino a ieri uno sbarco importante nel paese sembrava la premessa sufficiente per essere un protagonista del mercato mondiale. Ma ora, per essere un giocatore adeguato, bisogna avere una presenza forte anche in Giappone, India e soprattutto in Cina. Vero è che negli ultimi due paesi stanno partendo degli accordi di produzione, ma la loro dimensione sembra largamente inadeguata.
Un altro problema che lo sbarco negli Stati Uniti potrebbe forse contribuire a risolvere riguarda l’Alfa Romeo (Betts, 2009). Nel 2006 era stato posto l’obiettivo di più che raddoppiare le vendite, sino a 300.000 unità, ma non è successo niente; nel 2009 il marchio ha venduto si e no 105.000 vetture. Ora l’ultima speranza prima della chiusura è quella di integrarlo con la Chrysler. Vista anche l’esperienza passata, l’obiettivo del nuovo piano, che mira alla produzione entro pochi anni di 500.000 auto con il marchio Alfa, appare per lo meno molto ambizioso.
Nel 2007 la Chrysler aveva venduto 2,6 milioni di vetture nel mondo. Nel 2009 siamo ormai a meno di 1 milione di vetture negli Stati Uniti e a 1,4 milioni in tutto; nel 2010, l’anno più critico, si dovrebbero comunque vendere 1,1 milioni di auto negli Stati Uniti e 1,6 milioni nel mondo.
I piani per il gruppo sono per la produzione di 6,0 milioni di veicoli entro il 2014, di cui 2,8 milioni alla Chrysler.
Osservatori distaccati (Gapper, 2010) affermano che probabilmente Marchionne riuscirà nel breve termine a stabilizzare la società Usa, arricchire la gamma dei suoi modelli, restituire i soldi prestati dal governo e le prime indicazioni vanno in effetti in questo senso.
Invece dovrebbe essere difficile che nel lungo termine egli riesca a inserire il gruppo complessivo tra i produttori di serie A. Le sue carte sono relativamente deboli. L’azienda ha un cattivo portafoglio prodotti, fatto di un’insieme di marchi di peso quasi solo nazionale e mettere ordine nel sistema appare difficile. Bisogna poi considerare una rete di distribuzione e di assistenza largamente inadeguata, tranne che in Italia e in Brasile ed ora anche negli Stati Uniti. Inoltre, l’ elevata redditività brasiliana, che tiene su i conti del gruppo, appare insostenibile nel medio termine, mentre in Europa i margini di crescita appaiono scarsi.
La società torinese ha una posizione di leadership per quanto riguarda le tecnologie di propulsione tradizionali, benzina e diesel; appare invece indietro per quanto riguarda gli ibridi e l’auto elettrica, anche se viene ora annunciato che entro il 2002 sarà prodotta in Usa una 500 con tale tipo di propulsione. Ma per avanzare in maniera adeguata in queste aree sono richiesti grandi investimenti che l’azienda non sembra potersi permettere, né sembra che il nostro governo abbia alcuna voglia di intervenire con programmi di stimolo alla ricerca nel settore.
Indubbiamente non è un’impresa da poco essere riusciti a entrare nella Chrysler, ad avviare il nuovo impianto in Russia, a partire in Cina, senza sborsare un centesimo. Ma il gioco non può andare avanti all’infinito. Peraltro, anche le risorse umane sembrano troppo impegnate contemporaneamente in troppe direzioni.
1- Continua (La bibliografia sarà pubblicata alla fine della seconda parte)
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