Una delegazione italiana di politici del centrosinistra e ong ha incontrato nei giorni scorsi all’Aja i vertici della Corte penale internazionale. C’è grande allarme sul possibile sanzionamento il prossimo 3 gennaio del Cpi da parte del Senato Usa, parificando di fatto la Corte ad un gruppo terroristico.
La Corte Penale Internazionale è sotto attacco. A rischio è la sopravvivenza stessa dell’architettura istituzionale su cui si basa il diritto internazionale. Venerdì 13 dicembre a varcare la soglia del palazzo della CPI nella periferia dell’Aja è stata una delegazione mista di società civile e parlamentari italiani ed europei del M5S, PD e AVS. Siamo stati ricevuti, in tre incontri successivi, dai membri della Corte tra i quali il primo vicepresidente Rosario Aitala, la rappresentante dell’Ufficio legale delle vittime Paolina Massidda, la portavoce Greta Barbone, i rappresentanti dell’ufficio del Procuratore Fabio Rossi e Matilde Gawronski. La delegazione faceva seguito alla carovana solidale che si era recata al valico di Rafah, lato egiziano, nella primavera scorsa. All’Aja facevo parte, con Meri Calvelli e Yousef Hamdouna, della delegazione di AOI, l’Associazione delle Ong italiane. Con noi, a completare la delegazione della società civile, il presidente dell’Arci Walter Massa e Luisa Morgantini di AssopacePalestina. Quello che abbiamo appreso dai giudici e dai funzionari della Corte ci ha sorpreso per la gravità delle cose che abbiamo appreso ed allarmato per le sue drammatiche conseguenze. Sono stati incontri ricchi di dati e d’informazioni ma ovviamente non di dettagli sulle indagini in corso. Tuttavia, sul caso che riguarda Israele e Palestina, ci hanno informato che il lavoro di ricerca è stato meticoloso nella raccolta delle testimonianze, nell’utilizzo delle nuove tecnologie, nella raccolta dei video pubblicati dai social da entrambe le parti. Il team che ha indagato sul premier israeliano Benjamin Netanyahu, sull’ex ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant e su Mahammed Deif, leader delle Brigate Ezzedin al Qassam, braccio armato di Hamas, ha affrontato l’indagine con cautela e senza condizionamenti esterni, facendo molta attenzione a esporre pubblicamente i passaggi fatti, nonostante le difficoltà di accesso sul campo.
Particolarmente intenso l’incontro con il giudice Rosario Salvatore Aitala ed ha affrontato diversi dossier in Paesi dove operiamo come Ong. C’è stato ricordato per esempio come l’Unione Africana vietò l’attuazione dei mandati di cattura del Presidente del Sudan, Omar Hassan Ahmad Al Bashir e del suo ministro dell’Interno, mandati emessi per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra in Darfur. Si è accennato agli altri dossier come quella sulla persecuzione da parte del regime birmano della popolazione Rohingya attualmente sfollata dal Myanmar in Bangladesh in condizioni che dir precarie è un eufemismo. O come quello sull’Afghanistan, dopo l’ingloriosa ritirata delle truppe Nato, dove si stanno moltiplicando le persecuzioni di genere. Oppure quello della Repubblica Centroafricana dove la CPI ha portato in giudizio i capi di entrambe le milizie: le udienze sono state seguire sui maxi schermi in piazza a dimostrazione di un seguito popolare e di una particolare attenzione della popolazione coinvolta. E poi ancora il dossier sul Mali, dove è stato condannato uno degli esponenti dell’ISMA, la polizia religiosa. Un lavoro meticoloso, senza guardare in faccia a nessuno, garantendo imparzialità nei giudizi e professionalità nella raccolta delle prove.
Ci è stato riferito che ci sono dei mandati di cattura attualmente segreti che riguardano altre situazioni di competenza della Corte. Ma tutto rischia di saltare per aria se il 3 gennaio prossimi il Senato degli Usa voterà in forma definitiva la legge che sanziona i membri della Corte estendendo la legislazione antiterrorismo ai suoi componenti e a chi collabora con loro. Il nervo scoperto, che rischia di far saltare tutto, sono i mandati di cattura contro il primo ministro israeliano Netanyahu e il suo ex ministro della difesa Gallant. Dalla loro pubblicazione abbiamo assistito a dichiarazioni di alcuni capi di Stato di delegittimazione dell’operato della CPI, fino alle accuse di antisemitismo o, come nel caso del vicepresidente del Consiglio italiano Matteo Salvini, di essere “giudici islamici”. Per non parlare di scappatoie o immunità ad hoc fatte trasparire da alcune dichiarazioni dell’Eliseo o dichiarazioni, come quelle fatte in aula del Senato dalla Presidente Meloni, che definisce “atipici” i mandati di arresto a guerra ancora in corso. Eppure, non ci vuole una laurea in giurisprudenza per capire che quei mandati di arresto vogliono proprio impedire che il crimine di genocidio o di guerra possa replicarsi e continuare impunemente all’infinito, come nel caso dell’incriminazione di Vladimir Putin.
C’è stato chiesto di “salvare la Corte” davanti ad attacchi che puntano a sabotarne l’azione. D’altronde la CPI è l’unico organo multilaterale che ancora funziona da quando il Consiglio di sicurezza dell’Onu è rimasto bloccato dai veti incrociati, cioè dallo scoppio della guerra di Siria in poi. Attentare al suo funzionamento significa far regredire l’umanità alla legge della giungla. Il modo più semplice per ostacolarne il lavoro e buttarne a mare tutta l’architettura istituzionale sono proprio le sanzioni. Ad inquietare sono anche le affermazioni del Consigliere per la sicurezza di Donald Trump, Michael Waltz, che ha definito la Corte dell’Aja come una “istituzione tossica”. Una singolare convergenza con le parole del vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo Dimitri Medvedev, che ha affermato come la Carta di Roma – quella firmata nel 1998 da 124 Stati per fondare la Cpi – sia da considerare “carta straccia”.
In entrambi i casi per la Federazione Russa (rispetto ai mandati di cattura di Putin) e per gli Usa (in relazione ai mandati di cattura contro i governanti israeliani) si applicano contro la Corte le norme antiterrorismo: l’inclusione dei suoi membri nella lista nera, l’impossibilità degli stessi di viaggiare, la disposizione di avere un proprio conto corrente in banche obbligate ad applicare le sanzioni ecc. Le ripercussioni concrete sulla Corte sarebbero devastanti: il blocco di Microsoft avrebbe per esempio l’impossibilità d’immagazzinare e condividere i dati delle indagini, si pregiudicherebbe l’incolumità dei testimoni, si manderebbe in default, colpendo il credito bancario all’istituzione, l’intera Corte Penale con incertezza sul destino dei prigionieri detenuti dalla CPI in un’ala speciale del carcere olandese dell’Aja. Pensiamo cosa significherebbe – è il caso di Gaza ma non solo- non poter più accedere alle immagini satellitari per individuare l’impatto dei bombardamenti e delle operazioni belliche sulle infrastrutture civili e sulla popolazione.
Ci è stato detto che se i procedimenti penali sono un ostacolo al raggiungimento della pace, gli Stati hanno possibilità, evidenziando progressi verso quella strada, di chiedere alla Corte la sospensione dei mandati di cattura. Ma per farlo gli Stati dovrebbero mettere in campo, sia sul versante israelo-palestinese che su quello russo-ucraino, una iniziativa diplomatica per il cessate il fuoco, per bloccare l’invio delle armi ai contendenti, per sanzioni atte a costringere le parti a sedersi al tavolo delle trattative.
I giudici hanno per il momento scelto di non parlare alla stampa della vicenda delle sanzioni ma, ci è stato riferito, incominceranno a farlo il 3 gennaio se il Senato Usa approverà il provvedimento che, per unanime condivisione di chi ci ha ricevuto, è destinato “a distruggere la Corte”. Senza la Corte, “la Ue è finita”, perché verrebbe uccisa la politica e il diritto internazionale. Oltre a ciò, in gioco c’è anche il destino di oltre 1.000 dipendenti di 109 paesi.
La doppia morale, o se vogliamo il “doppiopesismo”, secondo i giudici esiste nel Consiglio di Sicurezza Onu ma non nella Corte Penale Internazionale (si è parlato della Corte anche come argine “alla tracotanza del potere dei governi”). Come attenuare le sanzioni è argomento di discussione. In particolare ci vorrebbe un ombrello UE a protezione delle aziende che verrebbero colpite nel loro rapporto con la CPI.
Per capire il valore e il lavoro della Corte è utile sapere che dal 2005 ad oggi l’Ufficio di assistenza delle Vittime si è occupato di 85 mila persone.
Come AOI siamo intervenuti proprio su questo, ricordando il ruolo delle Ong come testimoni delle persecuzioni e degli atti criminali contro la popolazione civile. I nostri rapporti e denunce sul campo hanno contribuito in modo importante alle inchieste in corso. La Knesset, il Parlamento israeliano, ha varato una legge liberticida equiparando a terroristi chiunque collabora con la CPI. Un momento di forte commozione si è avuto quando ha preso la parola l’italo-palestinese Yousef Hamndouna ricordando come la popolazione di Gaza ripone nella Corte e nel diritto internazionale le uniche possibilità di veder riconosciuti i propri diritti ed avere giustizia sui crimini subiti.
Purtroppo si teme che l’intero team che lavora su Gaza (una trentina di persone) e che non ha avuto accesso a quel territorio per decisione israeliana, possa essere messo nella lista nera e sottoposto a sanzioni.
La risposta alle obiezioni avanzate anche da alcuni esponenti di governo italiani, sulla non obbligatorietà da parte degli Stati dell’esecuzione dei mandati di arresto è stata chiara e inequivoca. L’Italia, in quanto firmataria degli accordi di Roma e componente della CPI, è tenuta alla piena collaborazione e all’attuazione dei mandati di cattura. Forse il governo italiano attende l’emanazione da parte della nuova amministrazione Trump proprio di quelle sanzioni che farebbero saltare l’intera Corte Penale Internazionale e trascinare, per questa via, anche la Corte Internazionale di Giustizia e la sua richiesta di cessare il genocidio in corso a Gaza.