Nella conversazione Xi s’impegna per l’orizzonte di un cessate il fuoco prima possibile: in direzione opposta alla corsa attesa di offensive, cingoli, raid e nuove cataste di morti. Da il manifesto.
Ogni buon aspirante mediatore sa quanto sia cruciale il proprio timing. In una guerra che tende all’escalation, una mediazione percepita come un treno che può passare a ogni ora è un’iniziativa che ha scarse possibilità di rivelarsi decisiva.
La storia dei conflitti armati mostra che la mediazione efficace è quella che interviene quando si è raggiunto un punto di stallo, la fase in cui le parti sono stanche, i risultati delle iniziative militari sono elusivi, e si affaccia l’idea di poter perdere meno – nonostante le incognite a cui ci si espone sul piano del consenso interno – dall’avvicinarsi a un tavolo di negoziato, rispetto al sostenere i costi imputabili al trascinarsi dei combattimenti.
Il quadro odierno, però, è assai diverso. Nonostante i rovesci e le difficoltà nella mobilitazione, Mosca non fa che ribadire di essere impegnata a conseguire tutti gli obiettivi stabiliti con il lancio dell’operazione speciale; nonostante la pressione di Pechino, non passa settimana senza che qualche gerarca putiniano non sventoli la minaccia atomica.
Al tempo stesso l’offensiva russa di primavera – se di tale si può parlare – non ha portato a significativi avanzamenti, risolvendosi nel consolidamento delle proprie posizioni di potenza occupante. Per quanto le centinaia di chilometri di fronte appaiano oggi relativamente stabilizzate, mai controffensiva è parsa più annunciata di quella che gli ucraini preparano per le prossime settimane, e di cui Kyiv ha bisogno, non da ultimo per mantenere il favore bipartisan degli Stati Uniti alla vigilia di una stagione elettorale. La stessa Nato ha dichiarato di aver ormai consegnato agli ucraini il 98% delle armi promesse (inclusi 230 carri armati), mentre il Pentagono ha affidato una commessa da quasi 5 miliardi di dollari alla Lockheed Martin per raddoppiare la produzione di sistemi di artiglieria lanciarazzi multipli di alta precisione (GMLRS).
Stando così le cose, a quale logica risponde l’esposizione cinese, con la a lungo attesa telefonata «lunga e significativa» fra Xi Jinping e Volodymir Zelensky?
Durante la conversazione Xi avrebbe impegnato la Cina sull’orizzonte di un cessate il fuoco il prima possibile: un intento che procede in direzione opposta rispetto alla corsa attesa dei cingoli, dell’artiglieria e degli incursori verso trincee e fortificazioni, verso nuove cataste di morti.
A chi è dunque diretto oggi il messaggio che Pechino ha mandato, riallacciando il filo del dialogo un quello che fino a ieri era un significativo partner commerciale? La prima ipotesi, imbevuta di auto-indulgenza occidentale, è che in fondo una telefonata non costi niente. Si sarebbe trattato di null’altro che di damage control: una corsa ai ripari di Pechino dopo le inavvedute dichiarazioni dell’ambasciatore cinese in Francia circa la dubbia sovranità dei paesi ex sovietici, Ucraina inclusa. Tuttavia, la freddezza con cui la telefonata è stata ricevuta a Mosca, tradisce il fatto che la telefonata ha toccato il nervo della legittimità politica, stabilendo un livello più che simbolico di riconoscimento fra leader nel parlare dei principi-cardine dell’ordine internazionale: ne viene evidenziata l’autonomia della Cina, già mediatrice fra Iran e Arabia Saudita, quale facilitatore responsabile e coerente, che persegue la causa della pace, non della Russia. In secondo luogo, con la telefonata Xi segnala come rispetto ad una guerra che cresce ci sia modo di essere rilevante coltivando il dialogo politico e astenendosi dall’invio di armi.
Certo, in assenza di condanna dell’invasione russa, in Occidente nessuno legge questa circostanza come sufficiente per una qualifica di neutralità, ma il messaggio di attenzione all’Europa arriva chiaro: dopo i leader europei volati a Pechino nelle scorse settimane e alla vigilia di nuove offensive di terra in Ucraina, si tratta per Pechino di coltivare, per lo meno nell’Europa continentale, uno spazio non interamente schiacciato sull’atlantismo quale specchio delle volontà e delle disposizioni militari statunitensi. Indicativo è stato, a tal riguardo, lo scetticismo infastidito con cui la Casa Bianca ha liquidato nei giorni scorsi l’auspicio di Emmanuel Macron di un maggior impegno di Pechino su Mosca per preparare il terreno di un tavolo negoziale.
Tutto questo avviene, beninteso, mentre il ministro della difesa cinese Li Shangfu continua ad incontrare il suo omologo russo, a Mosca come in India, in presenza di incaricati legati al comparto della difesa. Ma a Bruxelles è in corso l’elaborazione di una nuova linea sulla Cina, nelle capitali europee si parla di ricostruzione dell’Ucraina, e in questo quadro la Cina non può ridurre le proprie aspirazioni globali, la propria visione di una stabilità egemonica, alle avventuristiche volontà del Cremlino, rischiando di restare esclusa dai tavoli in cui, decidendo il futuro dell’Ucraina, si parla anche dell’ordine internazionale.
Il fatto che Xi abbia esplicitato la propria vicinanza alle istanze poste dalla Russia di Putin, e al tempo stesso si smarchi dal Cremlino nel proporsi come interlocutore di Europa ed Ucraina, ci dice qualcosa della preoccupazione della leadership cinese circa la capacità di Putin di ottenere successo in questa guerra. Alla Cina di Xi conviene congelare il fronte con i territori annessi dai russi: il che significa la sopravvivenza a Mosca di un regime relativamente isolato e dipendente, e un ruolo per sé nell’affermare una prospettiva di pace nel teatro europeo. A chi oggi si mobilita contro la guerra, il difficile compito di sempre: districarsi dall’idea di pace tenuta ostaggio da logiche di potenza.
Articolo pubblicato da il manifesto del 29 aprile 2023