Il salario minimo fissato per legge, la nuova direttiva europea appena annunciata ha riaperto il dibattito tra pro e contro. Ma bisogna calarlo nella realtà fattuale e chiarire che si applicherebbe solo ai lavoratori già coperti da contratti collettivi, non ai precari e agli informali.
Una vignetta di Mauro Biani l’anno scorso diceva: “L’Italia è una nazione fondata sui lavoretti”. Il recente accordo raggiunto a Bruxelles, per arrivare nel giro di qualche mese a una nuova direttiva che diffonda l’istituzione del salario minimo tra i 27 paesi dell’Unione che ancora non ce l’hanno, ha spinto una parte dell’opinione pubblica italiana a ritenere che si potrà in questo modo ristabilire almeno un po’ il senso vero dell’articolo 1 della Costituzione: lavoro e non lavoretti.
L’idea che sembra andare per la maggiore anche in molti commenti politici è: in Italia i salari non crescono da trent’anni (come spiega l’analisi di Roberto Romano) mentre in paesi come la Germania e la Francia gli aumenti salariali nel frattempo sono stati a due cifre, in Italia a differenza di altri 21 Paesi dei 27 non esiste il salario minimo legale, quindi se introduciamo anche in Italia il salario minimo legale il lavoro non sarà più sottopagato come adesso, si porrà un argine al lavoro povero e agli stipendi da fame. E magari si potrà anche procedere a indicizzare i salari più bassi per via quasi automatica. L’assioma però non è corretto, nasconde alcuni dati sottaciuti su cui riflettere e fa commistione di piani di analisi.
Il primo dato da mettere in luce è che il salario minimo legale sarebbe in ogni caso applicabile solo ai lavoratori subordinati, i quali in Italia sono già coperti dalla contrattazione collettiva. Precariato, false partite Iva mono-committenti, stagisti, apprendisti, falsi autonomi come i rider, lavoratori al nero, giovani o meno giovani professionisti al di sotto dell’equo compenso non sono interessati dall’arrivo di questo plafond di riferimento. E anche tutti gli altri, se pagati meno, dovrebbero in ogni caso istruire una causa per ottenere l’applicazione del parametro di riferimento legale, che oggi nella giurisprudenza viene stabilito prendendo a parametro i minimi contrattuali di settore firmati dai sindacati maggiormente rappresentativi in virtù dell’applicazione dell’articolo 36 della Costituzione che parla di retribuzione “sufficiente” e “proporzionata”. I sindacati sono sempre stati contrari al salario minimo che avrebbe dovuto essere introdotto con un decreto applicativo in base al Jobs Act, decreto che poi non è stato mai emanato né dal governo Renzi né dagli altri che si sono succeduti finora. Mentre il Jobs Act ha comunque reso possibili e legali decine e decine di tipologie contrattuali anche atipiche e a chiamata, “a gettone” come dicevamo con Sbilanciamoci con il Workers Act, anche di poche ore, a somministrazione, contratti legali che precarizzano le condizioni di lavoro ma in ogni caso offrono paghe orarie relativamente più alte anche dei minimi tabellari.
Quando si parla di lavoro fragile, povero o “working poor”, cioè di chi pur avendo un lavoro continua a essere povero, si parla di un fenomeno dai contorni ancora meno netti, in gran parte caratterizzato da poche ore di lavoro retribuito e da part-time involontari, che riguardano il 40 per cento della forza lavoro femminile e il 25 per cento di quella maschile. In questi casi si può anche fissare una paga oraria più alta ma nel caso il lavoratore la rivendichi senza un supporto di tutela, legale o sindacale, è possibile che il datore di lavoro reagisca diminuendo il volume delle ore pagate “al bianco”.
Nel nostro Paese la contrattazione arriva a percentuali che sfiorano il cento per cento della forza lavoro dipendente (96%). Proprio per questa ragione la direttiva europea abbozzata il 7 giugno scorso a Bruxelles, che nella ragione di fondo è speculare a quella precedente sul medesimo tema, non obbliga l’Italia a recepirne i dettami. L’obiettivo finale della direttiva, che per essere definitivamente approvata dovrà ora passare al vaglio del Consiglio e del Parlamento europeo, è proprio quello di estendere la copertura contrattuale dei lavoratori, in special modo in paesi come la Bulgaria e la Romania dove le paghe orarie sono le più basse – anche se è fissato il minimo salariale – e dove più si attuano pratiche di dumping salariale – oltre che fiscale – e delocalizzazioni di comodo per sfruttare il più basso costo del lavoro.
In Italia sono registrati al Cnel circa 900 contratti di lavoro, tra quelli siglati dalle organizzazioni più rappresentative – Cgil, Cisl e Uil – e quelli detti “pirata” firmati da sindacati “gialli” o di comodo. Ma a parte eccezioni che si contano sulle dita di una mano, tutti i contratti, siano essi pirata o no, presentano minimi tabellari più alti dei 9 euro l’ora che è la soglia fissata come possibile minimo legale dalla proposta di legge presentata nel 2021 dall’ex ministra del Lavoro del Movimento Cinque Stelle Nunzia Catalfo, proposta che attualmente giace al Senato. Questa disparità tra minimi contrattuali e salario legale non è casuale, in tutti i paesi dove esiste il minimo salariale fissato per legge, quest’ultimo è inferiore ai minimi contrattuali. E secondo alcuni esperti, come il professor Vincenzo Bavaro dell’università di Bari, è impossibile che fissando un minimo salariale legale non avvenga un dumping nazionale, cioè una fuga dai contratti nazionali a vantaggio dell’applicazione del minimo di legge, anche e soprattutto come indicazione nelle cause di lavoro. Secondo la giuslavorista Roberta Bortone, allieva di Gino Giugni, si potrebbe persino verificare una fuga dalla subordinazione verso il lido del lavoro autonomo o a partita Iva.
Per evitare un simile fuggi-fuggi sarebbe necessario quanto meno che i contratti nazionali firmati dalle organizzazioni leader o maggiormente rappresentative avessero una cogenza di legge, fossero dunque considerati “erga omnes” anche a termine di legge. E questa modifica renderebbe persino inutile introdurre il salario minimo legale, se non come bandiera di riferimento per micro aziende familiari o casi che esulano dalla contrattazione. La Cgil lo chiede da tempo.
Del resto esiste il caso della Gran Bretagna e quello degli Stati Uniti d’America dove negli anni Ottanta e Novanta, in epoca thatcheriana e reaganiana, l’introduzione del salario minimo è andato di pari passo a una forza declinante dei sindacati e della contrattazione collettiva, secondo alcuni con una relazione di causa-effetto. Il contesto di allora in questi due paesi non è paragonabile a quello odierno da noi. E lo stesso non è ancora chiaro cosa si verificherà in una situazione più simile – ma non uguale – alla nostra come la Germania, dove il salario minimo legale è stato istituito di recente dal nuovo premier Olaf Scholz pure in presenza di un forte potere, molto regolato, dei sindacati tedeschi.
Come ha spiegato il presidente dell’Inps Pasquale Tridico, intervistato dal professor Guglielmo Meardi della Scuola Normale Superiore in un recente webinar sul salario minimo, e come ha confermato in interviste la stessa Catalfo, la cifra dei 9 euro l’ora risulta come media di altre due medie che sono anche la forchetta di riferimento della direttiva: il 60 per cento del salario mediano e il 50 per cento del salario medio. Sotto queste medie in effetti in Italia giace il 29 per cento della forza lavoro dipendente (un totale circa 18 milioni di persone), pertanto una massa di 4,5 milioni di lavoratori per i quali i sindacati non riescono a ottenere aumenti significativi, partendo da una stasi degli stipendi che dura da 25 anni in virtù del mantra della “moderazione salariale” e della bassa produttività del lavoro in quei campi, generalmente relativi al settore servizi ma anche all’edilizia e all’agricoltura, comunque a bassa incidenza tecnologica.
I salari però non vengono pagati a ore, ma per lo più mensilmente. Calcolando i 9 euro orari lordi per un salario di 40 ore settimanali di un contratto full-time si ottiene un imponibile di circa 1.500 euro che significa uno stipendio annuo tra 1.000 e 1.100 euro netti al mese. Se si prende a riferimento il contratto si avrà in più i riferimenti agli straordinari, alle ferie, al Tfr e ad altri benefit della contrattazione di secondo livello a seconda dell’inquadramento. Quindi mille-mille e cinquento euro è un salario considerato “dignitoso” secondo il combinato disposto delle valutazioni del progetto Catalfo e della direttive varate da Ursula von Der Leyen.
Si tratta in effetti di una cifra molto bassa, praticamente il doppio del reddito di cittadinanza, una cifra alla quale non arrivano ad esempio molti cococo (collaboratori coordinati e e continuativi), forma di lavoro informale pagata a forfait che ha avuto un’esplosione in tutti i periodi, come adesso con la pandemia, nei quali sono stati liberalizzati i contratti a tempo determinato senza necessità di indicare la necessità specifica per picchi di lavoro o a progetto. In Spagna una recente legge ha proibito i contratti a tempo senza una fondata e motivata ragione e reiterati nel tempo, in ciò copiando il decreto Dignità italiano ora scaduto, e si è verificato un forte aumento dei contratti a tempo indeterminato.
Nel webinar con Tridico, il professor Meardi, studioso in particolare degli effetti del salario minimo in Inghilterra, conferma che “il grosso del lavoro povero in Italia è formato da forme contrattuali non dipendenti”, cioè precarie o informali. Mentre il giuslavorista Emanuele Menegatti, molto favorevole all’introduzione del salario minimo, ammette che la dinamica salariale stagnante in Italia è in particolare determinata da contratti di poche ore, anche soltanto quattro o cinque al giorno.
Sapere per ogni datore di lavoro chi paga, quanto lo paga, in base a quale contratto, quale inquadramento e per quante ore, sarebbe fondamentale. Secondo l’economista del lavoro Michele Raitano per ottenere questi dati occorrerebbe un decreto che imponesse all’Inps di monitorare anche queste variabili nella comunicazione obbligatoria dovuta dall’impresa per l’accensione di qualsiasi rapporto di lavoro. Un provvedimento di grande impatto ma poco mediaticamente e politicamente visibile.
C’è infine il tema degli aumenti salariali, fondamentale in questo momento di inflazione tornata a valori da anni Settanta con grossi rischi di paralisi dei consumi in beni durevoli e involuzione della domanda aggregata. In base alla direttiva annunciata, il nuovo parametro salariale dovrebbe essere fissato ogni due anni (massimo ogni quattro) da una apposita commissione, sentite le parti sociali: si istituirebbe così una forma di concertazione salariale pur distante dalla vecchia scala mobile.
Questo meccanismo, in capo al Cnel che è organo costituzionale, secondo Tridico potrebbe comportare un effetto a catena di aumenti salariali anche negli scaglioni di reddito superiori, attraverso la contrattazione. Di tutt’altro avviso è l’economista del lavoro Fabrizio Patriarca, secondo il quale, la dinamica del salario minimo potrebbe invece comportare una rincorsa salariale confinata negli scaglioni più bassi, tra contratti al minimo e salario minimo, con effetto appiattimento sugli scaglioni di reddito immediatamente superiori.
Dei sei paesi che ancora non hanno il salario minimo legale, i più sviluppati l’Austria e gli scandinavi Svezia, Finlandia, Danimarca non hanno nessuna intenzione di intraprendere questa via cogliendo l’opportunità della direttiva europea. L’unico altro paese mediterraneo – Cipro – avrebbe invece optato per seguire soluzione. Un esperimento in vitro, quello cipriota, che resta distante dalle condizioni di partenza dell’Italia. Da noi la bandiera del salario minimo sembra destinata a essere posta sul tavolo della campagna elettorale per le legislative del 2023. Il ministro del Lavoro Andrea Orlando però non appare disponibile a utilizzare argomenti invisi alle forze sindacali e persino a Confindustria e si attiene al momento a una proposta, per altro ancora non formulata neanche in bozza, che prende a riferimento il trattamento economico minimo contenuto nei contratti maggiormente e comparativamente più rappresentativi, cioè i minimi tabellari: niente salario minimo dunque.