Aumentano disuguaglianze e povertà in tutti gli Stati membri. Siamo passati dalla Grande Depressione al Grande Malessere. Tutti i numeri della crisi italiana
Ormai ci abbiamo fatto l’abitudine: sono tre, quattro anni che i nostri governanti a Roma come a Bruxelles ci dicono che la crisi sta per finire, che “si vede la luce in fondo al tunnel” – ricordate Mario Monti che non si rendeva conto che la luce che vedeva non era che quel treno che lo avrebbe investito? – che “ci sono incoraggianti segnali di ripresa”. Intanto anche il 2014 si prospetta grigio, questa volta da -1,8% passeremo forse ad un più-zero-virgola (e però, anche le previsioni, quante volte sono state riviste al ribasso?). L’ultimo timido uno-virgola noi italiani lo abbiamo avuto nel 2007 rispetto al 2006 (dati Eurostat), un anno in cui comunque l’area Euro è cresciuta del 3% (con l’Italia, come sempre, che resta indietro). Dopo il crollo del 2009 e il “rimbalzo” del 2010, l’encefalogramma è tornato piatto. La Grecia sono sei anni che vede un segno meno, con una diminuzione cumulata del 25,7%: ciò significa che l’economia greca, in questi sei anni, si è ridotta di un quarto. L’Italia, al confronto, si è solo ridotta dell’8,8%. Nessuno, in Europa, ha fatto peggio di noi e degli amici greci.
Se la crescita non si vede, la decrescita è invece cominciata. Quella infelice, però, non quella di cui ci narrano Serge Latouche e i suoi seguaci italiani. Quella delle dismissioni, del precariato, delle ordinarie cronache di miseria, dei tagli alla spesa, delle spending review. Gli ultimi dati sulla disoccupazione in Europa pubblicati da Eurostat un paio di settimane fa riferiscono che in novembre 2013 ventisei milioni e cinquecento mila donne e uomini nei 28 paesi dell’Unione erano ufficialmente disoccupati, cui vanno aggiunti i senza-lavoro che hanno rinunciato a cercarlo. La Grecia svetta per il più alto tasso di disoccupazione (27.4%), seguita dalla Spagna (26.7%). L’Italia, con un più modesto 12.7%, è comunque tra i quattordici paesi in cui il tasso, nell’ultimo anno, ha continuato ad aumentare. Tra gli under-25 la situazione è quasi drammatica: uno su quattro in Europa non trova lavoro, in Italia abbiamo raggiunto il 41.6% e in Grecia e Spagna sono mesi che ha superato il 50%!
Dall’inizio dell’ultima crisi, l’economia europea ha perduto 5 milioni di posti di lavoro (secondo lo European Jobs Monitor). Quello che si sta verificando nel mercato del lavoro è una polarizzazione della struttura salariale, con una perdita delle occupazioni nei salari mediani. Sono i salari alti che vedono poca disoccupazione e pochi licenziamenti e sono i salari bassi quelli per i quali si ha turn-over più frequente. Quelli con i salari medi, semplicemente, vedono chiudersi le porte del mercato per sempre, e la disoccupazione di lungo periodo aumenta.
Secondo i dati diffusi dalla Cgil, in Italia, i lavoratori in cassa integrazione a zero ore hanno superato il mezzo milione, e le ore erogate sono state più di un miliardo. La perdita stimata in termini di salario nel 2013 è stata di 4,125 miliardi di euro.
Se poi guardiamo dentro ai dati dell’occupazione vediamo che lavoro part-time e precario sono aumentati. Anzi, possiamo dire che l’unica forma di occupazione che vede un aumento consistente è quella. In Europa, tra il 2001 e il 2011, il lavoro part-time è passato dal 15.8% al 20.9% del totale (dati Eurostat). In Germania, più di un lavoratore su quattro è a tempo parziale, come in Danimarca, Austria, Svezia e Gran Bretagna (in Svizzera sono addirittura il 35% del totale degli occupati). In Olanda, uno su due è part-time. In Italia, la quota è quasi raddoppiata nel decennio, passando dall’8,4 al 15,5%. Da notare che la grande maggioranza dei lavoratori part-time sono donne (in Olanda l’80% delle donne ha un contratto a tempo parziale). Il lavoro part-time non è sempre negativo, perché concede elasticità anche ai lavoratori. Purtroppo, però, finisce per associarsi a tassi salariali inferiori, a parità di mansioni, e instabilità contrattuale, oltreché, naturalmente, a redditi da lavoro inferiori. E, di fatto, configura sotto-occupazione, non vera occupazione.(1)
I dati sui fallimenti e sulle imprese che chiudono non sono meno allarmanti. Il “bollettino di guerra” della Grande Recessione riporta che il 2013 in Italia si è chiuso con 14.296 fallimenti, il 14% in più rispetto al 2012 e più del doppio del 2009. In cinque anni hanno chiuso i cancelli in Italia quasi 60 mila imprese e il 2013 ha visto solo un peggioramento.
Però, riportano i giornali, le agenzie di rating premiano i casi virtuosi, e sono tornate a dare la promozione all’Irlanda, dopo il salasso subito, che così ora si è liberata dallo status di “quasi spazzatura” per i suoi bonds e gli investitori possono così tornare a Dublino e bere Guinness. Il tasso di disoccupazione nella verde ex tigre europea, che nel 2001 era un bel 3.9% – quando in Italia era al 9% – nel 2012 era salito fino al 14.7%. Il peggio è passato, dicono, anche se il debito pubblico – accumulatosi solo dopo il 2008 per far fronte alla crisi finanziaria – è il quarto in Europa, vicino al 124% del Pil. E la crescita dell’economia è ancora troppo lenta per invertire la rotta. Quello che queste statistiche non rivelano è che l’Irlanda è tornato ad essere un paese di emigranti. Dal 2008, più di 50.000 irlandesi se ne sono andati ogni anno e in sei anni sono già più di 450.000 quelli che hanno lasciato il paese (su una popolazione di quattro milioni e mezzo di abitanti), come avevano fatto i loro nonni.
La decrescita infelice è pervasiva. Le ultime statistiche europee riferiscono che un cittadino europeo su quattro è a rischio di povertà o esclusione sociale (ovvero o è povero o è in una condizione molto vicina alla povertà e che rischia di diventare tale). Il dato (riferito al 2012) è impressionante. In Italia, i poveri o quasi-poveri sono poco meno del 30%. Peggio di noi stanno i greci, i croati, bulgari e rumeni, lettoni, lituani e ungheresi. Il fatto è che in Italia un minorenne su tre è povero o a rischio di povertà. Per avere un’idea, si consideri che la “soglia” sotto alla quale si rientra nella categoria è, per l’Italia, di 9.617 euro annui di reddito. Ciò significa che ci sono 15 milioni di italiani che (sopra)vivono con meno di diecimila euro l’anno. Uno scandalo. “Living standards are falling in most Member States”, titolava lo scarno bollettino di Eurostat di qualche mese fa.
Certo, la politica può fare qualcosa, non solo promettere. Trasferimenti sociali e sussidi sono un modo. Il tasso di povertà ed esclusione sociale misurato per l’intera Ue dopo i trasferimenti segna un calo di quasi nove punti, dal 25.9% al 17%. In Italia, il calo è di appena cinque punti, perché come è noto l’Italia è tra i paesi dell’Unione che spende meno per anziani, malati e per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale. Eppure si continua a dire che la spesa sociale è troppo alta in Italia. Secondo i dati OECD, la spesa sociale complessiva ha raggiunto il 28.3% del Pil nel 2013 (era il 25% nel 2006, ma il Pil era maggiore, allora). Di più spendono Belgio (30.7%, Danimarca (30.8%), Finlandia (30.5%), Francia (33%) e Svezia (28.6%).
Anche la diseguaglianza, al pari della povertà, è in continuo aumento in Europa e dal 2000 non è mai calata. Il rapporto tra il reddito del 20% più ricco della popolazione e quello del 20% più povero è ora arrivato al 5.1: in Italia è al 5.5, in Spagna al 7.2 e in Grecia al 6.6, mentre in Francia e Germania è ancora al 4.4. Afferma un rapporto di Oxfam del settembre scorso: European austerity programmes have dismantled the mechanisms that reduce inequality and enable equitable growth. With inequality and poverty on the rise, Europe is facing a lost decade. An additional 15 to 25 million people across Europe could face the prospect of living in poverty by 2025 if austerity measures continue.
Eppure, the great malaise drags on, come titolava l’articolo di Stiglitz uscito qualche giorno fa su Social Europe: “Abbiamo evitato una Grande Depressione solo per ritrovarci in un Grande Malessere”. E cosa fanno i nostri governanti? Aspettano, incapaci di mettere in discussione i dogmi cui hanno aderito, fiduciosi che i mercati e l’economia si rimetteranno in moto. I mercati non si sono mai fermati, se è per questo, e questo è proprio il risultato. La pressione della globalizzazione e dei mercati finanziari non lascia scampo, altro che “austerità espansiva”. Quanta ipocrisia in quelle facce sorridenti nella foto di gruppo del luglio scorso a Parigi: “EU leaders promise jobs for ‘lost generation’ of youth“, titolavano le agenzie. Hanno concesso lo sforamento del vincolo di bilancio per salvare le banche e non trovano il coraggio di consentire politiche espansive e fermare i tagli alla spesa sociale che potrebbero fermare il devastante impatto sociale della crisi. Sei miliardi di euro messi in piano per i prossimi anni per “occupazione e formazione”. “È cruciale agire in fretta”, ha affermato Hollande al termine del summit, “non possiamo abbandonare un’intera generazione… abbiamo bisogno di posti di lavoro e formazione per dare ai giovani reali prospettive”. Il buon Marcello De Cecco, come molti altri ormai, ricordava qualche giorno fa che senza rilanciare la domanda interna l’economia non riparte.
I nostri leader sono malati di Euro-sclerosi. Non sanno che stringersi nelle braccia pensando che “stanno facendo la cosa giusta” aderendo alle regole di Maastricht e che se l’economia non riparte, se le industrie non creano posti di lavoro loro non ci possono fare nulla. E sì che potrebbero. Come si posero i Roosevelt di fronte alla Grande Depressione, forse guardando al loro vincolo di bilancio? E non siamo forse di fronte ad una deprimente grande recessione che vede progressivamente accentuarsi le disparità e diminuire gli standard di vita per la maggioranza della popolazione? Loro, i nostri governanti attuali, sanno solo sperare che l’economia si riprenda.
Presi per il collo dai famosi investitori – “ora che la crisi è passata, dovete ridurre il debito, altro che aumentare la spesa pubblica!” (2) – i Signori di Bruxelles e i loro pari nelle capitali d’Europa si affidano al mantra dell’austerity confidando nella buona sorte. Non è tanto la Bce da prendere per il bavero – anche se è pur vero che la sua politica è contrattiva, non espansiva, come dimostra la contrazione della base monetaria in Europa, (3) altro che quantitative easing – quanto i signori della Commissione, gli avvocati del rigore – sulle spalle dei meno abbienti – e gli eterni sostenitori del laissez faire: lasciateci fare, lasciateci prosperare, ai meno fortunati penserà la nostra caritatevole azione, dove c’è un bisogno sarà il mercato che saprà trovare un occasione di soddisfarlo, purché lo si lasci fare. Eppure, studi di fonte insospettabile già riportano che “coordinated austerity in euro-area countries has stifled economic recovery and deepened the crisis across the currency bloc”. Non è Krugman a dirlo, ma un recente rapporto di un economista della Commissione Europea, Jan in ‘t Veld. (4)
Non è che non vi siano strade alternative, quindi, è che non si vogliono prenderle. L’Europa sclerotizzata muore delle regole che si è date, incapace di reagire.
(1) Si veda “The underemployed part-time work in Europe”, Inequality Watch, 14 February 2013.
(2) “Insight: Ireland’s bailout report: Good, now fix public debt!” Reuters, 22 ottobre 2013. (3) Si veda il grafico pubblicato dalla BCE.(4) “Fiscal consolidations and spillovers in the Euro-area periphery and core”, Economic papers, DG Economic and Financial Affairs, October 2013.
Leggi qui il precedente articolo dello stesso autore:
L’Europa ipocrita e l’Euro-sclerosi