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Jeffrey Sachs, la Russia e la ‘shock therapy’

Un’intervista di Jeffrey Sachs al Corriere della Sera critica l’occidente, ma dimentica il ruolo che lo stesso Sachs – consigliere dei governi di Polonia, Slovenia e Russia negli anni ’90 – ha avuto nel tragico fallimento della transizione russa al mercato.

Jeffrey Sachs è l’economista che ha più direttamente influenzato la “terapia dello shock” del passaggio al mercato in Polonia, Slovenia e Russia negli anni novanta. In una lunga intervista al Corriere della Sera,  ‘Sachs: «Il grande errore degli Stati Uniti è credere che la Nato sconfiggerà la Russia»’ del 1 maggio 2022 ora punta il dito su alcune gravi responsabilità dell’Occidente, e soprattutto degli Usa, nei rapporti con la Russia.

In questo modo aiuta a capire molte cose, ma riesce anche a distrarre dalle proprie responsabilità: il tragico fallimento della transizione russa, che anziché pace e libertà ha finito per portare guerra e oppressione, non avrebbe nulla a che fare con le ricette da lui imposte nel 1992.

L’economista della Columbia University ha sicuramente ragione su alcune cose. Lui direttamente si occupò di politica monetaria, non di privatizzazione. E fu la privatizzazione cleptocratica l’aspetto sul lungo periodo più patologico della transizione russa. La liberalizzazione dei prezzi invece, come concordano anche i meno liberisti tra gli osservatori della Russia di quel periodo (ad esempio Branko Milanovic), era di per sé inevitabile, perché il sistema dei prezzi regolati era comunque saltato definitivamente e gli scambi si stavano interamente spostando sul mercato nero. Ed è anche plausibile (seppur non dimostrabile) l’argomento di Sachs secondo cui un aiuto economico dall’occidente, simile a quello offerto alla Polonia, avrebbe potuto attenuare la crisi sociale e politica della Russia, e ancorarla meglio ai principi della democrazia.

Ma tutto questo non esime Sachs dalle sue responsabilità. “Liberalizzare i prezzi” può essere fatto in tanti modi: non vuol dire necessariamente abbandonare ogni tipo di calmiere, né adottare la più restrittiva politica monetaria. Liberalizzare i prezzi non vuol dire necessariamente abbandonare qualsiasi tipo di razionamento dei beni di prima necessità e tagliare la spesa pubblica per raffreddare l’inflazione. Sachs scelse l’esplosione incontrollata seguita immediatamente dal raffreddamento glaciale: l’inflazione esplose al 245% al mese nel gennaio 1992 per scendere al 4% già nel gennaio 1994. In quei pochissimi anni, come effetto diretto dell’improvvisa disoccupazione e dei tagli alla sanità, l’aspettativa di vita della popolazione maschile crollò da 63 a 58 anni. In altre parole: non c’era scelta sulla liberalizzazione dei prezzi, ma c’era eccome tra il tagliare l’aumento dei prezzi e tagliare l’aumento della mortalità. Sachs raccomandò di scegliere la prima.

Le riforme di Sachs ebbero effetti gravissimi sulle diseguaglianze in tutti i paesi che seguirono le sue ricette, dalla Bolivia in poi. Ma ebbero anche conseguenze politiche: l’esperienza brutale dello “shock” distrusse la fiducia nel tessuto sociale, economico e politico, marcando indelebilmente l’esperienza della transizione come furto. In Polonia, per Sachs il caso positivo perché l’economia recuperò velocemente dopo la grave crisi indotta dalle sue ricette nel 1990-91 (-18% del PIL), l’esperienza del crollo dei salari reali del 30% negli stessi anni rimase indimenticabile, per molti mai più compensata. Quei molti che anziché premiare gli autori delle riforme oggi votano i populisti che parlano di rivoluzione tradita. In Russia la crisi sociale fu doppiamente grave e gli effetti politici ancor più deleteri. Il paese che venne fuori meglio dalle ricette di Sachs fu la Slovenia, ma proprio perché ben presto (aiutata anche dal fatto di non aver debito pregresso, essendo un nuovo stato) le abbandonò, passando dal modello ‘shock’ a quello del gradualismo.

Convincono poco le attenuanti che Sachs invoca. Anche se è vero che non fu lui responsabile della privatizzazione e dell’assenza di aiuti occidentali, non può certo sostenere che fosse all’oscuro di tutto. Avendo già l’esperienza boliviana, doveva sapere che aiuti economici massicci tipo Piano Marshall sono rarissimi e sempre con condizioni politiche, quindi poco probabili per un paese grande e indecifrabile come la Russia di allora. E se non fu lui a promuovere di privatizzare al più presto, a ogni costo e al primo arrivato, certo non usò il suo prestigio per allertare di quanto sarebbe stato grave farlo.

Jeffrey Sachs rimane un testimone importantissimo di quel periodo, assolutamente da ascoltare. Ma è un testimone con molti interessi in causa. E le sue invocazioni di oggi a Keynes non devono far scordare che fu dietro la più brutale “Grande Trasformazione” di mercato del XX secolo.