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Intervista a Luciana Castellina su pacifisti, Europa, Ucraina

Luciana Castellina – figura di spicco dei movimenti per la pace in Europa e in Italia dagli anni ’80 a oggi – racconta in una lunga video -intervista, qui trascritta, le ragioni della pace e del pacifismo di fronte alla guerra in Ucraina.

Qual è lo spazio per il pacifismo di fronte alla guerra in Ucraina? Il pacifismo appare debole nella sua risposta all’aggressione russa contro l’Ucraina. La via della diplomazia non appare – almeno per ora – un’opzione concreta per arrivare a uno status quo ante, e nel frattempo, ogni giorno muoiono civili innocenti. Ritieni giusta l’affermazione che il pacifismo in questo stadio della guerra – come in altri conflitti armati – non ha nessun spazio e nessun ruolo, e che dobbiamo lasciare il campo ai militari e alle grandi potenze come la Nato, gli Stati Uniti, la Ue, la Cina? Che spazio e ruolo hanno gli oppositori alla guerra in Russia e come possiamo sostenerli?

Vorrei rovesciare la domanda: quale ruolo ha la posizione dei non-pacifisti, di quelli che dicono che bisogna mandare le armi a dei ragazzi ucraini che probabilmente non sanno neanche usarle ma vogliano combattere, perché è una reazione umana pensare “se tu mi spari voglio sparare a te”? Però quando si parla di ministri, di parlamentari, di governi, allora dovrebbero reagire con più cervello di quanto non reagiscano dei ragazzi che sono stati così palesemente massacrati e offesi. Parlo di coloro che dovrebbero sapere che mandare le armi in Ucraina vuol dire soltanto far ammazzare una buona parte dei ragazzi ucraini. Già li ammazzano, perché non ci sono proprio le condizioni per la resistenza. E se dovessero trovare qualche difficoltà nell’ammazzarli, farebbero intervenire i carri armati e gli aerei della Nato? Dopodiché è evidente che quello che può succedere è la guerra mondiale, soprattutto perché stanno saltellando in un territorio che è pieno di centrali nucleari, dove un conflitto è molto più pericoloso di quanto non fosse nel deserto dell’Iraq. Qui siamo di fronte a una situazione piena di città abitate e piena di centrali nucleari. 

La posizione pacifista è il frutto di un ragionamento. Dobbiamo usare il cervello, non l’istinto. L’istinto è quello di dire armiamoci, partiamo. A me dà molto fastidio che adesso non si dica neppure “armiamoci e partiamo”, ma si dice “armiamoli e partite”. Tutte le volte che sento parlare questi ministri mi viene da dire: perché un Draghi o un Letta non dicono: “andiamo a combattere”? Questo sarebbe già più comprensibile, che si dica una cosa di questo genere. Ma che si pretenda di passare per chi resiste coraggiosamente perché mandiamo ad ammazzare i ragazzi ucraini e a rendere più dolorosa ancora la condizione di quelle donne, madri, zie, nonne, che si troverebbero di fronte al massacro? Prima di dire che pacifismo non aiuta, non serve – addirittura ci vogliono far passare come paurosi: “non vogliamo la guerra perché abbiamo paura della guerra” – vorrei che cominciassero a sentire quanto è orrendamente ipocrita dire “mandiamo le armi agli altri, agli ucraini”, e non rendersi conto delle conseguenze.

Non ho nessuna compiacenza nei confronti di questi signori che invocano la guerra. Perché sulla guerra oggi do ragione a Papa Francesco. Papa Francesco dice una cosa fondamentale: non è neanche più questione di stabilire chi ha torto e ha ragione, oggi anche una ‘guerra giusta’ non si potrebbe combattere. Una ‘guerra giusta’ un tempo poteva fare molti morti in una popolazione che era troppo debole per rivoltarsi e tuttavia si rivoltava: penso ai martiri del Risorgimento, delle guerre d’indipendenza, eccetera. Qui il caso è diverso. Un conflitto armato provocherebbe oggi la guerra mondiale. I morti sarebbero miliardi, perché sappiamo bene che il rischio di una guerra nucleare è del tutto aperto. Perché non appena uno si sente più debole, finisce per usare l’arma più micidiale, l’arma nucleare. E sono sicura che la userebbero i russi come la Nato. Questa frase di Papa Francesco è una frase coraggiosa sulla quale dobbiamo riflettere: oggi neppure le ‘guerre giuste’ possono essere combattute. Dobbiamo riflettere sulla giustezza di questa frase, anche per far capire che non è vero che o ti schieri da una parte o dall’altra. Non è una questione di chi è nel giusto e chi non è nel giusto. C’è una sproporzione, è evidente che Putin ha, non tutti, ma la maggioranza dei torti. Perché questa guerra è un raid, orrenda solo a pensarla. Però, appunto, anche una ‘guerra giusta’, una resistenza giusta, oggi non si possono fare. 

Tu dici: l’equidistanza, che è proprio la critica rivolta ai pacifisti. È dovuta non a motivi politici, per cui noi pacifisti non vogliamo stare né da un lato né all’altro, ma agli armamenti, che non permettono più una guerra giusta. È così?

Ogni conflitto va collocato nel suo contesto storico. Un conto era la guerra nell’Ottocento, un conto era la guerra nel Novecento, che è stata più disastrosa, ma oggi è impraticabile. A meno che non si voglia andare a dire: vabbè, tanto l’umanità deve morire, sparire per via del dissesto della terra, acceleriamo il processo e ci facciamoci fuori tutti in questo modo. Bisogna capire che fra le guerre, tra quelle fatte dai romani, dai greci, nel Medioevo e poi quelle nell’epoca moderna, oggi c’è una bella differenza. Questo è il primo dato su cui ragionare. Quando il Papa dice neanche una guerra giusta, cosa vuol dire? Neanche se noi sposiamo fino in fondo, e lo facciamo, la causa degli ucraini – è evidente che in questo momento non è certo al popolo ucraino che andrò a dire “sì, però anche voi avete fatto degli errori” – in questa situazione, con quello che sta succedendo nel loro Paese, non si può che stare dalla loro parte. Non è vero che siamo equidistanti, però diciamo: anche se avete ragione, riflettete un attimo, perché ogni cosa che si fa in un momento così delicato, può essere drammatica. 

Come possiamo valutare la resistenza armata dell’Ucraina? Si parla molto del dilemma morale del pacifismo, di concedere da un lato l’iniziativa all’aggressore mentre dall’altro viene negata la contro-iniziativa di difesa armata alle vittime, sulla base del principio di non provocare ulteriori morti e ulteriori devastazioni che indebolirebbero le possibilità della loro resistenza nonviolenta e di disobbedienza civile nel futuro. Tu condividi questo principio dei pacifisti?

Innanzitutto questo discorso mi fa arrabbiare. Non è vero che noi non vogliamo togliere le armi a Putin, dobbiamo togliere le armi anche a Putin, costringerlo in una condizione di cessate-il-fuoco, a sedersi a un tavolo e negoziare. Dobbiamo innanzi tutto trovare un modo per farli smettere. Questa è l’unica arma che abbiamo perché comincino a fermare i loro carri armati. 

Quindi c’è un obiettivo anche immediato, che può essere raggiunto. Non è che noi diciamo ai russi “sparate pure, perché tanto noi non spareremo”. Non è così. Semplicemente è un modo per rendere possibile un cessate-il-fuoco da tutte le parti. L’obiettivo è proprio il contrario. Per poter far tacere innanzitutto, nel solo modo possibile, i carri armati russi, cosa che non potrebbero fare i ragazzi ucraini con il fucile che gli mandiamo. Non sarebbero in grado per prima cosa di disarmare i russi. Perché è evidente che se non c’è una forza in grado di imporre in qualche modo, attraverso tutti i mezzi possibili, di fare cessare questa orrenda occupazione dell’Ucraina, non c’ è un altro modo. Non la resistenza armata. Uno deve anche sapere se e quando fa una guerra, se la vince o no. Oppure bisogna fare la guerra come olocausto morale? No, non è così. Una cosa simile lasciamola dire a qualche ragazzo esaltato. Ma non possiamo accettare che dei governi responsabili dicano che è giusto, anche se non serve a niente, far ammazzare tanti ragazzi. No. Perché è questo che viene proposto. Non hanno la minima possibilità di fermarli con le loro armi, i carri armati russi. Se non con il coinvolgimento della Nato, certo. Se c’è un coinvolgimento della Nato, allora le possibilità di fermare i russi ci sono certamente, ma il prezzo è una guerra mondiale, combattuta in un bosco di centrali nucleari, per di più. 

Non è che la guerra si fa comunque. La guerra di solito si fa perché si vuole vincere.  È sacrosanto dire che le guerre si sa sempre come cominciano. Tutti sono molto entusiasti quando cominciano, ma finirle è impossibile. Qualcuno ricordava la Vienna del 1914, piena di gente per le strade, ivi compreso il movimento operaio, che inneggiava alla guerra e cantava inni di trionfo. Poi sappiamo tutti com’è andata a finire. Chiediamo agli adulti, a chi ha una responsabilità di governo, di riflettere innanzitutto su come andrà a finire. Sono le parole sante che ha detto Henry Kissinger, in un articolo del 2014 [ripubblicato in questo ebook]: le guerre è facilissimo cominciarle, tutti sono contenti, cantano, strillano. Il problema è poi come se ne esce, come va a finire la guerra.  

 

Non sono solo i pacifisti a essere impotenti. Colpisce il silenzio della diplomazia e della politica internazionale: l’Onu, la Ue, i governi. Hanno rinunciato in questi decenni a costruire uno spazio di sicurezza comune a est dell’Unione Europea e nel Mediterraneo Perché la politica è ammutolita? In questo modo viene meno anche un interlocutore essenziale per i pacifisti. Come potrebbero riprendere voce e proporre una soluzione negoziata?

Sono convinta che le guerre si possano evitare se uno sta attento a quello che succede prima. Che è esattamente quello che non è stato fatto, neanche da noi pacifisti. Parlando alla manifestazione per la pace del 5 Marzo a Piazza di San Giovanni a Roma ho chiesto a tutti di farci tutti un’autocritica collettiva, perché è vero che dal 2003 – dai tempi dell’opposizione alla guerra americana in Iraq – noi non siamo più scesi in piazza anche se ce n’erano di ragioni, per tutte le guerre che sono state fatte per le annessioni, eccetera. Bisognava per tempo farsi sentire. Ma non si è fatto. Non si sono neanche seguiti i processi che sono ancora in corso. Nessuno sa cosa è successo durante la guerra civile in Ucraina. Nessuno sa quello che Bruxelles ha fatto, come ha diretto l’allargamento dell’Unione europea. Azioni che avevano contribuito anche a provocare anche il dramma jugoslavo. 

È vero che in Jugoslavia c’erano tutti i nazionalismi più terribili, però che l’Europa non abbia soffiato sul fuoco è assolutamente falso. L’Europa ha soffiato, mi ricordo bene. Nel 1993 non era neppure finita la cerimonia per la nascita dell’Unione Europea, il trattato di Maastricht, e proprio il giorno dopo la Germania, da sola, dopo aver appena accettato di essere un’Unione e non più un paese sciolto, ha riconosciuto l’indipendenza della Croazia. Contro il Trattato di Helsinki che diceva che ogni paese può decidere di andarsene, ma ogni alterazione dei confini usciti dalla seconda guerra mondiale deve essere negoziata in modo collettivo, con un accordo collettivo. Mi ricordo le motivazioni che sono state presentate per riconoscere un paese dell’ex Jugoslavia dopo l’altro. Mi ricordo che siamo arrivati in Croazia con Alex Langer partendo da Trieste proprio in quel momento lì, era giusto il 1993, non era ancora scoppiata la guerra in Bosnia, eravamo lontani dal Kosovo. Le motivazioni a Zagabria erano forsennate: “Noi siamo stati parte dell’impero austro-ungarico”. La posizione tedesca diceva: “Voi in fondo siete parte della nostra stessa storia” perché erano parte dell’impero, e “siamo tutti cattolici, quegli altri sono ortodossi, quegli altri sono slavi”.

Mi ricordo la frase pronunciata con disprezzo: “quelli là”, quelli dall’altra parte. E’ stato dato un contributo incredibile a rendere ancora più difficile una situazione che palesemente era già pericolosa. È stato fatto di tutto per renderla sempre più pericolosa. Questa è stata la prima responsabilità. Diciamo la verità, la Jugoslavia aveva una posizione anomala tra l’Est e l’Ovest, era ingombrante, questa cosa in mezzo dava fastidio. Prima si liquidava, meglio era. 

Poi il processo di allargamento, come è stato fatto? È stato fatto per attrarre nella Ue i paesi che potevano accettare immediatamente di far parte della Nato. Quando si è cominciato, il presidente della Commissione era Jacques Delors.

E mentre noi eravamo lì a protestare, a dire che non si può allargare la Nato a tutti quanti, o dire a tutti quanti di entrare nell’Unione Europea, la risposta è stata: “Ma non siete generosi, non volete che anche loro possano mangiare, usufruire dei vantaggi della Nato anche nell’est dell’Europa?”. Sembrava che volessimo rifiutargli un pezzo della torta, che volessimo mangiarla tutta da soli. Questo quando c’erano le condizioni per fare un’altra politica.

Voglio ricordare un’altra cosa. Quando cade il muro di Berlino, nell’89, c’è Gorbaciov il quale è disposto a fare di tutto per cancellare non solo la Cortina di ferro, ma tutto quello che aveva separato per tanto tempo l’Europa dell’est e l’Europa dell’ovest. Così ritira tutte quante le truppe dall’Europa dell’est, lo fa tanto rapidamente che – lo ricordo bene – i tedeschi erano meravigliati che i russi si fossero ritirati così facilmente, non se lo aspettavo, pensavano ci sarebbe stata una trattativa. Gorbaciov si ritira da tutto e c’è questo tacito impegno che si ritirino anche gli altri, che l’epoca dei blocchi militari finisca e ne cominci un’altra, in cui si può cominciare a parlare di un tentativo, storicamente per la prima volta, di un’Europa unita. Ricordo che allora pensavo al simbolo delle Olimpiadi, un’immagine che non rappresenta due blocchi e neppure un’unica cosa, perché è evidente che l’Europa, un’unica cosa non può essere. Però il simbolo delle Olimpiadi è fatto di tanti cerchi collegati fra loro e che si aprono alla cooperazione, come cerchi che ruotano attorno a centri di una cultura diversa, che non possono essere tutti assimilati in un’unico contesto culturale. 

C’era allora – diciamo le cose come stanno – una socialdemocrazia che aveva in quel momento una direzione in paesi-chiave molto vicina al pacifismo, al nostro famoso slogan “per un’Europa senza missili dall’Atlantico agli Urali”. Voglio ricordare che a capo del partito laburista c’era stato Michael Foot, che era su supposizioni assolutamente pacifiste, c’era Olof Palme in Svezia che, anche lui, sappiamo quanto sia stato vicino alla posizione dei pacifisti, c’era Bruno Kreisky in Austria, c’erano i tedeschi, in quel momento erano al potere ancora tutti i protagonisti della Ostpolitik, c’era Andreas Papandreu in Grecia per quanto riguarda il fronte Sud – addirittura ha ospitato lui, con la sua presenza, un’assemblea pacifista ad Atene proprio in quel periodo. E in Italia, il povero Berlinguer sosteneva anche lui la tesi che l’Europa dovesse prendere una terza via e cercare di costruire una propria autonomia. Fu attaccato dal suo stesso partito. Quella fu un’occasione perduta. 

Ci sono stati pochi anni in cui c’è stata una possibilità di cambiamento. Nel 1992 Boutros Ghali, il segretario generale delle Nazioni Unite, pubblica l’Agenda per la pace. Ma poco dopo inizia la guerra in Jugoslavia, era già troppo tardi.

C’è stato un momento in cui c’era nell’opinione pubblica e anche in un pezzo rilevante di establishment – i socialdemocratici avevano un potere importante – una posizione politica che poteva portare a uno spazio di sicurezza comune “dall’Atlantico agli Urali”. Insomma non era una pazzia, quello che dicevamo. Era una cosa che poteva essere all’ordine del giorno, politico, ma poi è stata lasciata cadere.

Che cosa si doveva fare? Si doveva dire: non ci sono più ragioni per avere delle forze militari da una parte e dall’altra. L’Unione sovietica si scioglie nel 1991, subito.

E poi, ahimè questo pure dobbiamo ricordare, arriva al potere a Mosca uno come Eltsin,

che si rivela una follia. Anche perché è un alcolizzato, che spara sul suo parlamento a Mosca perché non gli piacevano le risoluzioni che aveva votato. Con tutto l’appoggio occidentale. È lui, Eltsin, che dà in mano la Russia a Putin. E Putin è quello che è. La svolta c’è stata quando si è fatto morire lo stato d’animo che c’era nel dire: basta, la guerra fredda è finita, non c’ è più ragione di combatterci. 

Torniamo all’Ucraina, e a quello che possono fare in concreto i governi europei in questo momento: aprire un negoziato, rifornire di armi Kiev, imporre una No fly zone, garantire corridoi umanitari. Ci sono posizioni che come pacifisti possiamo sostenere? 

Il negoziato, penso assolutamente di sì. Putin non dice voglio occupare l’Ucraina e tenermela, non l’ha ancora detto. Sta lì lo spazio per le trattative, visto che ormai da anni, con l’avanzata della Nato verso l’est, si può discutere di una fascia di neutralità, anche se nessuna forza politica ha questa posizione. Questa potrebbe essere la posizione dell’Europa. Trovo vergognoso che l’Unione europea non abbia una posizione negoziale, che sia proprio il leader turco Erdogan, che ha massacrato i curdi, sia uno dei negoziatori. E poi Israele, che di annessioni ne ha fatta una dopo l’altra, dal Golan ai territori palestinesi. Due pessimi campioni che trattano, nessuno dei due membro della Ue, e l’Unione europea, che avrebbe un potere contrattuale forte, non con le armi ma con la politica, non dice niente. 

Quindi cessate-il-fuoco! E una volta cessato il fuoco, discutere una soluzione. Gli ucraini vorrebbero entrare nella Nato? Beh, bisogna che capiscano che la storia, la geografia, rendono questa cosa difficile. Anche perché sarebbe del tutto irrazionale. Perché vuoi entrare nel Patto Atlantico, nella Nato? Perché vuoi fare una guerra? Bisognerebbe  anche chiedergli questo. La domanda d’ingresso presuppone che si voglia continuare a fare la guerra per sempre. 

Un obiettivo realistico ci sarebbe, perché Putin stesso chiede una fascia di neutralità. E allora, che questo avvenga, l’Unione europea dovrebbe essere capace di dire una parola. Invece del “subito le armi” che sentiamo in questi giorni da ogni parte. Dobbiamo ottenere che l’Unione europea cominci a prendere una posizione precisa, invece di seguire quello che dicono gli Stati Uniti, che stanno ben lontani dalla guerra. Loro, forse solo loro, potrebbero salvarsi dalla guerra, stanno al di là dell’Atlantico dove non ci sono minacce. Non ci sono minacce nel loro continente anche perché nessuno si è mai azzardato a mettere dei cannoni e dei carri armati in Messico. Perché se lo avessero fatto, immaginatevi cosa sarebbe successo.

Che l’Unione europea non sia capace di prendere una posizione, è francamente una cosa che mi provoca un sentimento di umiliazione. Altro che la reazione di sentirsi deboli come pacifisti, noi siamo più forti perché abbiamo una posizione ragionevole, la sola con cui si può venirne fuori. Chi ha una posizione del tutto incomprensibile sono i paesi dell’Unione europea. Non mi sento per niente debole – anche se so che è difficile – non mi sento neanche frustrata. Mi sento arrabbiata. 

La nonviolenza come strategia sociale di massa contro gli oppressori ha una lunga storia, soprattutto in contesti nazionali e in conflitti contro l’oppressione di classe, di razza, di genere. Esiste un esempio di successo della nonviolenza come strategia politica anche di fronte ai conflitti militari?

Tutte le volte, quando si arriva verso la fine di una guerra, si riconosce che l’ipotesi del pacifismo, della nonviolenza, sarebbe stata giusta. Si arriva sempre ad avere il consenso su questa linea, ma solo quando la guerra sta per finire e si dice “Dio mio, cosa abbiamo fatto, la distruzione di tutto”. Alla fine della prima guerra mondiale, della seconda guerra mondiale, si scopre l’importanza della nonviolenza. Il che però vuol dire che è possibile. Magari bisognerebbe riuscire a far sì che avvenga prima, non dopo. 

Con il movimento della pace europeo, quello degli anni ottanta, non abbiamo vinto, è evidente. Però l’operazione culturale che è stata fatta in quegli anni è stata molto importante. Prima di tutto è stato l’unico movimento europeo, veramente europeo. Se c’è qualcosa che è stato fatto per l’unità europea, l’ha fatto il pacifismo, perché non nasceva da un convegno su come dev’essere fatta la Costituzione o i poteri del Parlamento europeo per dare più peso all’Europa. È una cosa che è venuta fuori dalla società. E per la prima volta ci ha fatto conoscere e parlare. 

Io l’ho visto, lo ricordo bene. La prima manifestazione a Comiso, quando ancora la base non era costruita, e arrivarono gli altri pacifisti. Arrivarono i tedeschi, arrivarono gli inglesi, che avevano una tradizione antica di pacifismo, fin dalla prima guerra mondiale, cosa che in Italia non avevamo avuto. Ho visto che a un certo punto si mettevano seduti davanti al cantiere della base in costruzione a Comiso. La prima volta, si sono messi tutti quanti a sedere per terra sul prato e hanno chiesto di avere dieci minuti di “silenziosa riflessione”, che era come un modo quasi religioso, ma laico, di pensare, riflettere sulla nonviolenza. Quanto è stato importante per me. Dapprima li ho guardati allibita. C’era anche un gruppo di parlamentari siciliani. Di fronte a questo atto consapevole, io mi sono messa subito a sedere con gli altri. Tutti noi pacifisti che eravamo lì, ci siamo messi a sedere. Del gruppo di parlamentari nessuno sapeva cosa fare, perché sedersi: gli pareva impossibile. E alla fine fu De Pasquale, il marito di Simona Mafai, con un altro paio di sinistra, che finalmente fece così e si mise a sedere e tutti applaudimmo perché era un gesto, come dire “condivido anch’io queste cose, queste idee”.

Anche se quel movimento non ha vinto, è stato molto importante. Ricordo quando sono arrivati i religiosi giapponesi sulla piazza di Comiso, accolti ed abbracciati dai siciliani. Si trovarono benissimo. Si trovarono meno bene i siciliani con gli inglesi, le ragazze inglesi che appena arrivarono nella piazza fecero un bagno perché faceva caldo. I siciliani erano un po’ scioccati da questa libertà. Invece quando arrivarono i giapponesi, si abbracciarono. Ci fu uno scambio culturale, di valori, di cose, che io credo sia stato importantissimo. 

Pensiamo anche a quanto sia stato importante il pacifismo all’Est, perché abbiamo mantenuto in quegli anni un rapporto con i pacifisti indipendenti, che era un rapporto clandestino, ma c’era. E con tutte le chiese protestanti. Quante volte sono passata nella metropolitana sotto la frontiera che divideva Berlino, perché andavamo a trovare, sempre con qualche espediente, i pacifisti dall’altra parte. C’è stata una una tessitura, culturale, religiosa, biologica, nel pacifismo, nella nonviolenza, che credo che sia stata molto importante.

Oggi gran parte di questo patrimonio culturale è sparito. Perché è sparita la fiducia nell’azione collettiva. E anche la politica è sparita, è nato e cresciuto l’individualismo. E questo ha pesato, credo. Quando dico che sono vent’anni che non scendiamo in piazza, di mezzo c’è anche questo, l’antipolitica, che ha fatto sì che tutti si siano chiusi nel proprio giardinetto, che siano cresciuti i movimenti di destra e così via. Quindi oggi è essenziale fare tutto quello che si può fare. Anche se non ha un effetto pratico, immediato, che si traduca in effettive diplomazie che vanno avanti. Anche se manca ancora un consenso, una mobilitazione larga, popolare. 

Che si potrebbe fare? Se domani tu volessi “fare qualcosa contro questa guerra” che fantasia avresti? Durante la guerra nell’ex Jugoslavia ci sono state le carovane della pace nei luoghi dei conflitti, a Sarajevo. Una carovana di pace che arrivi a Kiev? Una nave pacifista che sbarchi a Odessa al posto della corazzata Potemkin? Un incontro di chi è contro la guerra, russi compresi, a Zimmerwald in Svizzera? Pacifisti occidentali e oppositori russi che manifestino a Mosca davanti al mausoleo di Lenin?

In questo momento si possono fare molte cose, molte di quelle che dite. Meno una, per carità, cioè mandare le carovane al confine della Polonia, dove già ci sono tutti i poveracci che scappano, che non hanno dove dormire, dove mangiare. Abbiamo fatto una controproposta, mandiamo dei pullman vuoti: per aiutarli a venir via. Potremmo però fare una carovana verso la Russia, questo sì. Non ci farebbero entrare, probabilmente. 

Credo che sia molto più importante occuparsi di questi due milioni ucraini che sono stati obbligati a lasciare il loro paese. Non solo portarli qui, ma fare in modo che vengano adottati paese per paese, un gruppo per ogni paese affinché la questione dell’aiuto non sia di un aiuto dello Stato, ma vengano adottati dalle comunità. Mi piacerebbe che ci fossero gli ucraini insieme agli iracheni, ai siriani, agli afgani, per esempio. Mi piacerebbe molto lavorare perché in ogni città la comunità accogliesse ucraini e mediorientali, africani, insieme. E’ stato bello che la manifestazione della pace del 5 marzo a Roma sia cominciata con tutte queste persone, in fuga dalle guerre e dai muri.

Penso che potrebbe avere un effetto pratico. Perché le donne ucraine, le capisco benissimo. Sono in uno stato d’animo di esasperazione, di odio verso tutti. Forse servirebbe ricreare un clima comunitario con persone che hanno patito la guerra in modi diversi, per creare una comunità che non sia più divisa dai conflitti, ma unita da una condizione umana che rende tutti partecipi di un comune situazione, anche se appartengono a fronti diversi, magari che si sparano gli uni con gli altri. Credo che potrebbe essere una cosa molto utile. 

Questo dobbiamo fare, perché i pacifisti combattono, combattono senza armi, ma combattono. Dobbiamo combattere perché il nostro governo faccia un’altra cosa, l’Europa faccia un’altra cosa. In questo periodo è una battaglia, bisogna incalzarli, non dare tregua, non accettare la guerra.

Dobbiamo allargare il consenso. Quando parliamo con la gente, capita anche di trovare tanti amici, compagni che sono titubanti: perché non ci si arma? Una domanda che viene da come è stata costruita la nostra cultura, nei secoli della cultura risorgimentale come nella storia della Resistenza. 

Sabato e domenica scorsa ero delegata al Congresso dell’Anpi di Roma, dove c’erano quattrocento delegati, tanti, e non ce n’era neanche uno che abbia chiesto l’invio di armi perché era così evidente per quelli che avevano fatto l’esperienza della Resistenza, che si parlava di due cose totalmente diverse, in un contesto diverso.

Ieri sera ero molto preoccupata, triste, pensavo ai miei nipoti ,a chissà cosa gli potrà succedere, finché non sono andata alla manifestazione dell’otto marzo. Faceva un freddo terribile e tutti i più vecchi se n’erano andati. C’erano solo le ragazze. Tantissime, tutte le ragazze di tutti i licei di Roma a fare una manifestazione per la pace. Lo slogan, nonostante fosse l’otto marzo, e la posizione di tutti nettissima: “Giù le armi”, “Niente armi”. Bellissima. Sono scese in piazza, hanno attraversato i Fori Imperiali ballando, tutto il tempo ballando, con una musica che veniva fuori da un camion. Tutte le scritte dicevano le cose che stiamo dicendo noi. È più facile trovare le persone un po’ più anziane che ti dicono di voler mandare le armi. I giovanissimi sono molto più aperti e pronti a capire. Meno male.

Far capire, far ragionare, conoscere, dibattere, discutere e organizzare i ragazzi nelle scuole è una questione fondamentale. La rete pacifista, che è già più esperta, dovrebbe organizzarsi per fare un lavoro serio nelle scuole. Quando dico combattere, penso che si combatte facendo politica e quando non si lascia passare nessuna parola in Parlamento, come altrove, senza dare una risposta. Questa è una battaglia politica. Dobbiamo spostare l’attenzione sulla politica invece che sulle armi. Ma è una battaglia che richiede una grandi campagna. da condurre in tutti i paesi europei, penso a quanto sarebbe importante ritrovare i legami organizzativi, programmatici, che avevamo stabilito durante gli anni ottanta fra tedeschi, italiani, inglesi.

E ricordate quante ce ne sono state, di manifestazioni. Penso che sarebbe importantissimo fare manifestazioni nei paesi vicini alla guerra, per esempio. Mi piacerebbe avere i tedeschi e gli inglesi che vengano a manifestare qui e fare noi altrettanto a Berlino e a Londra. Sono legami molto importanti perché sono la dimostrazione pratica che c’è una cultura diversa.

Vorrei che riuscissimo a dimostrare che coloro che chiedono le armi sono dei dinosauri. Un pezzo di un’altra epoca, di un’altra cultura. E giocare molto sul dato generazionale che io vedo intorno a me e renderlo visibile, renderlo più attivo, più organizzato, efficace. Perché rischiare una guerra mondiale è pura follia. E per gli ucraini innanzitutto. Quando diciamo che non vogliamo la guerra, non lo diciamo per noi, lo diciamo in primo luogo per gli ucraini, perché è il primo popolo a soffrirne.

9 marzo 2022