Porre l’accento sui caratteri della trasformazione industriale 4.0 permette di rendere evidente quale è la contraddizione sociale di fondo e apre un ampio spazio di riflessione teorica e di discussione politica per qualificare progetti alternativi
Certo che c’è “un” problema, come sostiene Aimar, ma forse è “il” problema, se è vero che – come indicano Guarascio e Sacchi – il salto tecnologico giunto a maturazione, e riassunto sotto l’etichetta “Industria 4.0”, prospetta – o, meglio, impone – una società in cui le condizioni di lavoro, e quindi di vita, di una larga parte della popolazione siano contraddistinte da precarietà e insussistenza.
Nelle sue linee essenziali, il problema è ben definito dai due interventi. Come argomentano Guarascio e Sacchi, l’organizzazione produttiva di Industria 4.0 non è “neutrale” per quanto riguarda la quantità e la qualità dell’occupazione futura dato che, come noto, le forme della distribuzione sociale dipende dalle forme dell’organizzazione produttiva. Entrambi gli interventi, ritenendo insoddisfacenti le prospettive implicite nelle tendenze in atto, esprimono la necessità di una politica economica che affronti la questione della “sostenibilità sociale della futura organizzazione economica al fine di garantire in via strutturale una più equa distribuzione dei costi e dei benefici.
Dopo tanto soffermarsi sul carattere “finanziario” di questo capitalismo, è un ottimo segno che la discussione si rivolga finalmente a quanto si è sedimentato, dall’ultimo decennio del secolo scorso, nella struttura produttiva quale determinante fondamentale della società che sta emergendo. Ciò non significa negare l’importante ruolo che la finanza ha avuto, e ha, nel sostegno del processo di trasformazione dell’accumulazione in senso globale e, cosa di non piccolo conto, nella formazione del blocco sociale che ha cementato ampi strati, più o meno benestanti, intorno agli interessi della finanza.
Ma, porre l’accento sui caratteri della trasformazione industriale 4.0 permette di rendere evidente quale è la contraddizione sociale di fondo, che non è quella tra grandi e piccoli proprietari ma, a livello del “lavoro”, tra chi decide e chi subisce le nuove regole produttive. È la classica contraddizione tra economia e società che, pur in forme diverse, si ripropone ancora una volta e che giustifica sia i richiami di Guarascio e Sacchi per l’attivazione di politiche perequative del lavoro, sia la soluzione di Aimar di una decisa redistribuzione del reddito (reddito di base) e del lavoro (riduzione degli orari).
Se la prospettiva storica è questa – ed è ineludibile – e se l’intervento auspicato è questo, si apre un ampio spazio di riflessione teorica e di discussione politica per qualificare analisi e progetti alternativi. A questo fine, mi sembra utile sottoporre alcuni punti problematici a un dibattito che dovrebbe essere tanto approfondito e articolato quanto si presenta complesso nella sua realtà e nella sua evoluzione.
La prima questione, ovvia, è che qualsiasi politica progettata a questo riguardo deve avere uno sguardo di lungo periodo, non solo perché un riassestamento della società in antitesi alle forze economiche dominanti non può realizzarsi in tempi brevi, anche perché nel tempo si trasformano i rapporti di forza tra le parti in causa. Sia l’ipotesi di Guarascio e Sacchi di una politica attiva del lavoro, sia quella di Aimar di una redistribuzione del reddito e del tempo di lavoro implicano che, per contrastare gli effetti distorsivi dell’attuale prospettiva industriale sulla struttura sociale e sull’assetto democratico, si debba di fatto redistribuire a livello di società i guadagni di produttività ottenuti dalle imprese al loro interno. Ma ciò comporta poter fare affidamento su una politica fiscale robusta accompagnata da una decisa politica industriale che tenga conto del contesto internazionale, così come su una politica monetaria e finanziaria, su una gestione dell’amministrazione pubblica e su un orientamento dei sindacati che configurino nel loro complesso una politica economica che – come già sostenuto a suo tempo nell’ebook ‘Come minimo. Un reddito di base per la piena occupazione‘ – sia di contrappeso alle implicazioni sociali della visione strategica del capitale.
Non essendo pensabile che singoli interventi “tecnici” possano correggere le tendenze dominanti, è indispensabile costruire una politica economica consapevolmente conflittuale che si proponga di modificare i vincoli istituzionali che condizionano il perseguimento di equilibri sociali ritenuti più giusti. Una politica economica che sappia affrontare le vischiosità che si presentano quando si intendano modificare i rapporti di lavoro (disoccupazione, ma soprattutto precarietà), i modelli di consumo (centrati sugli interessi individuali del consumatore), il ruolo della finanza (funzionale, come pianificatore, al processo di accumulazione industriale). È una prospettiva tanto necessaria quanto ardua, soprattutto se si pensa alle due precondizioni essenziali per la sua realizzazione.
La prima è di carattere istituzionale. Nella concezione corrente del governo dell’economia e della società, l’obiettivo prioritario non è certamente il “lavoro” nella sua dimensione quantitativa e qualitativa; il suo assetto è strutturalmente subordinato alle prospettive perseguite da un blocco di soggetti che hanno come riferimento le opportunità offerte dall’economia globale. Per la loro parzialità, questi interessi si concentrano sulla sola dimensione quantitativa della valorizzazione di un capitale reso scarso, trascurando l’importanza dei caratteri qualitativi del processo di accumulazione. È su questa visione dell’azione concreta del settore pubblico – e della sua tecnocrazia (nella commistione pubblica e finanziaria) – che si fonda una politica economica (neoliberista) ingiusta e miope che, accettando che pochi siano i vincenti e molti i perdenti, accredita un sistema avverso alla coesione sociale. Qualsiasi progetto che miri a un compromesso più avanzato di società richiede – aspetto tutt’altro che immediato e scontato – di “catturare” il regolatore pubblico, attualmente “catturato” dalla strategia degli interessi industriali e finanziari.
A questa precondizione si accompagna una seconda di carattere culturale, comunque a essa strettamente associata. Se è evidente il conflitto potenziale tra i pochi che decidono le linee dell’accumulazione e i molti che le subiscono con il deterioramento delle loro condizioni di vita, tale conflitto stenta a esprimersi apertamente nella misura in cui il disagio rimane confinato a livello individuale. Non va infatti trascurato che il modello di integrazione del lavoro nella società dell’Industria 4.0 si presenta strutturalmente diverso dal modello di integrazione sociale sperimentato nel capitalismo precedente per l’accentuazione che vi assume la dimensione individuale su quella sociale. Si pensi – quali situazioni problematiche – come, di fronte a una pressione per la realizzazione di un reddito di base, sia sempre possibile da parte delle imprese offrire una risposta individualizzante in termini di aumenti salariali limitati ai lavoratori più “produttivi” e, di fronte a una proposta di riduzione degli orari di lavoro, sia possibile che gli obiettivi sindacali siano condizionati dalla resistenza degli occupati alla perdita di reddito. In una realtà storica di profonda incertezza, gli interessi individuali di breve periodo, economici e finanziari, fanno premio sui potenziali benefici collettivi di una futura struttura sociale più equilibrata; il conflitto sociale stenta a presentarsi in maniera esplicita come conflitto politico generando, culturalmente, un’inerzia di comportamenti che riflettono la sfiducia diffusa sulle potenzialità di un futuro possibile.
Certo che “il” problema c’è e che c’è il bisogno di riflettere su come riorganizzare teoria e prassi politica, e questo va fatto senza trascurare che le due precondizioni – quella culturale e quella istituzionale – rivestono un rilievo decisivo, se non prioritario, per qualsiasi progetto che voglia contrapporsi al consolidamento di una Società 4.0.