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Il socialismo secondo Nancy Fraser

La filosofa femminista Nancy Fraser riscopre, tra i tanti, le ragioni del socialismo, un cambio radicale di prospettiva nel libro dal titolo esplicito Cosa vuol dire Socialismo nel XXI secolo? (Castelvecchi,2020) – che riproduce una sua conferenza tenuta a Roma nell’ottobre del 2019.

Negli ultimi tempi si assiste ad un vero e proprio revival sulle prospettive del socialismo in questo nuovo secolo. Probabile che questa tardiva riscoperta sia dovuta, fra l’altro, alla falsa alternativa rappresentata dal sovranismo rispetto al neoliberismo, posto che l’uno e l’altro sono il diritto e il rovescio della stessa moneta capitalistica.

Il breve testo della prestigiosa filosofa Nancy Fraser, dal titolo esplicito Cosa vuol dire Socialismo nel XXI secolo? (Castelvecchi, 2020) – che riproduce una sua conferenza tenuta a Roma nell’ottobre del 2019 – rientra in questo particolare filone di ricerca, con una originalità specifica che si scorge sin dalla premessa: servirsi  del termine socialismo, da molti decenni accantonato, per provare a rimuovere quel tabù culturale che ha contrassegnato la produzione teorica occidentale da più di un trentennio, una sorta di congiura del silenzio che ha consentito di parlare il meno possibile o di non parlare affatto in termini critici del capitalismo. Occorre risalire a ritroso sino agli anni Cinquanta e Sessanta, alla Teoria critica elaborata dalla Scuola di Francoforte, e poco oltre, per una teorizzazione all’altezza, solo con qualche rara eccezione successiva (solitari filosofi e storici o epigoni temerari del pensiero dialettico). 

Quando si indaga un testo, secondo il collaudato metodo analitico, siamo indotti a ricercare la tesi centrale e poi eventualmente, se ve ne sono, quelle secondarie e/o di supporto. Di contro, per la Fraser vale più un approccio di tipo sintetico, dal momento che una costante visione pare attraversare dall’inizio alla fine la sua lectio, che  restituisce l’immagine di un capitalismo non come mero sistema di produzione economico, bensì di un granitico «ordine sociale istituzionalizzato» e, di conseguenza, quell’immane distesa di merci con cui si presenta risulta così essere  solo l’apparenza di superfice della sua natura più profonda costituita dall’accumulazione astratta e senza limiti di ricchezza quantitativa.  

A fondamento di questo meccanismo impersonale e automatico che stritola e svuota le vite concrete di noi tutti, dando luogo ad una specifica forma di vita capitalistica, superficiale e irriflessa, c’è l’unica fondamentale rivoluzione spirituale che probabile abbia conosciuto la modernità: l’utilitarismo, con il suo imperativo categorico di agire in vista del massimo risultato con l’impego minimo di mezzi. Questa svolta epocale i cui prodromi si possono rintracciare sin dal tardo medioevo ha poi dato vita ad una fenomenologia di forme storiche quali la scienza moderna, lo stato e da ultimo il mercato, tutte nel bene come nel male egualmente intrise di quello spirito calcolante originario. Ma l’utilitarismo è portatore, come del resto le sue macchine storiche, di un difetto di fabbricazione che andrebbe messo a tema e che la tempesta perfetta nel presente di crisi sanitaria, economica ed ecologica sta evidenziando in modi drammatici e forse ultimativi. 

D’altronde, la teoria critica sociale più avvertita, a cui la Fraser è senz’altro ascrivibile, aveva per tempo segnalato le unilateralità e le contraddizioni a cui andava in contro una razionalità solo tecnico-strumentale per giunta assolutizzata, suggerendo forme di pensiero del conoscere e soprattutto del riconoscere meno rozze e più mature. E qui la Fraser compie un passo decisivo perché non presenta il socialismo come un ennesimo dover essere in qualche modo presupposto ed esteriore a cui la realtà dovrà adeguarsi, ma come il portato stesso degli squilibri interni al capitalismo inteso come un sistema totalizzante, con il suo carico di ingiustizie sociali e devastazioni ambientali che il pianeta sta sperimentando a ritmi sempre più accelerati. Proprio questi squilibri sarebbero alla base di quel contro-movimento che starebbe scuotendo le società in forme ancora scomposte, come del resto è solito fare la talpa della storia. Senza troppe perifrasi l’autrice risponde all’interrogativo su Che cosa non va nel capitalismo?, che dà il titolo al capitolo centrale del suo libro, segnalandone i limiti strutturali rappresentati dall’essere un singolare vettore di totalizzazione, impersonale e automatico, che permea di sé e riconduce alla sua logica di accumulazione astratta ogni altra cosa, siano essi gli ambiti della riproduzione sociale e  della cura o i beni pubblici sottratti allo Stato, per non parlare dell’ecosistema naturale sottoposto ad una depredazione senza fine. 

Questa è per la filosofa americana «una visione ampliata della società capitalistica», che è poi la vera essenza del capitalismo, a cui dovrà corrispondere una risposta o, meglio, un’interpretazione necessariamente estesa di socialismo, che avrà a che fare oltreché con la sfera economica con quella soggettività capitalistica pervasiva da disarmare, anche nei suoi risvolti sessisti e razziali tutt’altro che residuali e premoderni.

La pars construens è solo abbozzata, vista anche l’occasione colloquiale e non accademica, e riguarda una serie di brevi riflessioni. Ovviamente quest’ ultima parte dal titolo, Cos’è il socialismo? Una prospettiva ampliata, non può non evocare la domanda quasi identica che si poneva Bobbio a metà degli anni Settanta in uno scritto tra i più militanti da lui pubblicati, Quale socialismo?. Ma se quel libro era tutto proiettato sul versante politico per far guadagnare terreno alla democrazia anche nella sfera economica del mondo della produzione, la Fraser nel suo discorso considera questo solo un aspetto di un cambio radicale di prospettiva che deve riguardare tutte le dimensioni del vivere umano e non.

Se il capitalismo ha assunto la configurazione di una compiuta civiltà del denaro, quantitativo e astratto, il pensiero critico che ne prospetta il superamento dovrà necessariamente collocarsi sullo stesso piano. Incisivo e rivelatore in proposito un passaggio del suo intervento in cui si condensa il principio ispiratore della società eco-socialista del futuro: «dove le società capitalistiche subordinano l’imperativo della riproduzione sociale ed ecologica alla produzione di merci, di per sé destinate all’accumulo, i socialisti devono capovolgere l’ordine: trasformare il nutrimento delle persone, la salvaguardia della natura e l’autogoverno democratico in priorità sociali massime, che battono efficienza e crescita». Si tratta di un vero e proprio rovesciamento dell’ordine delle priorità che comporterà anche un abbattimento del mercato capitalistico restituito alla sua natura di mercato e basta, scevro dall’assillo dell’accumulazione, che potrà dare in questo modo buona prova di sé purché ricondotto allo scambio senza ulteriori predicazioni (e qui le suggestioni che conducono a Karl Polanyi e allo stesso Giovanni Arrighi non mancano). 

Peccato che la brevità richiesta nell’occasione non abbia consentito alla brillante studiosa di esplorare la tematica del riconoscimento oggetto privilegiato di altre sue importanti ricerche, condotte col contributo di filosofi del calibro di Axel Honneth, che ha ereditato da Habermas la direzione dell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, e Rahel Jaeggi.  Del resto, la conclusione non lascia margini di dubbio sulla prospettiva di fondo perseguita dalla filosofa femminista americana, che potrebbe dare spunti per percorsi di ricerca altrettanto stimolanti: «il socialismo può proporre un’autentica alternativa al sistema che sta distruggendo il pianeta e vanificando le nostre possibilità di vivere liberamente, democraticamente e bene». Ecco, soprattutto quel senso del vivere bene andrebbe investigato e soprattutto valorizzato fino in fondo.