Il Ddl sull’Autonomia differenziata, voluto dalla Lega e imposto dal governo di Giorgia Meloni, è stato approvato nei giorni scorsi e prospetta un inarrestabile aggravamento delle diseguaglianze tra le Regioni. Se ne discute il 27 giugno alla Fondazione Basso di via Dogana Vecchia a Roma.
Il Ddl sull’Autonomia differenziata, voluto dalla Lega e imposto dal governo di Giorgia Meloni, è stato approvato nei giorni scorsi e prospetta un inarrestabile aggravamento delle diseguaglianze tra le Regioni, tra Nord e Sud del paese, tra aree centrali e periferiche. I principi di uguaglianza, di universalismo e solidarietà vengono negati, frammentando le politiche che potranno essere realizzate in molti ambiti dell’intervento pubblico. In particolare, gli effetti saranno gravi per la salute dei cittadini e per il funzionamento del Servizio sanitario nazionale, già segnato da forti disparità territoriali e sociali.
Gli effetti dell’autonomia differenziata vanno considerati sotto molteplici aspetti. Il primo riguarda la disponibilità di risorse per finanziare la spesa sanitaria: senza alcuna compensazione perequativa e senza una redistribuzione di esse a livello nazionale, le Regioni con livelli di reddito più bassi – e quindi con minore gettito fiscale – si ritroveranno prive di mezzi per garantire servizi e cure. Molte di queste Regioni (soprattutto nel Mezzogiorno) hanno registrato in questi anni un drastico ridimensionamento di strutture e servizi di prevenzione, assistenza ospedaliera e territoriale, con la mancata garanzia effettiva dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) e l’aggravarsi delle disparità negli esiti di salute.
Un secondo aspetto riguarda l’aumento della mobilità tra Regioni di cittadini che richiedono cure appropriate, non più disponibili delle aree di residenza, con conseguenze anche nella distribuzione delle risorse tra le Regioni. Da tempo moltissimi cittadini sono andati a curarsi nelle grandi Regioni del Centro-Nord dotate di servizi ad alta specializzazione, in particolare Lombardia ed Emilia Romagna. Ma i costi delle cure prestate sono rimasti a carico delle Regioni di residenza dei pazienti, offrendo un finanziamento indiretto ai sistemi sanitari del Centro-Nord e in particolare alle loro strutture private convenzionate. La mobilità sanitaria non solo non offre soluzioni ai problemi esistenti, ma consolida un assetto sanitario squilibrato e fortemente differenziato a livello regionale, con il risultato che il diritto alla salute è molto diverso a seconda del luogo in cui si vive. Con l’autonomia differenziata, la mobilità riguarderà anche medici e infermieri. Come già raccontato dal manifesto (intervista di Andrea Capocci a Pierino Di Silverio, 21 giugno 2024), le Regioni autonome potranno proporre condizioni salariali migliori, portando ad aggravare la «fuga» del personale sanitario da quelle svantaggiate, verso le Regioni più ricche e la loro sanità privata.
Un terzo aspetto riguarda la drastica espansione degli spazi per la sanità privata. Da un lato alcune Regioni, la Lombardia in primo luogo, aumenteranno le politiche di sostegno alle attività fuori dal servizio pubblico, continuando una traiettoria di impostazione neoliberale che si è affermata da decenni. Dall’altro lato, il peggioramento delle prestazioni e delle attività di cura pubbliche nelle Regioni più fragili e meno finanziate, porterà a una crescita della domanda per servizi sanitari privati.
Le conseguenze dell’autonomia differenziata si innestano su un quadro di politiche che da decenni tormentano la sanità pubblica. La revisione del Titolo V della Costituzione, approvata nel 2001 dalla maggioranza parlamentare del centrosinistra, aveva già mutato le relazioni tra Stato e Regioni. In un contesto economico caratterizzato da crisi finanziarie e da forti vincoli europei alla spesa, le politiche realizzate hanno condotto a ridimensionare il servizio pubblico, ad allargare gli spazi e le risorse per le attività private, estendendone le modalità operative anche nelle strutture pubbliche. Alla frammentazione a scala regionale, inoltre, si è accompagnato un modello privato guidato dalle logiche di profitto, con un’espansione delle assicurazioni, della spesa out of pocket (tra le più alte in Europa), e un’accentuazione della discriminazione sociale nell’accesso alle cure. Il diritto alla salute, garantito indistintamente a tutti dalla Costituzione, è stato così messo in discussione, e con esso la garanzia di servizi socio-sanitari accessibili tutti, a prescindere dalla residenza.
Con l’approvazione del Ddl voluto dalla Lega – che porta a compimento il suo storico disegno secessionista – la solidarietà nazionale «va in frantumi», come ha documentato di recente Francesco Pallante. Si accelera in questo modo quel processo di erosione del Servizio sanitario pubblico, la cui fisionomia originaria aveva permesso di garantire attività e servizi di cura nell’interesse di ogni singola persona e della collettività.
In questa difficile situazione, produrre consapevolezza degli effetti dell’autonomia differenziata, offrire narrazioni alternative a quelle propagandate, mettere in campo politiche alternative, conflitti e mobilitazioni sociali è ciò che resta da fare. Un punto di riferimento torna allora a essere Giulio Maccacaro, uno dei maggiori protagonisti delle lotte per la salute degli anni Settanta, che scriveva: «Decidere quale posto spetti alla salute in una scala di priorità è un atto che qualifica non tanto, funzionalmente, un servizio sanitario quanto, politicamente, una società».
Il Laboratorio su salute e sanità (Laboss) discuterà oggi – 27 giugno – di questi temi alle 14.30, presso la Fondazione Lelio e Lisli Basso a Roma (Via Dogana Vecchia 5), a partire dai recenti volumi di Francesco Pallante e Gianfranco Viesti.