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Il post-Covid e la riforma dello Stato

La pandemia di Coronavirus può essere l’occasione per ripensare radicalmente i compiti e gli obiettivi delle istituzioni pubbliche. Ma perché tale occasione non vada sprecata, occorre uno Stato che “funzioni davvero”. Qualche buon esempio (e qualcuno meno buono) dall’esperienza del Regno Unito.

We shall meet again: è stato con un diretto riferimento alle vicende della guerra che la regina Elisabetta ha voluto sostenere il morale dei suoi sudditi durante i giorni più bui del lockdown nel Regno Unito. We shall meet again – “Ci rincontreremo” – cantava infatti la mitica Vera Lynn visitando i soldati al fronte, mentre le bombe della Luftwaffe riducevano in macerie le città inglesi.

Nell’epoca del coronavirus il ricorso a paragoni con le vicende belliche è stato assai diffuso. Si è cercato così di dare riconoscimento alla gravità degli eventi in corso, ma anche di trasmettere il senso della speranza in un “dopo”, nella ricostruzione che inevitabilmente seguirà.

Il secondo dopoguerra ha visto la nascita dello stato sociale nella sua accezione moderna. Fu proprio la straordinaria mobilitazione collettiva innescata dallo sforzo bellico a gettare le basi per un nuovo patto sociale che attribuiva a stati e governi compiti estremamente più ambiziosi che in passato: ad esempio, il celebre Rapporto Beveridge – o, come da titolo originale, il Report on Social Insurance and Allied Services – fu pubblicato in Inghilterra quando le sorti della guerra erano ancora molto incerte (1942).

Oggi molti auspicano che la ricostruzione “post-Covid” possa essere l’occasione per un analogo salto di qualità della nostra convivenza civile, soprattutto per quanto concerne la “riconversione ecologica” dei nostri sistemi produttivi. La volontà politica e le risorse economiche sono condizioni necessarie affinché ciò possa avvenire. Ma non sono sufficienti. Ci vogliono anche degli strumenti adeguati, primo fra tutti uno Stato (inteso come “dispositivo di governo” e “macchina amministrativa”) all’altezza delle sfide che si hanno di fronte.

È stato proprio promuovendo nuovi “sistemi organizzativi” che le guerre, pur nella loro atroce drammaticità, hanno talvolta segnato l’inizio di una nuova epoca. In Inghilterra sono stati i disastri della guerra di Crimea (1853-1856) che hanno gettato i semi per una radicale riforma dell’amministrazione imperiale (lungo le indicazioni del Northcote-Trevelyan Report, 1854) e del moderno Civil Service fondato sul reclutamento sulla base del merito e non della fedeltà politica o, peggio, sulla compravendita di posizioni. Il Cabinet Office, che è tutt’oggi il cuore del potere esecutivo britannico, fu creato nel 1916 dal primo ministro David Lloyd George per dare una svolta alla strategia dell’esercito britannico dopo la fallimentare – e sanguinosissima – battaglia della Somme. Risale invece al 1939 l’istituzione del Central Economic Information Service, primo nucleo della struttura di vertice che durante il secondo conflitto mondiale diresse di fatto la “pianificazione” dell’economia di guerra britannica. La Economic Section di quella struttura non aveva più di una quindicina di economisti al suo servizio (fra i quali il futuro premio Nobel James Meade). Il suo erede di oggi, il Goverment Economic Service, ne conta più di 1400.

Nel Regno Unito l’epidemia da coronavirus ha rilanciato con forza il dibattito sulla riforma del Civil Service, in un contesto per altro complicato da due fattori: la necessità di distinguere fra le responsabilità del livello “politico” e quello “tecnico-amministrativo” nella gestione dell’emergenza; e il contrasto fra una risposta molto carente sul fronte “sanitario” ed una efficace e tempestiva su quello “economico-sociale”. Da una parte il regno di Elisabetta ha fatto registrare il secondo (dopo il Belgio) più alto numero di morti da coronavirus per milione di abitanti in Europa, nonostante il ritardo con cui è stato raggiunto dal virus e dunque il “vantaggio” organizzativo di cui di cui ha goduto rispetto a paesi come Italia o Spagna. Dall’altra ha anche creato – praticamente dal nulla e in poche settimane – un Job Retention Scheme tramite il quale è stato pagato lo stipendio[1] a più di 9 milioni di persone in aspettativa dal lavoro (sono numeri non dissimili da quelli italiani come volume di lavoratori coinvolti, con la differenza che l’istituto della cassa integrazione in Italia già esisteva, e nonostante questo nel nostro paese ci sono stati considerevoli ritardi nei pagamenti).

Ho lavorato come economista per il ministero del lavoro e delle pensioni britannico (Department for Work and Pensions, DWP) dal 2017 fino a poche settimane fa (quando ho cominciato una nuova carriera all’università). Negli ultimi mesi sono stato impegnato nella costruzione del modello per prevedere l’impatto della recessione creata dalla pandemia sull’Universal Credit, ovvero il principale istituto di sostegno al reddito del welfare britannico.

Quelle che seguono sono alcune considerazioni su ciò che credo di aver imparato durante questi tre anni, frutto della mia esperienza diretta e non di uno studio sistematico del sistema amministrativo inglese. Penso tuttavia che possa essere utile moltiplicare le occasioni di conoscenza e confronto fra le diverse pratiche e tecniche amministrative a livello internazionale. Attraverso l’adozione degli standard migliori, ogni paese potrebbe migliorare i servizi offerti ai propri cittadini, e con essi la fiducia nelle istituzioni democratiche in generale, così erosa dall’opera dai movimenti populisti. Soprattutto, la conoscenza di ciò che succede altrove può servire a contrastare le più radicate e potenti obiezioni che si muovono al cambiamento: “Qui si fa così perché si è sempre fatto così”.

L’importanza del reclutamento

La qualità di una amministrazione è data in primo luogo dalla qualità degli individui che ci lavorano, e dunque dalla qualità dei meccanismi di reclutamento. Il lavoro di analisi, ricerca, creazione e manutenzione di modelli previsionali è svolto all’interno del Civil Service inglese dagli analisti (analysts): economisti, statistici e operational researchers (questi ultimi sono generalmente fisici o matematici). Fra le funzioni più importanti degli analysts c’è quella di offrire al decisore politico (policymaker) “menù” di scelte da effettuare fissati determinati scenari e con annesse le relative implicazioni in termini di risultati attesi, costi, fattori di rischio ecc. Reclutare bravi analisti non è difficile. Occorrono un po’ di competenza (e nemmeno troppa: non serve essere bravi esattamente quanto uno molto bravo per capire che quest’ultimo è molto bravo), buona fede (quanto basta per assumere uno perché è bravo e non perché è raccomandato) e buonsenso (quanto basta per considerare uno bravo anche se esprime idee diverse dalle proprie. Ciò vale soprattutto per scienze sociali come l’economia). Il concorso che ho fatto per cominciare a lavorare come economista nel Civil Service è durato – se non ricordo male – meno di tre ore. Il primo scritto consisteva in una relazione su “Pro e contro della gestione diretta dello stato dell’industria elettrica nel Regno Unito” (si avevano due settimane per prepararsi). Nel secondo scritto si doveva rispondere a 10 domande (che il candidato non conosceva in anticipo): tre di microeconomia, tre di macro, due di economia internazionale, una di matematica e una di econometria. I due elaborati venivano corretti nell’ora che separava le prove scritte dall’orale. All’orale veniva chiesto un po’ di tutto, soprattutto per verificare la capacità di ragionare del candidato (a nessuno importava se non veniva ricordata una formula o una nozione). Ricordo che prima di dare una risposta su un tema di politica fiscale ho premesso che stavo per dire una cosa un po’ “controversa” (in sostanza una critica all’allora cancelliere Philip Hammond e a sue recenti affermazioni sul deficit di bilancio). Mi è stato risposto che potevo dire quel che mi pareva, fintanto che fornivo buoni argomenti. E che non sarei mai stato giudicato per il mio “orientamento teorico”, né tantomeno politico. Dopo un paio di giorni mi sono arrivati i risultati. Mi hanno detto che avrei potuto cominciare da lì a un paio di settimane dopo aver firmato un contratto di due anni. L’idea che in Italia si possa essere chiamati anche anni dopo aver fatto un certo concorso è una cosa che trovo difficile da comprendere, anche perché le competenze valutate tre, quattro o cinque anni prima possono non essere le stesse tre, quattro o cinque anni dopo.

Finiti i due anni di contratto finisce il rapporto con la pubblica amministrazione, a meno che non si vinca un secondo concorso per un contratto a tempo indeterminato. La selezione per il permanent contract è molto dura. Se non ricordo male si svolge in quattro o cinque fasi distribuite su diversi mesi, con i risultati di ogni fase resi pubblici a poche ore o giorni di distanza dalla prova (in alcuni casi letteralmente all’istante: è il caso dei quiz a risposta multipla). Vengono valutate capacità diverse da quelle strettamente legate alla propria materia di specializzatone: ricordo una prova di logica, una di “negoziazione” e anche una di “risposte alle email”. In quest’ultima vengono dati al candidato una dozzina di documenti da “scorrere” in una ventina di minuti. Poi cominciano ad arrivare email ogni due minuti circa, per circa quarantacinque minuti (anche qui vado a memoria, e potrei essere impreciso su alcuni dettagli). Il candidato deve rispondere facendo affidamento sulle informazioni che è riuscito a raccogliere dalla lettura dei documenti. Questa, che è apparentemente la prova più banale, credo sia stata in assoluto la più difficile che ho affrontato, visto che richiede una gestione estremamente rigorosa del tempo.

Solo se si passa questo secondo concorso si viene stabilizzati con un contratto a tempo indeterminato. Se no: amici come prima, si intraprende una diversa carriera.

Il metodo, da quanto ho visto, funziona bene: posso davvero dire di aver lavorato con colleghi di grande competenza e professionalità, per altro in un ambiente estremamente amichevole.

Anche la costituzione italiana prevede che “agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso” (art. 97). Nella realtà, purtroppo, non sempre è così, almeno se si guarda alla sostanza delle cose e non al rispetto meramente formale delle procedure. Perfino la Corte Costituzionale (!) nei mesi scorsi ha avallato la decisione del le agenzie fiscali di cambiare nome ai dirigenti (ribattezzati “Posizioni organizzative di elevata responsabilità”) affinché a tali posizioni si potesse accedere solo dall’“interno” e non tramite regolare concorso. Come ha scritto Sabino Cassese sul Corriere della Sera lo scorso 19 giugno, in questo modo la Corte Costituzionale non ha solo “tradito diritti e aspettative di molte persone che avrebbero potuto aspirare ad accedere a quegli uffici, se vi fosse stato un esame competitivo aperto a tutti”, ma ha anche “danneggiato la pubblica amministrazione, perché l’ha privata della possibilità di fare eventuali scelte migliori” riconoscendo “un privilegio a chi era già dentro”.

Ciò chiaramente non significa che nella pubblica amministrazione italiana non ci siano – per fortuna – professionisti di assoluta eccellenza. Ma è evidente che molto si potrebbe migliorare se le buone pratiche si diffondessero più uniformemente fra i diversi settori, enti e livelli territoriali.

La qualità dei dati e la capacità di utilizzarli

Si sente spesso parlare dell’importanza dei big data e del potere che essi conferiscono alle grandi società private che lavorano con sistemi di reti (da Facebook ad Amazon). Anche la quantità di dati amministrativi a disposizione dei governi è sconfinata. Saperli utilizzare bene significa sapere implementare politiche migliori e fornire servizi migliori (es. tempi di attesa meno lunghi, qualità più elevata, costi più contenuti). Stesso discorso vale per le altre frontiere tecnologiche del mondo contemporaneo, dal machine learning all’intelligenza artificiale. Diversamente dal “semplice” reclutamento del personale questo non è un compito semplice, perché interessa una “struttura complessa” e non singoli individui. Qui il reclutamento va considerato sotto una prospettiva più ampia: se il mondo cambia, anche le figure professionali che dovrebbero comprendere, utilizzare e talvolta guidare tale cambiamento devono cambiare. Dunque il problema non è come selezionare 10 bravi work coaches o 10 bravi programmatori, ma come decidere che sono queste le 20 professionalità da ricercare e non altre.

All’inizio di luglio Michel Gove (ministro del Cabinet Office e figura di primissimo piano del partito conservatore) ha tenuto un lungo discorso sul futuro del Civil Service. L’intervento si è aperto con una citazione di Antonio Gramsci ed è stato in larga parte dedicato ad una appassionata celebrazione della figura di Franklin Delano Roosevelt e del suo New Deal. Gove ha detto varie cose interessanti, anche sul tema del funzionamento dello stato al tempo dei big data:

1) Molte più persone nel personale governativo devono avere dimestichezza con l’analisi statistica, quantitativa, o per dirla con le parole di Gove, devono essere a proprio agio “con il metodo Montecarlo o la statistica Bayesiana”, devono “saper leggere un bilancio o essere in grado di discutere cosa rappresenta un appropriato ritorno per un investimento”;

2) Molti più dati governativi dovrebbero essere resi pubblici, in modo che non solo i cittadini, ma la comunità dei ricercatori anche fuori dall’apparato amministrativo possa utilizzarli per conoscere e valutare l’efficacia dell’azione amministrativa, oltre che per fornire contributi e suggerimenti su come migliorarla. Aggiungerei – con un pensiero all’Italia – che una particolare attenzione andrebbe data a come i dati vengono diffusi. Nei mesi scorsi mi è capitato di cercare sul sito dell’INPS dati sulla cassa integrazione italiana e la percentuale di aventi diritto che avevano ricevuto il pagamento. La pagina che li pubblicava era scritta in un italiano talmente involuto e inutilmente tecnico da risultare praticamente incompressibile[2] (e io parlo italiano come prima lingua. Mi sono immaginato un lavoratore non madrelingua cassaintegrato cosa possa averci capito). Scrivere in un buon italiano sui siti della pubblica amministrazione sarebbe una riforma a “costo zero” ma di non trascurabile rilevanza.

3) Il troppo frequente cambio di ruoli contribuisce alla dissipazione di conoscenze e frena la progettualità a lungo termine. Nella pubblica amministrazione inglese l’aver accumulato un ventaglio ampio di ruoli è considerato un fattore molto positivo ai fini della promozione. Personalmente, come economista “fast-streamer” (il fast-stream è un percorso accelerato che ti dà la possibilità di accedere a posizioni direttive entro quattro anni dalla presa di servizio) ero tenuto a cambiare area di lavoro ogni anno. Questo dovere-opportunità fa accumulare molta esperienza ed è anche stimolante da un punto di vista lavorativo: non ci si annoia davvero mai. Ma non è sempre una buona cosa per l’organizzazione, perché più alto è il rischio di perdita della “memoria storica” dei gruppi di lavoro. Ecco un esempio concreto: una volta, lavorando su un modello fatto da chi mi aveva preceduto nel mio team, non riuscivo a capire il perché una certa soluzione era stata adottata e se era da considerarsi ancora valida. Il codice del modello era per altro scritto in un linguaggio di programmazione con cui non avevo ancora molta familiarità. Rintracciato il mio predecessore ho chiesto aiuto a lui, che – comprensibilmente – mi ha risposto grosso modo così: “Sinceramente faccio proprio fatica a capire di che parli. Ho fatto quel lavoro due anni fa e ricordo davvero poco i dettagli tecnici”. Insomma, non è riuscito nemmeno lui ad aiutarmi. Io stesso non ricordo come e se quel problema alla fine sia riuscito a risolverlo. Credo in ogni caso che un migliore equilibrio sul tema del “cambio dei ruoli” (turnover) e una maggior attenzione al processo del “passaggio di consegne” possa portare molto giovamento.

Centralizzazione dell’infrastruttura amministrativa

La retorica di un governo e di una pubblica amministrazione “più vicini alle persone e ai territori” è forte tanto nel Regno Unito come in Italia. Al di là della retorica, spesso la pluralità di istituzioni locali si traduce non solo in regole e misure legislative diverse (a volte contradditorie), ma anche in una babele di banche dati, standard di archiviazione, modalità e autorizzazioni di accesso alle informazioni. Per non parlare dei costi molto più elevati legati alla duplicazione delle funzioni. Tutto ciò diminuisce drasticamente l’efficacia e la qualità dell’azione amministrativa.

Inoltre, la realtà dei fatti vuole che il livello locale o territoriale non sia affatto quello più “vicino ai cittadini” e sul quale essi possono esercitare più facilmente il controllo. Al contrario, è quello su cui viene esercitato il minor controllo, perché il più delle volte le persone sanno poco o nulla di ciò che avviane al livello politico locale, e i grandi organi di informazione non se ne occupano. Ad esempio, in Italia, la sanità è gestita dalle regioni. Mentre un cittadino abbastanza “informato” è probabile sappia chi sia il ministro della sanità, è assai raro che conosca l’assessore regionale alla sanità e sappia farsi un’idea del suo operato. Non è vero che tale operato può essere giudicato semplicemente dalla qualità dei servizi fruiti, che sono il risultato della sedimentazione del lavoro di tanti anni e di una pluralità di soggetti (inclusi i diversi predecessori dell’assessore in carica).

Il tema dell’efficienza della macchina governativa è fondamentale per il futuro stesso della democrazia liberale, come l’emergenza dell’epidemia da coronavirus ha drammaticamente dimostrato. In alcuni casi i regimi autocratici hanno potuto mettere in campo una risposta di assoluta rapidità ed efficacia anche perché svincolati dalle procedure tipiche dei regimi liberal-democratici e dallo stesso obbligo di rispondere delle proprie azioni di fronte a istituzioni terze, media, opinione pubblica. Il pericolo è che un giorno quel tipo di sistema sia indicato a modello per via di una supposta superiorità “performativa”, anche tenuto conto dei vantaggi che offre nella capacità progettuale a lunghissimo termine. Inutile dire quanto tale prospettiva sia spaventosa per chi ha a cuore lo stato di diritto, la divisione dei poteri, le libertà democratiche e individuali. Il miglior modo per difendere queste conquiste del nostro vivere civile è costruire istituzioni democratiche in grado di funzionare bene.

Si è citato prima il discorso di un politico conservatore. Nell’ottobre del 1963 l’allora leader del partito laburista, Harold Wilson, tenne quello che diventò uno dei più celebri discorsi della politica britannica del ventesimo secolo. Wilson, che sarebbe diventato primo ministro di lì a poco, tentò di delineare i tratti di un “socialismo democratico” forgiato dal “bianco calore” (white heat) della rivoluzione scientifico-tecnologica. Quel progetto rimase in parte incompiuto, anche a causa dell’inadeguatezza dell’apparato statale chiamato a dargli forma (come testimoniato da un altro celebre rapporto sul Civil Service britannico – il Fulton Report – commissionato proprio da Wilson e pubblicato nel 1968). Allora, e fortunatamente, nessuna guerra “aiutò” quel cambiamento. Fu anzi un’epoca di progresso sia sul piano delle libertà individuali che dei diritti sociali.

Oggi, nel Regno Unito come in Italia e in tutto il mondo, dobbiamo augurarci che la catastrofe sanitaria ed economica che ci ha travolto servano almeno a migliorare le nostre istituzioni e farle entrare davvero nel XXI secolo. Sperando che non arrivi una vera guerra a colmare il divario fra quanto avremmo dovuto e quanto siamo riusciti a fare. Ci riconteremo, sì. Ma nessuno sa in che tipo di mondo.


Note

[1] L’assegno statale del JRS corrisponde all’80% dello stipendio e il suo importo massimo non può andare oltre le 2500 sterline.

[2] Ecco le prime righe di quella pagina del sito INPS: “I beneficiari potenziali complessivi di Cassa integrazione nelle diverse tipologie sono, al 4 giugno 2020, 8.410.149. Si tratta tuttavia non di domande effettive di fruizione di cassa integrazione ma di prenotazioni di risorse. Si tradurranno in effettive domande solo con invio del modello SR41 (se a pagamento diretto) o con denuncia in Uniemens (se a conguaglio) nel mese successivo a quello di sospensione, con il quale le aziende comunicano le effettive sospensioni e iban dei lavoratori (in caso di pagamento diretto). Ad oggi l’INPS ha ricevuto 1.316.176 sr41, e 1.165.625 sono stati già pagati per 3.249.249 lavoratori. Dei relativi beneficiari potenziali, 4.331.098 sono già stati anticipati dalle aziende con conguaglio INPS”.