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Il pacifismo italiano spiegato ai ragazzi

Laterza ha appena editato il libro “Guerra alla guerra. Guida alle idee e alle pratiche del pacifismo italiano” del giornalista Matteo Pucciarelli, del quale pubblichiamo qui l’introduzione.

Come per molti di quelli che sono nati negli anni ’80, il mio primo approccio alla politica e alle mobilitazioni studentesche avvenne a inizio 1999, quando cominciarono i bombardamenti su Belgrado e poi sul resto della Serbia. Anche l’Italia partecipò all’operazione militare della Nato contro il governo di Slobodan Milošević, una guerra cosiddetta umanitaria; dal nostro paese partirono nel corso della missione un migliaio di aerei, ai quali si aggiunsero trenta navi da guerra e vari sottomarini. All’epoca l’esecutivo era guidato da Massimo D’Alema, e della maggioranza faceva parte anche il Partito dei comunisti italiani. Per la sinistra quella scelta, motivata anche dalla necessità di rispettare gli equilibri, la collocazione e le volontà internazionali, fu un evento traumatico. Un pezzo della propria storia e della propria identità franava di fronte a una decisione così difficile.

Quanto stava avvenendo nella ex Jugoslavia era noto, con opposti nazionalismi che si erano armati e si stavano combattendo senza alcuna pietà, paesi e famiglie distrutte da un odio inspiegabile che era tracimato una volta terminata la lunga fase di unità in buona parte sotto la guida di ferro del maresciallo Tito e del suo socialismo non allineato. L’intervento militare internazionale fu in un qualche modo giustificato all’opinione pubblica, anzi per molti era doveroso intervenire di fronte alle esecuzioni sommarie, alle fosse comuni, ai campi di prigionia: immagini che l’Europa credeva di aver archiviato per sempre, perlomeno sul proprio suolo, dopo gli orrori del nazifascismo. Non ci fu alcuna approvazione da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite all’intervento, ma allora questi parevano quasi dettagli: occorreva un interventismo democratico, si disse; bisognava costringere il governo serbo a sedersi al tavolo delle trattative.

Tuttavia l’intransigenza della gioventù aiutava a sentirsi dalla parte giusta: no alla guerra, sempre. Anche se confesso di essermi limitato agli slogan, all’epoca: fu un’adesione istintiva, non avevo ancora compiuto 15 anni.

Due anni dopo le piazze si riempirono di nuovo. Prima Napoli, marzo 2001, poi soprattutto Genova, a luglio, in occasione del G8: protagonista il movimento contro la globalizzazione, contro un sistema economico ingiusto e portatore di disuguaglianze crescenti e conflitti, contro la finanziarizzazione dell’economia e la riduzione a merce di ogni aspetto della nostra vita, contro la violazione continua dell’ecosistema in nome del profitto a tutti i costi. Nel nuovo mondo, dopo la caduta del Muro, di libero davvero c’era solo il commercio, a non avere limitazioni erano unicamente le merci. Gli esseri umani che avevano avuto la sfortuna di nascere nella parte del mondo sbagliata, invece, si trovavano davanti muri e discriminazioni.

Quello no global era anche un movimento profondamente pacifista. Nelle piazze si trovava di tutto: cattolici, preti e suore, anarchici, militanti comunisti e del sindacato confederale o di base; le famose tute bianche che si preparavano agli scontri di piazza con le forze dell’ordine organizzando corsi di autodifesa; ma anche i black bloc che alzarono il livello dello scontro di quelle manifestazioni coinvolgendo tutti, compresa la maggioranza che aveva in mente di sfilare in maniera pacifica. E anche se la pace, per l’appunto, era una delle parole chiave del movimento, è pur vero che una parte minoritaria in quei giorni caldeggiò la guerriglia metropolitana. La morte di Carlo Giuliani, ‘ragazzo’, fu un trauma. Le violenze inaudite della polizia, alla scuola Diaz e a Bolzaneto, furono un altro trauma.

Eppure negli anni successivi scendemmo ancora in strada, stavolta per dire no alle guerre in Afghanistan e in Iraq, interventi guidati dagli Stati Uniti che, dopo gli attentati aerei dell’11 settembre del 2001, erano decisi a farsi giustizia a modo proprio, o comunque approfittarono della tragedia per non avere intralci e portare avanti la loro politica imperialista. Alle finestre e sui balconi di centinaia di migliaia di case italiane e nel mondo venne appesa la bandiera arcobaleno con su scritto ‘pace’. Pareva facile e ovvio prendere parte a quelle proteste che univano persone e sensibilità diverse tra loro, a volte anche distanti, che però – di nuovo – si ritrovavano assieme nel rifiuto della forza come mezzo di risoluzione dei conflitti. Già allora sembrava chiaro che, dietro al proposito di ‘noi’ occidentali di esportare la democrazia – un nuovo ‘interventismo democratico’, quindi – ci fosse ben altro: la fame di risorse, di materie prime, la volontà di saccheggiare beni dall’altra parte del mondo con la scusa di una battaglia di civiltà tra l’impero del bene e quello del male. Tempo dopo i fatti confermarono quel che sin da subito il movimento pacifista aveva sospettato, cioè che le premesse dell’invasione dell’Iraq erano false: i depositi di armi chimiche progettati da Saddam Hussein non c’erano, quelle che avrebbero dovuto attestarne l’esistenza erano prove fabbricate ad arte dai servizi segreti americani, una montatura a cui i media avevano dato ampio credito e che serviva a rendere digeribile all’opinione pubblica un’aggressione militare. A guidare il fronte interventista assieme agli Stati Uniti, anche allora, ci fu un pezzo di sinistra, perlomeno nominale: il primo ministro britannico Tony Blair, leader dei laburisti.

Lo scoppio di un altro conflitto, di nuovo in Europa, a più di un ventennio da quello dei Balcani, ha riaperto discussioni, prodotto intemerate imbevute di retorica e talvolta crisi di coscienza. La Nato, stavolta, c’entrava solo indirettamente. Il paese aggressore era la Russia, erede ferito dalla disgregazione della vecchia Urss e che ora coltivava nuove ambizioni imperialiste. Dicendosi minacciata dall’espansione occidentale della Nato verso l’Ucraina, ex paese satellite, aveva lanciato la propria ‘operazione speciale’ contro Kiev. Non si trattava di un semplice eufemismo: in Russia chiamarla guerra era proibito, i social network venivano costantemente monitorati; la stampa, invece, era stata normalizzata da tempo con le cattive maniere.

Le immagini che rimbalzavano su ogni canale, o sparate sulle prime pagine dei quotidiani, erano quelle di sempre: palazzi sventrati, centinaia di migliaia di profughi, corpi per le strade e cani che si aggiravano attorno alle carcasse, le fosse comuni e le torture raccontate dai sopravvissuti, i filmati ripresi da chissà chi con le violenze sui prigionieri che ti arrivavano come se nulla fosse sul cellulare, famiglie separate con i padri e i figli maschi maggiorenni rimasti a combattere per la patria, bambini e bambine strappati alla normalità, alla cura e alle tutele dell’infanzia, scaraventati nella realtà della distruzione, della paura, della disperazione. La solita insensata devastazione umana, ambientale, economica. E un misto di preoccupazione e tifo, invece, per chi osservava da lontano, ma non poi così lontano. Prima la bulimia di notizie, di video, foto, ricostruzioni, schemi da Risiko, commenti; poi, giorno dopo giorno, la stanchezza; infine, l’apatia. Apatia interrotta a tratti dalla minaccia di premere il bottone rosso dell’arma atomica, ora ridefinita ‘tattica’ forse per renderla meno terribile agli occhi dei comuni mortali.

Nel frattempo ero cresciuto e diventato un adulto, una persona forse a corto di illusioni che dovrebbe sapere come va il mondo e quindi capace di farci i conti con una buona dose di fatalismo e rassegnazione. Poche ore prima che partisse ufficialmente l’attacco russo all’Ucraina mi era stato chiesto da un collega giornalista, quasi a mo’ di rimprovero: perché i pacifisti scendono in piazza solo quando la guerra è americana e non se è russa o cinese? Sottintendeva una cattiva coscienza, un ignobile doppiopesismo. Era una considerazione generale o parlava anche di me? Capii poi: era il preludio del dibattito pubblico, acceso e amplificato dall’arena dei social network, che avrebbe animato le settimane e i mesi successivi. L’Italia non avrebbe partecipato direttamente alla guerra, ma si sarebbe limitata a inviare armamenti all’esercito ucraino, con l’appoggio della stragrande maggioranza dei componenti del Parlamento. Non solo: il nostro paese avrebbe aumentato le spese militari, arrivando entro il 2028 alla soglia del 2 per cento di Pil destinato agli investimenti del settore, come richiesto dalla Nato. Scelte politiche davanti alle quali il dirsi contrari o dubbiosi, per le più disparate ragioni comprese quelle di natura etica, esponeva all’accusa infamante di fiancheggiare un despota come Vladimir Putin e il suo regime liberticida. Proprio in quelle ore Putin faceva arrestare coloro che in Russia, in nome della pace e della giustizia, protestavano contro la cosiddetta operazione speciale. Eppure era lo stesso despota con il quale, fino al giorno prima, in tanti intrattenevano legami politici di primo piano e facevano affari (anche di natura militare); anzi, a guerra in corso compravamo ancora il ‘suo’ gas. Sembrava una partita di giro assurda e illogica, ma il realismo politico, quel così-va-il-mondo al quale ormai ci siamo abituati e che ci ha imprigionato in gabbie mentali da cui pare impossibile evadere, imponeva di non farsi troppe domande. In guerra, poi, non è mai saggio chiedere conto, occorre marciare in un’unica direzione.

Nel giro di pochi giorni il pacifismo era diventato improvvisamente un marchio di infamia, non più un pensiero mosso da principi e valori che restano patrimonio comune del paese e della sua Costituzione. Il pacifismo doveva per forza di cose essere ‘peloso’, cioè finto, di comodo. In effetti per qualcuno lo è stato: basti pensare alla delegazione della Lega – il partito della ‘legittima difesa’, delle armi per farsi giustizia da soli, dei barconi di disperati in mezzo al Mediterraneo in fuga dalla povertà da ricacciare via con la forza, del servizio militare obbligatorio da reintrodurre – in una piazza contro la guerra a Milano: cosa c’entrava con tutti gli altri? Da quando si erano riscoperti pacifisti?

Il risultato era che un complesso e vario sistema di idee e pratiche veniva irriso, senza entrare mai nel merito delle questioni ma piuttosto liquidandole con gli slogan e con lo stigma. Sul sito del «Corriere della Sera» un giorno di maggio 2022 parve questa considerazione inviata da un lettore: «Io sono un pacifista. Se sulla mia strada vedo due persone che si menano, cambio direzione. Io sono un pacifista. Se assisto ad uno stupro, mi allontano così non sento le grida. Io sono un pacifista. Se vedo un ladro entrare in casa del mio vicino, chiudo bene la mia porta ed alzo il volume della tv. Io sono un pacifista. Se mi rubano il portafoglio non faccio nessuna denuncia, anche se so chi sia il ladro. Io sono un pacifista». Questo modo di pensare, tutto centrato sulla banalizzazione di questioni molto serie e sul qualunquismo, stava diventando senso comune. Il giornalista di Rai 3 Nico Piro lo aveva ribattezzato ‘pub’, pensiero unico bellicista. Per perseguire la pace serviva la guerra, per fermare la carneficina occorreva alimentarla, seppur in maniera contrapposta; bisognava prendere posizione senza zone d’ombra, i buoni erano intrinsecamente buoni e i cattivi erano tali per antonomasia, da sempre. La complessità era bandita, nonostante si stesse assistendo a una gran confusione: battaglioni di ispirazione nazista dalla parte dei buoni, comandanti di ispirazione nazista dalla parte dei cattivi; militanti della sinistra radicale che andavano a farsi arruolare con i russi, brigate anarchiche rivoluzionarie con gli ucraini.

E i pacifisti? Si diceva che non c’erano, ora che la guerra non era direttamente americana; oppure, se invece poi si scopriva che c’erano, diventavano pericolosi agenti post-sovietici; i pacifisti, se c’erano, erano quindi degli illusi («cazzate da liceali», mi è rimasto impresso questo commento rivolto al sottoscritto da un utente di Twitter a me sconosciuto) oppure dei perfidi e occulti nemici dell’Occidente. L’arena pubblica si era trasformata nella curva di uno stadio e il senso non era più neanche figurato: mi colpì molto un commento in prima pagina sulla «Stampa», titolato non a caso Qui curva sud: «Alla controffensiva ucraina e alla riconquista di territori occupati dall’esercito russo, ho esultato come a un gol del Toro»; «spero siano moltissimi i tifosi dell’Ucraina. Io per esempio lo sono e accanito»; «ho esultato come un curvaiolo, e facciopage18image58966432

un tifo indiavolato», scriveva l’editorialista 1. Si parlava di una guerra, dove certo le responsabilità non erano identiche né si poteva essere equidistanti; ma un derby seguito da una curva è un’altra cosa: qui i soldati morivano, i civili morivano, sangue e traumi che durano generazioni – che linguaggio degradante e poco rispettoso era quello?

Anche la memoria sempre divisiva dell’esperienza partigiana, piegata alle ragioni del momento e delle fazioni, era diventata improvvisamente materia d’interesse e storia da rivalutare per i sostenitori integerrimi, mossi da nessun dubbio, dell’intervento militare: siccome dal 1943 al 1945 ci liberammo dal nazifascismo armi in pugno, come potevamo non sostenere l’impegno bellico ucraino oggi?

Il problema principale erano quindi diventati loro, i ‘paci- finti’.

Ma allora chi erano, anzi chi sono, cosa fanno i pacifisti in Italia? Davvero erano e sono spariti? Che avessero protestato solo contro le guerre degli Stati Uniti, era vero anche quello? O forse c’era un problema di racconto del fenomeno? Perché – un giornalista lo sa bene – si può anche scegliere di ignorare una realtà che esiste, amplificandone invece altre minoritarie: mille pacifisti in piazza non fanno dieci no vax che creano un po’ di baccano fuori da un centro vaccinale.

Eppure il sangue risparmiato, citando gli studi della storica Anna Bravo, fa la storia come quello versato. E se è giusto raccontare le guerre, è altrettanto fondamentale non dimenticare le azioni e le idee grandi e piccole che provano ad evitarle, che salvano vite, che invece di soffiare sul vento dell’odio provano a far prevalere il dialogo e l’ascolto.

Questo volume nasce da tali domande e considerazioni, visto che a mancare, in questa grande discussione talvolta violenta nel linguaggio, spesso inquisitoria, erano e sono proprio loro: pacifisti di ieri e di oggi e probabilmente di domani, con i propri dubbi, le proprie contraddizioni, i dilemmi etici, le domande rivolte a sé stessi, ma anche una propria coerenza. Come quel movimento di inizio anni 2000 sono cattolici, di sinistra, antimilitaristi, nonviolenti, ecologisti, a volte contestatori del capitalismo e della sua coercizione, quadri sindacali, attivisti e dirigenti delle organizzazioni non governative che mettono a disposizione la propria professionalità per aiutare gli altri. In piazza ci sono pure tornati, forse però con meno convinzione di prima: la storia recente ha insegnato che i potenti, quelli che poi decidono sulla vita di milioni di persone, non si lasciano condizionare troppo dalle manifestazioni, non importa quanto grandi, e dai cartelloni con degli slogan. L’ineluttabilità del presente e il senso di impotenza – ciò che sta facendo crollare la partecipazione alla vita dei partiti e alle elezioni – sono un virus che non risparmia nessuno. I partiti si sono svuotati, i sindacati sono sempre meno rappresentativi del mondo del lavoro e si stanno trasformando in enormi centri di assistenza fiscale che, quando possono, evitano il conflitto sociale: era impossibile che il clima di sfiducia non contagiasse anche l’associazionismo. La pace è importante, ma poterci pensare appare quasi un lusso per chi se lo può permettere – e allora meglio volare bassi, perché abbiamo tutti delle bollette sempre più salate da pagare.

Nel raccontare questa forma di resistenza ostinata sono state escluse posizioni di comodo, non di rado ambigue, di chi si è comodamente nascosto dietro alla parola pace per celare affinità e simpatie geopolitiche a senso unico, dal partito di Matteo Salvini ai gruppuscoli figli di uno stalinismo fuori tempo massimo, passando per l’estrema destra che in questi anni ha coltivato il culto dell’uomo forte difensore della cristianità e della tradizione di stanza a Mosca. In generale il dibattito è spesso piegato alla contingenza del momento, alle alleanze elettorali da fare e disfare, alla presenza o meno in una compagine di governo; per molti partiti tutto ciò comporta contorsioni, omissioni e scorciatoie sul tema della guerra. Tutto questo appare stupefacente, specie se lo si raffronta con lo spazio mediatico dedicato al conflitto tra Russia e Ucraina: nel corso della campagna elettorale per le elezioni politiche del 2022, di pace si è parlato poco o nulla. Come se anche la guerra, oggi, si fosse privatizzata, diventando un affare che riguarda esclusivamente leader di governo, generali e graduati dell’esercito, precettati e mercenari, analisti internazionali ed esperti di geopolitica, con tutto il resto del mondo ad assistere e al massimo a tifare per la propria squadra.

A mancare, infine, è stata anche l’assenza di una riflessione su cosa significhi realmente la parola pace. Di sicuro non è quieto vivere. Una definizione splendida la diede don Tonino Bello e merita di essere citata per intero, perché allontana ogni sospetto di indifferenza, o debolezza, o remissività del pacifista a tutto tondo che, anzi, lotta per raggiungere un obiettivo:

Non siamo molto abituati a legare il termine ‘pace’ a concetti dinamici. Raramente sentiamo dire: ‘Quell’uomo si affatica in pace’, ‘lotta in pace’, ‘strappa la vita con i denti in pace’. Più consuete nel nostro linguaggio sono, invece, le espressioni: ‘Sta seduto in pace’, ‘sta leggendo in pace’, ‘medita in pace’ e, ovviamente, ‘riposa in pace’. La pace, insomma, ci richiama più la vestaglia da camera, che lo zaino del viandante. Più il conforto del salotto, che i pericoli della strada. Più il caminetto, che l’officina brulicante di problemi. Più il silenzio del deserto, che il traffico della metropoli. Più la penombra raccolta di una chiesa, che una riunione di sindacato. Più il mistero della notte, che i rumori del meriggio. Occorre, forse, una rivoluzione di mentalità per capire che la pace non è un ‘dato’, ma una conquista. Non un bene di consumo, ma il prodotto di un impegno. Non un nastro di partenza, ma uno striscione di arrivo. La pace richiede lotta, sofferenza, tenacia. Esige alti costi di incomprensione e di sacrificio. Rifiuta la tentazione del godimento. Non tollera atteggiamenti sedentari. Non annulla la conflittualità. Non ha molto da spartire con la banale ‘vita pacifica’. Non elide i contrasti. Espone al rischio di ingenerosi ostracismi. Postula la radicale disponibilità a ‘perdere la pace’ per poterla raggiungere 2.

In mezzo a tutto questo, ho ascoltato e preso nota dei racconti e delle esperienze pacifiste ricordando la mia formazione familiare, che oggi qualcuno definirebbe ideologica e in senso spregiativo. Da bambino mi era vietato persino usare e possedere armi giocattolo: i miei genitori, che avevano lambito con qualche pena il ’77, ritenevano fosse diseducativo. Anche solo disegnare pistole, fucili e bombe nei lavoretti per la scuola era considerato altrettanto sconveniente. Figuriamoci i videogiochi di guerra. «Faranno delle loro spade vomeri e delle loro lance falci per potare», mi dicevano ripetendo le parole del profeta Isaia, paladino dei poveri e fustigatore dei ricchi nell’antica società ebraica. Nel corso del tempo il loro si era trasformato in un ripudio totale delle armi e quindi anche delle lotte di liberazione e dei loro eroi. Crescendo, non fu facile accettare queste posizioni: in quanto guerrigliero, quindi utilizzatore di strumenti di morte, anche Ernesto ‘Che’ Guevara era diventato oggetto delle loro reprimende morali. Con queste premesse generali, comunque, quando arrivò la chiamata militare, una volta terminate le scuole superiori, scelsi naturalmente l’obiezione di coscienza. Prestare servizio per un corpo armato, ma anche, più in là, lavorare ipoteticamente per una società attiva nel commercio o nella produzione bellica, per i miei genitori sarebbe stato eticamente inaccettabile. Lo sarebbe stato anche per me.

Allora – ci si chiede, pensando al presente – sarebbe meglio subire un’invasione piuttosto che imbracciare un fucile per sparare e difendersi? Senza alcun dubbio, neanche minimo, i miei genitori mi avrebbero risposto che sì, sarebbe stato meglio. Puoi morire o perdere tutto, ma non derogare a dei principi incrollabili. L’esatto contrario dell’indifferenza, o del voltarsi dall’altra parte: piuttosto un portare alle estreme conseguenze, se necessario, ciò in cui si crede.

Oggi non sono più così convinto che al dilemma dell’autodifesa di un popolo come di un singolo la risposta possa essere sempre un sì, ma ancora adesso quel rifiuto ad ogni costo lo rispetto e ne ho anche un po’ di invidia, perché alla fine sono page22image59041952le posizioni radicali e che paiono utopiche quelle che a volte, a piccoli passi, hanno cambiato il corso della storia e il nostro modo di interpretare il mondo e le relazioni tra gli esseri umani. Magari allora un giorno si realizzerà la speranza di Danilo Dolci: «Quando la persuasione che la guerra è una follia sarà penetrata nelle coscienze, è evidente che i provocatori di guerra, gli apportatori della morte saranno messi in condizione di non nuocere, in amorevoli luoghi di cura, come un pericolo per la società» 3. I pazzi veri allora saranno gli altri, quelli che non dichiarano guerra alla guerra.

1  Mattia Feltri, Qui curva sud, in «La Stampa», 15 settembre 2022.

2 Antonio Bello, Alla finestra la speranza. Lettere di un vescovo, Edizioni Pao- line, Cinisello Balsamo 1989.

page15image589602403 Danilo Dolci, Fare presto (e bene) perché si muore, Francesco De Silva, To- rino 1954.