Gino Strada non era un utopista, Gino aveva proprio la mentalità del chirurgo, lo stile del fare, di salvare il salvabile. Esigente, ha creato insieme alla moglie Teresa e alla figlia Cecilia una rete sanitaria improntata alla qualità. Da Scienza in Rete.
Compagno di banco dalla prima Liceo al Carducci di Milano, Roberto Satolli è fra le persone che meglio hanno conosciuto Gino Strada. Come succede con alcuni compagni di scuola, non ci si perde più di vista. A maggior ragione se entrambi si sono laureati in medicina alla Statale di Milano, se entrambi sono finiti a lavorare in rianimazione al Policlinico di Milano. Due vite parallele, l’una nel giornalismo e l’altra, quella di “Gino”, prima in Croce rossa internazionale poi con la sua creatura Emergency a curare milioni di feriti di guerra ai quattro angoli del mondo. Fino a firmare insieme l’ultimo libro, Zona rossa, sull’esperienza in Sierra Leone a combattere Ebola. Lo ascoltiamo quindi come persona ben informata dei fatti e che la vita ha voluto affratellato all’uomo che ora tanti piangono all’indomani della morte che l’ha portato via, a 73 anni, durante una breve vacanza in Normandia.
Che compagno di banco era Gino Strada?
Credo che me l’abbiano messo vicino perché io avevo fama di ragazzo con la testa a posto e lui di uno scapestrato. In realtà già allora era un ragazzo brillante, estroso, gran trascinatore, come poi ha avuto modo di dimostrare. L’idea che io dovessi vegliare su Gino ce l’aveva anche sua madre, donna dolcissima che per tutta la vita mi ha sempre detto: “mi raccomando, il mio Gino!”.