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Il mercato delle braccia, immigrati in Campania

Viaggio a Villa Literno, Castelvolturno e nelle altre piazze dove ogni notte si arruolano trentamila immigrati per il lavoro, nero, nei campi. (Anticipazione dalla rivista Reportage)

«Semplicemente amore» predica la Chiesa cristiana evangelica di fronte alla quale un giovane africano aspetta in silenzio che si compia il miracolo di un’altra giornata di lavoro. Qualche centinaio di metri più in là, una pacchiana insegna luminosa di un negozio che fornisce bilance e banconi per pizzerie e ristoranti promettendo «i prezzi più bassi d’Europa» fa risplendere un’immagine di Arsenio Lupin, il ladro gentiluomo – l’alternativa francese al Robin Hood inglese – che ruba per sé e talvolta per i più bisognosi, e illumina la strada in attesa che arrivi l’alba e faccia scomparire le creature invisibili che affollano la notte di Villa Literno mentre il resto del paese dorme.

Come in una via crucis della sofferenza in questo angolo di terzo mondo mediterraneo che si affaccia sul golfo di Napoli, per arrivare alla “piazza degli schiavi”, nel centro del paese, devi fare tappa davanti alla chiesa cristiana evangelica “Divino amore” e osservare quel povero cristo poggiato a un segnale stradale ad aspettare un caporale-benefattore qualsiasi, fermarti sotto l’insegna kitsch di Arsenio Lupin e attendere che anche lì arrivino le creature della notte, dedicare un minuto di raccoglimento a Jerry Masslo, l’immigrato sudafricano ucciso nel 1989 in un tentativo di rapina nel tugurio in cui alloggiava, nelle campagne di Villa Literno, davanti alla sede della Cgil a lui intitolata, e meditare su quanto tempo è passato dalla sua morte e quante poche cose abbia realmente cambiato la sua tragica fine. La Camera del lavoro è attiva da appena un anno ed è nata dall’esperienza del sindacato di strada. «Siamo andati per anni a fare il porta a porta tra i braccianti immigrati, molti di loro non sapevano nemmeno che esisteva il sindacato», spiega Tammaro Della Corte, uno dei coraggiosi organizzatori di questa singolare modo, forse l’unico possibile da queste parti, di fare sindacato. Ogni notte, a turno, gli attivisti organizzano “ronde” a difesa degli immigrati, sfidando una malavita che qui ha mostrato tutta la sua ferocia quando, il 18 settembre del 2008, ha ucciso in un colpo solo sei africani e un italiano, considerato confidente della polizia. Oggi l’attivismo di strada ha una sua appendice in quell’ufficio dove gli immigrati vanno per navigare su internet gratis, una volta tornati dal lavoro, oppure a chiedere consulenze e assistenza, a volte anche per compiti che esulano da quelli di un sindacato.

Quella che gli immigrati stessi definiscono senza troppi giri di parole «piazza degli schiavi» è sorvegliata da una statua di Giuseppe Garibaldi, l’uomo che con una stretta di mano, proprio da queste parti, sancì l’unità d’Italia a coronamento di un sogno risorgimentale che aveva animato passioni e provocato illusioni. Quello che non era riuscito a prevedere, il rivoluzionario Garibaldi, è che a centocinquant’anni di distanza i cittadini di Vairano e di Teano si sarebbero ancora contesi il luogo dell’incontro con re Vittorio Emanuele II – una metafora perfetta dell’impossibilità di avere una memoria condivisa nel nostro Paese – e che un giorno quelle stesse campagne avrebbero vissuto un’altra epopea ancora tutta da raccontare, fatta di viaggi della speranza da una parte all’altra del Mediterraneo, sfruttamento e lavoro nero.

Sono le 6 del mattino in questo pezzo d’Africa che dista appena 25 chilometri da Napoli e, all’apparenza, molto meno da Ouagadougou o Dakar, e la statua dell’ “eroe dei due mondi” sorveglia dal centro della piazza, come un vigile urbano qualsiasi, il traffico di centinaia di auto station wagon, furgoncini e camion carichi di cassette da riempire che si fermano ai bordi della strada per trattare l’acquisto di braccia per l’agricoltura. E’ qui, dove si è fatta l’Italia e dove quest’ultima ha incontrato l’Africa nera, che tutte le notti va in scena il più grande mercato informale di forza lavoro che l’Italia di oggi conosca.

Dalle stradine che affluiscono alla piazza, come a un segnale convenuto, spuntano all’improvviso decine di persone, che con i volti ancora assonnati e lo zainetto in spalla avanzano come in un Quarto stato del proletariato del XXI secolo, notturno e infinitamente più triste. Sono soprattutto giovani africani ma, spiegano gli attivisti del sindacato di strada della Cgil, da qualche anno è in forte aumento l’immigrazione rumena, meno esigente di quella africana per via del welfare familiare – i rumeni sono di solito almeno in due, marito e moglie, e possono accettare salari più bassi, a differenza degli africani che sono invece soli – ma anche meno ricattabile in quanto comunitaria e pertanto non dipendente dal permesso di soggiorno.

Jerry Masslo, il rogo del ghetto e Miriam Makeba

Jerry Essan Masslo fu uno dei primi africani ad arrivare a Villa Literno. Fuggiva dall’apartheid in Sudafrica, era un giovane colto e finì vittima, ad appena trent’anni, di una delle bande di ragazzini che tutte le notti andavano a caccia di immigrati per rapinarli, una specie di Ku Klux Klan mediterraneo. La caccia all’immigrato, a quei tempi, mi pare di capire fosse una specie di sport, come nella peggiore America degli anni bui. «I neri vivevano nelle campagne, in condizioni terribili. Spesso i ragazzi del posto andavano a minacciarli con le pistole e a rapinarli. Per fortuna ora la situazione è molto migliorata, le rapine non avvengono più e gli immigrati vivono in case più decenti», racconta Tammaro della Corte. Anche se gli affitti rimangono tutti, o quasi, al nero, come il lavoro di queste persone che, dovessero incrociare le braccia tutte insieme come accadde due anni fa in quello che fu definito lo “sciopero delle rotonde”, paralizzerebbero l’intera economia di questi luoghi.

La morte del giovane sudafricano fu uno choc non solo per la comunità locale ma per tutto il Paese, e provocò la nascita del primo movimento antirazzista in Italia e, di riflesso, la prima legge sull’immigrazione che portò la firma dell’allora ministro degli Interni Claudio Martelli.

E’ per questo, e non solo, che Villa Literno andrebbe considerata la capitale dell’immigrazione africana nel nostro Paese, un luogo che la storia si occuperà di caricare di simboli: il rogo del ghetto dove vivevano duemila africani, il 18 settembre del 1994; la morte di “mama Africa” Miriam Makeba, il 9 novembre del 2008, poche ore dopo il suo ultimo concerto per ricordare i sei immigrati uccisi da un gruppo di fuoco della camorra in quella pagina nera della storia dell’immigrazione in Italia che passerà alla storia come la strage di San Gennaro.

Un’agenzia interinale all’aperto

Ventitrè anni dopo l’omicidio di Jerry Masslo, la piazza degli schiavi è affollata come sempre. Chi ha bisogno di un immigrato, sia esso un padrone schiavista, un caporale reclutatore o un anziano in cerca di una badante, viene a cercarlo qui, in questo gigantesco ufficio di collocamento all’aperto.

«L’agricoltura è per forza di cose flessibile, legata alla stagionalità, almeno nei paesi mediterranei dove le colture in serra non sono molto diffuse. Con questo bisogna fare i conti, ma in Italia esiste una deregulation completa. Se non ci sono luoghi in cui possano incontrarsi la domanda e l’offerta di lavoro, anche un agricoltore onesto non sa a chi rivolgersi. I caporali in fondo non hanno fatto altro che inventare il lavoro interinale prima dei governi», mi spiega Davide Fiatti della Flai Cgil. Su un milione e centomila lavoratori nell’agricoltura in Italia, ben un milione sono stagionali, e la mancanza di regole contribuisce a produrre fenomeni come questo.

Il copione che si rispetta fedelmente tutte le notti in questo pezzo di Campania che si allunga fin quasi al basso Lazio è sempre lo stesso: i caporali accostano, tirano giù il finestrino e contrattano prezzo e condizioni, poi se l’affare va in porto i lavoratori salgono a bordo, spesso stipandosi all’inverosimile. Di solito non sanno nemmeno dove andranno a lavorare. La contrattazione dura al massimo qualche minuto e la stessa scena si ripete in centinaia di punti per un paio d’ore. Al termine, nella piazza semideserta rimarranno solo gli sfortunati che nessuno ha voluto e ai quali non rimarrà altro che ciondolare per il paese in attesa della notte successiva.

I minatori calabresi e i gualani di Corrado Alvaro

Quello che stupisce è con quanta normalità questo moderno mercato degli schiavi sia accettato da tutti. La caserma dei carabinieri è ad appena cinquanta metri dalla piazza, ma in giro non si vede un agente. Il paese dorme mentre sotto le sue finestre ci sono migliaia di braccia in vendita, quando si sveglierà di tutto ciò non ci sarà traccia. La domanda che mi pare d’obbligo porsi è: com’è possibile che tutto ciò avvenga senza che a nessuno, fatta eccezione per il drappello di sindacalisti di strada con i quali mi accompagno, salti in mente di far qualcosa?

La risposta me la suggerisce uno di loro: «Qui nessuno protesta perché fino a vent’anni fa al posto degli immigrati c’erano loro». Loro, i liternesi e soprattutto i loro cugini casalesi, come vengono definiti gli abitanti di Casal di Principe. Erano quest’ultimi gli schiavi per antonomasia, i lavoratori destinati alla raccolta stagionale dei pomodori e della frutta, nelle mani di caporali e sfruttatori. Oggi dire «casalesi» equivale invece a evocare il più temuto clan camorristico della Campania, fatto conoscere al mondo dal bestseller Gomorra di Roberto Saviano.

A ben vedere, molte piazze del sud Italia sono state, fino agli anni ’50, dei mercati informali di forza lavoro. Il 5 dicembre a Motta San Giovanni, un piccolo comune affacciato sullo Ionio e il Tirreno dalle colline che dominano Reggio Calabria, è tutta una santabarbara: si celebra la patrona dei minatori, si ricordano i tanti morti nelle miniere e si rende omaggio ai sopravvissuti. La folla festante si accalca nella piazza principale, in quella stessa piazza dove, fino a qualche decennio fa, più volte all’anno i giovani disoccupati si ritrovavano ad attendere che gli emissari delle imprese minerarie del Nord passassero a portarli via, offrendo loro un futuro da talpe in miniere e gallerie. Lo stesso copione andava in onda in altri luoghi della Calabria: Petilia Policastro, Colosimi, San Giovanni in Fiore. Negli stessi anni, in decine di paesi appenninici dell’alta Calabria, della Campania, della Lucania e del Molise in giugno, mese della mietitura, all’avviso del banditore numerosi uomini si accalcavano dall’alba nella piazza principale, falce in pugno, nella speranza di essere reclutati dai “caporali” per la raccolta del grano nelle Puglie. Quello che accadeva invece nella piazza Orsini di Benevento ogni 15 agosto, in occasione della festa dell’Assunta, non aveva simili nel resto del Mezzogiorno. In quella data convenivano a frotte da tutta la provincia le famiglie più povere, che mettevano all’asta per i possidenti terrieri quanto di più prezioso avevano: i propri figli, destinati a servire un padrone per un anno intero, dall’otto settembre a quello successivo. Se ne trova traccia in un reportage di Corrado Alvaro, datato 1953 e intitolato “Il mercato degli schiavi”. Lo scrittore calabrese dipinge l’esibizione della merce umana – minorile, è bene sottolinearlo – nella pubblica piazza con queste parole: «Il ragazzo poteva avere dodici anni, indossava una veste gialla d’una cotonina di veste femminile, orlata ai polsi e al collo e lungo l’abbottonatura di un nastro violetto. Era quello che richiamava alla mente una madre. La madre non c’era». Poi prosegue: «C’era il padre, ottuso, come sordo, in silenzio. Pareva non esistesse un rapporto tra i due, padre e figlio». In un libro di una ricercatrice beneventana, Elisabetta Landi, leggo la testimonianza di un gualano, come erano definiti i ragazzini in vendita: «Ho fatto il gualano dal 1943 al 1950. Avevo tredici anni e mio padre mi prese e mi portò a Benevento a piazza Orsini dove si vendevano, chiamiamoli, schiavi. Sono andato a garzone a fare il pecoraro, mi pattuirono per un quintale di grano e 1.500 lire. Allora il padrone, la prima cosa che fece mi venne a guardare in bocca se avevo i denti buoni, se ero robusto con i muscoli, per vedere che forza c’avevo, perché loro dovevano sfruttare al massimo quello che potevano».

A Villa Literno ci sono invece gli africani, da un lato della piazza davanti a un palazzo color blu notte che ospita un caseificio. Sono tutti maschi, molto giovani, e provengono dal Burkina Faso. Sull’altro versante ci sono i rumeni, equamente divisi tra uomini e donne. Nessuno guarda loro in bocca per vedere se hanno i denti buoni, apparentemente nemmeno i muscoli. Si bada più ad acquistare braccia a buon mercato, senza andare troppo per il sottile. Tanto domani sarà un altro giorno, e un altro lavoratore.

Il sindacato di strada

Gli immigrati si dispongono a gruppetti attorno alla piazza. Gli attivisti del sindacato li avvicinano, consegnano i volantini con i numeri di telefono e le casacche, qualcuno si avvicina spontaneamente. Bisogna stare molto attenti, spiegano, perché non bisogna spaventarli e nemmeno impedire loro di salire sui furgoni dei caporali. «Altrimenti ci accusano che è colpa della Cgil se non lavoriamo. A Nardò, in Salento, è accaduto, molti ci respingono perché hanno paura che nessuno li prenda a lavorare». Questa è la difficoltà di fare sindacato di strada, con gente ricattabile che non può permettersi di perdere una giornata di lavoro.

Provo anch’io ad avvicinare qualcuno, timidamente. Mi accolgono con cordialità e diffidenza, un gruppo di rumeni scherza e si mette persino in posa per uno scatto, ma quando chiedo loro informazioni sul lavoro fanno finta di non capire bene l’italiano. Hanno paura, in tutta evidenza. Solo una donna, che dice di essere arrivata in Italia alcuni anni fa dalla Romania e di avere due bambini, ammette: «Dal 2007 è cambiato tutto. I padroni hanno cominciato a dichiarare sempre meno giornate di lavoro. Quest’anno non me ne hanno certificato neppure una, e così io non posso avere l’assistenza statale per i miei figli». Ecco come la crisi viene scaricata ancora una volta sull’ultimo anello della catena, il più debole.

«Veniamo qui tutte le mattine, alle volte andiamo di nascosto nei campi, soprattutto negli allevamenti bufalini dove lavorano gli indiani. Se riusciamo a risolvere anche un piccolo problema, poi sono loro a venire a cercarci anche per l’assistenza sanitaria o per iscrivere i figli a scuola», racconta ancora Tammaro Della Corte. Ad occuparsi degli immigrati qui ci sono solo organizzazioni di frontiera, come in una baraccopoli di Nairobi o una favela brasiliana: il sindacato di strada, il centro Fernandes gestito dalla Caritas – legato alla chiesa cattolica, dunque – che distribuisce beni di prima necessità e vestiti, i missionari comboniani, molto attivi nelle zone più povere dell’Africa e nell’area metropolitana napoletana, e non per caso.

Nel frattempo si sono fatte le sette e comincia timidamente a far giorno. E’ stata una notte calda ma a quest’ora l’aria è fresca. Da un’ora davanti alla chiesa “Divino amore”, sotto l’insegna di Arsenio Lupin e la sede della Cgil intitolata a Jerry Masslo, nonché “nella piazza degli schiavi” dura la processione ininterrotta di furgoncini, camion carichi di cassette da riempire e auto station wagon, che si stipano all’inverosimile di immigrati. Anche i caporali non sono più quelli di una volta. Molti sono immigrati, hanno facce dell’est Europa o africane come le persone che caricano a bordo, guadagnano sull’intermediazione e sul trasporto, sul cibo e persino sulle bottigliette d’acqua che rivendono i lavoratori. Si tratta, per loro, di un passaggio a una casta diversa, leggermente più in alto dei paria che trasportano, al soldo dei veri sfruttatori.

La stessa scena si ripete lungo tutta la Domiziana, a Castelvolturno e nella piazza di Parete, e le cifre sono impressionanti: si calcolano novemila persone alla ricerca quotidiana di lavoro nella sola Castelvolturno e alcune altre migliaia a Villa Literno, cifre che aumentano considerevolmente nella stagione in cui si raccolgono i pomodori. Invisibili che affollano strade e piazze mentre il resto del paese dorme, come quegli scarafaggi che la notte escono dalle loro tane a frotte e scompaiono alla vista della luce. Il giorno non appartiene a loro.

Quest’articolo è un’anticipazione dalla rivista Reportage, trimestrale di scrittura, giornalismo, fotografia, www.ilreportage.eu.