Le sinergie tra le Poste e l’Alitalia sono praticamente inesistenti. L’unica soluzione sarebbe quella di una partecipazione rilevante dello stato per salvaguardare alcuni interessi nazionali, il mondo del lavoro in primis, e l’ingresso di partner esteri che portino con loro esperienze organizzative e risorse finanziarie che a noi ormai mancano
Cerchiamo di fare il punto per grosse linee su una vicenda che si trascina da tanto tempo e che non ha ancora trovato una sua sistemazione adeguata. Intanto le difficoltà dell’Alitalia non sono soltanto recenti. La cosiddetta compagnia di bandiera (forse il nome è in fondo indovinato, perché in piccolo essa rappresenta bene una parte consistente dei mali italiani) è male gestita, inquinata dal pesante intervento politico quotidiano nei suoi affari, prona qua e là alla corruzione e al nepotismo, organizzativamente confusa, gestita in modo approssimato e questo da molte decine di anni.
I suoi mali venivano, almeno sino ad un certo punto, leniti dall’esistenza di un pratico monopolio su di una parte consistente delle tratte previste, in particolare in Italia, ciò che permetteva anche di tenere alte le tariffe e di contribuire, comunque più male che bene, a far quadrare i conti annuali.
Questo modello entra però progressivamente in crisi con la deregulation della fine degli anni 90, il conseguente accentuarsi della concorrenza sul mercato e la caduta del sistema delle partecipazioni statali, nonché forse anche con l’indebolimento dei partiti. I vecchi interessi riescono ad un certo punto ancora a bloccare la fusione con Klm, ma poi la situazione precipita;
Si arriva così al fatidico 2008. Di fronte alla minaccia del fallimento o dell’acquisizione della società da parte di Air France, interviene Berlusconi, che spinge invece demagogicamente per una soluzione italiana, che poi si rivelerà in realtà all’italiana. Si vara una nuova compagine azionaria, con l’intervento nel capitale di una serie di imprenditori che avevano qualche interesse “laterale” nella vicenda, mentre Air France si riserva il 25% del capitale, tenendo quindi un piede nella società, ottenendo inoltre un diritto di veto nelle decisioni importanti. Con il geniale supporto del banchiere di sistema Corrado Passera, si disegna una nuova strategia e si trova anche l’appoggio delle banche per sostenere il progett.
Naturalmente tutti i debiti e i problemi della compagnia vengono scaricati sui contribuenti, con un danno complessivo il cui ammontare esatto è difficile da calcolare ma che è stimabile, a leggere i giornali, tra i 6 e i 7 miliardi di euro. Ma se aggiungiamo a tale somma 1,2 miliardi persi dalla compagnia dall’avvio del piano Berlusconi-Passera ad oggi e i circa 3 miliardi che nella sostanza Air France era disponibile a versare per prendere il controllo della compagnia, il danno si fa ancora più rilevante.
Presto si rivelano la debolezza e gli errori del piano strategico. Si taglia selvaggiamente sulle rotte estere e in particolare su quelle a lungo raggio, che sono invece quelle nelle quali il mercato cresce di più, a fronte di una minore concorrenza e in particolare dell’assenza degli operatori low-cost. Si puntano gran parte delle carte sull’Italia, mantenendo prezzi alti per i biglietti e sperando così di quadrare i conti.
Ma il mercato interno vede il perfettamente prevedibile arrivo dell’alta velocità ferroviaria e delle compagnie low-cost, che conquistano quote crescenti di mercato, mentre obbligano la società ad abbassare i prezzi. Così il fatturato della compagnia non decolla e i conti economici e finanziari ne soffrono fortemente. L’Alitalia è nel 2013 di nuovo sull’orlo del fallimento, con perdite crescenti.
Naturalmente, as usual, mentre i politici di destra e di sinistra sfruttano l’ennesima occasione per andare sui giornali raccontando la prima cosa che capita, pur di farsi sentire, il governo cerca affannosamente di intervenire all’ultimo momento, appena pochi giorni prima che manchi il carburante. Alla ricerca disperata di qualche donatore di sangue, trova intanto le solite banche sempre pronte a dare i soldi a chi non li merita, mentre bussa alle porte di Cassa Depositi e Prestiti, di Fintecna, di Ferrovie dello Stato, di Poste Italiane. Finalmente quest’ultima accetta di entrare nel gioco con 75 milioni di euro. Mettendo insieme le banche volenterose, le poste e qualche altro socio minore, per il momento e per qualche mese i conti sembrano quadrare, almeno sul piano finanziario; si aumenta il capitale di 300 milioni e si ottiene un prestito di 200. Invece manca del tutto un credibile piano strategico.
L’intervento di Poste Italiane ha qualcosa di grottesco. Una delle giustificazioni per tale intervento è quella che l’ente ha una piccola compagnia aerea che potrebbe diventare l’impresa low-cost di Alitalia. Ma la società è davvero minuscola e comunque anch’essa perde dei soldi. Le sinergie tra le Poste e l’Alitalia sono praticamente inesistenti. Intanto l’amministratore delegato delle stesse Poste fa delle dichiarazioni alla stampa da cui traspare, se le sue parole sono state riportate correttamente, una sua forse difficile familiarità con i bilanci e con la finanza. Peraltro era quasi impossibile che la stessa persona dicesse di no al governo, dal momento che il suo incarico, rinnovabile, scade a marzo del 2014 (potrebbe anche essere inviato a fare l’amministratore delegato di Alitalia);
Sempre il boss delle Poste starebbe preparando, dall’alto della sua esperienza nel settore, un nuovo piano strategico, il quarto in quattro anni per la società. Il cielo ci salvi. Speriamo almeno che esso non miri soprattutto a salvare i soldi degli attuali azionisti e delle banche “di sistema”, che, per i begli occhi di Berlusconi, hanno messo nel gioco sino ad oggi più o meno un miliardo. Per le piccole imprese nostrane, tra il 2008 e oggi, il credito si è contratto del 21%. Intanto l’abile manager sta volando verso Parigi (su di un aereo Alitalia?) per incontrare i vertici di Air France.
Altrettanto grottesco appare l’intervento sui giornali del presidente della Confidustria, Squinzi, che si dichiara perplesso del fatto che l’Alitalia cada in mani pubbliche. Ma perché lo stesso Squinzi non mette allora insieme una cordata credibile di imprenditori nazionali che si facciano avanti? Nessuno, credo, sbarrerebbe loro la strada.
La compagnia di giro messa in piedi dal governo non può comunque risolvere i problemi strutturali della società. Il sistema finanziario, imprenditoriale, politico, nazionale non è capace o non ha le risorse per mettere durevolmente sulla buona strada l’impresa. Bisogna trovare un partner estero stabile che assicuri un qualche futuro alla compagnia. Air France, sulla base dei dati disponibili, al momento appare l’unica in grado di farlo. Ma la società, alle prese con dei guai in patria, anche se minori di quelli dell’Alitalia, è spinta ad intervenire da noi con molta prudenza (ha già perso 322 milioni nella partita) e, comunque, con l’unica motivazione che riguarda la conquista di una fetta rilevante del mercato italiano, che altrimenti sarebbe preda dei suoi concorrenti, siano essi Lufthansa o le compagnie low-cost.
Ma per farlo pone delle dure condizioni. Essa chiede, oltre ad una ristrutturazione del debito (leggi, un suo taglio sostanziale), il ridimensionamento dell’occupazione, nonché la riduzione del numero degli aerei. Essa, inoltre, appare restia ad accettare alcune condizioni apparentemente poste dal nostro improbabile governo, quali il mantenimento di Fiumicino come hub e la pari dignità di trattamento di Alitalia con Air France e Klm. Speriamo che una soluzione comunque si trovi perché non sembrano esisterne altre. La società franco-olandese non ha ancora comunicato se essa aderirà, ed eventualmente per quanto, all’aumento di capitale deliberato dall’assemblea della compagnia romana. Ci sarebbe forse, in alternativa o in via complementare a quella della compagnia francese, la prospettiva dell’intervento di una compagnia araba, ma la questione appare avvolta nelle nebbie.
Ma l’ottimo sindacalista Bonanni non vuole i cattivi francesi, che vorrebbero porre –inaudito!- delle condizioni al loro ingresso e dice che bisogna pensare ad altri interlocutori (ci dica lui quali; nel frattempo Lufthansa ha detto di non essere interessata); e anche il ministro Lupo, a suo tempo entusiasta della brillante soluzione Berlusconi-Passera, fa la faccia feroce con i transalpini. Lasciamo fare questi nostri connazionali e piloteremo la società verso un nuovo e rapido fallimento. Lo stesso obiettivo sembrerebbe avere più direttamente in mente la Iag, sigla che mette insieme British Airways, Iberia, Vuelig e che ha fatto ricorso alla Unione Europea contro l’ingresso di Poste Italiane nel capitale di Alitalia, considerandolo un aiuto di stato.
Il caso Alitalia pone peraltro un problema più generale al nostro paese. Nell’ultimo periodo sono venute a galla una serie di difficoltà di diverse imprese nazionali grandi e medio-grandi. Si va dalla Indesit, all’Ilva, alla Telecom, a molte attività del gruppo Finmeccanica.
In tutti questi casi appare evidente che il sistema nazionale preso nel suo complesso (politica, economia, finanza) non abbia più in se da solo la possibilità e la capacità di mettere in sicurezza il futuro di tali imprese. L’unica soluzione che vediamo possibile, al di là delle sfuriate demagogiche di Squinzi e soci, è quella di una presa di partecipazione rilevante dello stato o di strutture pubbliche e parapubbliche, presa di partecipazione che serva a salvaguardare alcuni interessi nazionali, in primis quelli del mondo del lavoro; e per il resto si aprano colloqui con dei possibili partner esteri, europei o asiatici non importa, che portino con loro mercati, esperienza organizzative, risorse finanziarie, che a noi ormai mancano.
Al di fuori di questa, nulla salus, almeno crediamo.