Le previsioni del World Energy Outlook dell’Aie di qui al 2030. Una lettura non tranquillizzante. L’oro nero continuerà a dominare, ma a che prezzi, dove e come?
La prevalente riflessione sull’avvenire è in termini di debito pubblico o di modifiche di cambio tra le monete o, al limite, di futuro del lavoro e del commercio internazionale. Se poi si cercano soluzioni, almeno al primo problema, che in fondo è il più semplice (con meno incognite) tra quelli elencati, il debito abbattuto risulta qualcosa di molto difficile da ottenere, con quarant’anni di pene “greche” assicurati per metà della popolazione, anche in un paese più fortunato di altri, l’Italia. Se ci si ferma a riflettere, ne emerge un muro di difficoltà che non è possibile superare. Conviene allora cercare di aggirare l’ostacolo, o almeno di rimandarlo, cominciando ad affrontare problemi apparentemente più semplici, come l’ambiente e il sistema energetico. Se parlando di monete, di debito, di organizzazione del lavoro l’orizzonte sembra pieno di diversità, è ragionevole invece pensare che il riscaldamento globale sia una minaccia per tutti gli umani di qualsivoglia ricchezza siano portatori, su qualsiasi parallelo, e anche l’energia sia un bene comune da condividere e preservare da un uso incauto o colpevole. Discutere di questi argomenti minori – tali almeno li considera l’accademia degli economisti – ha inoltre il risultato utile di ridurre spese incalcolabili, ma certamente inevitabili, e migliorare la qualità di vita.
Una simile considerazione è resa meno complicata dalla conoscenza delle principali tendenze in tema di energia, secondo le previsioni più accreditate.
Da qualche giorno è possibile leggere la sintesi del World Energy Outlook dell’Aie, l’Agenzia internazionale dell’energia. È una sintesi della sintesi di tutto quello che si sa e si prevede, tempo due decenni, in tema di elettricità, petrolio, gas, rinnovabili, risparmio ed efficienza, nucleare da parte di un grande consesso che raccoglie informazioni, statistiche, piani provenienti da governi, istituzioni politiche ed economiche locali e internazionali, industrie energetiche ed elettriche in continua evoluzione, ma anche da case automobilistiche come dall’insieme dell’industria originata dai sistemi di trasporto: dal cemento delle strade, all’acciaio dei motori, dalla plastica all’informatica automotive. Tutti cercano di capire come andrà il mondo, il proprio mondo, perché devono subito fare delle scelte per non arrivare in ritardo a un appuntamento certamente al buio, però anche inevitabile e senza alternative, con il rischio di essere tagliati fuori per i vent’anni seguenti o per sempre. L’Aie registra tutto quello che viene a sapere, e poi deve trarne un senso che sia fruibile dalle stesse fonti che le hanno fornito le informazioni. Il documento che esce da questo scambio di numeri è spesso falsato da qualche esagerazione, qualche svista, qualche errore. Il paradosso è che lo leggiamo noi, gente della strada e lo leggono – proprio lo stesso Outlook – i capi delle imprese e delle nazioni. Si può anche immaginare che all’Aie vi sia una politica di istituto – a fin di bene – che induca a scegliere pro o contro il carbone o l’ambiente, il nucleare o il risparmio, in vista di qualche finalità che non sempre è dato conoscere. L’Outlook è però annuale. C’è da parte degli autori la convinzione di poter sempre rimediare, l’anno dopo, ai pasticci o alle forzature dell’anno prima. C’è soprattutto la certezza che indicando una tendenza per gli anni avvenire si riesce a orientare decisioni operative dei vari decisori, stati o multinazionali che siano, verso un obiettivo confortevole per la maggioranza di cui si tiene conto. Anche questa è democrazia…In altri termini è probabilmente una lettura utile per avere sottomano e nella memoria delle cifre e degli orientamenti che potrebbero indirizzare comportamenti e scelte con conseguenze gravi, in tutti i sensi; quel che poi avverrà davvero quanto al petrolio e al resto, lo vedrà chi avrà voglia e tempo per occuparsene, tra 20 e più anni.
Il petrolio governerà le nostre vite di umani anche negli anni trenta. E questa è una prima affermazione che disorienta coloro che avevano pensato a una civiltà di ordine superiore e in grado di farne a meno, mentre tranquillizza il potente partito conservatore degli automobilisti mondiali. Ma quale petrolio e quanto, e prodotto a che prezzo, e da chi e per chi? Le risposte indicano molteplici certezze dell’Aie: cento milioni di barili al giorno, contro gli 85 attuali per un prezzo che supera in media i duecento dollari correnti a metà del decennio trenta (215 milioni di dollari correnti nel 2035, ma 125, lo stesso anno, in dollari 2011), il che segna un raddoppio rispetto ai prezzi dei nostri giorni ciò che denota una discreta inflazione prevista. Investire in titoli petroliferi sembrerebbe in pratica più conveniente che non investire in titoli di stato, almeno per i risparmiatori che si accontentano di poco. Una parte crescente del barile sarebbe inoltre di origine non tradizionale, derivando da sabbie bituminose, o light tight oil, o estreme profondità marine. Si profilerebbero poi due nuovi (ehm!) protagonisti tra i maggiori produttori: uno di petrolio convenzionale, addirittura targato Opec e nell’altro caso invece un ritorno di un antico protagonista, il più antico di tutti, quello che ha “inventato” il petrolio ed è però arrivato al famoso picco di King Hubbert già nel 1970: gli Usa. Dopo aver lottato per decenni contro ciò che ostacolava, per motivi naturali e politico sociali, l’indipendenza energetica del paese – l’esaurimento dei pozzi, gli ambientalisti, i costi estrattivi – dopo aver cercato per ogni dove alternative per far correre le auto, dopo aver cercato petrolio, la soluzione ritenuta migliore dall’industria maggiore, in fondo ai mari, sotto i ghiacci, nei paesi più remoti e riluttanti, a furia di guerre e di colpi di stato, ecco che gli Usa sembrano trovare, in casa, un facile petrolio moderno che può perfino sottrarsi al giogo delle multinazionali, di casa o estere, le quali a prima vista non sembrano compiacersene, preferendo il petrolio mediorientale, sia pure con la difesa armata: della democrazia e del petrolio, è tutt’uno; visto che sempre di “american way of life” si tratta. L’Aie la mette così: “il recente aumento della produzione statunitense di petrolio e gas, guidato dall’impiego di tecnologie per l’upstream che consentono di estrarre light tight oil e shale gas sta sostenendo l’attività economica – i più bassi prezzi di gas ed elettricità conferiscono all’industria un vantaggio competitivo – e sta mutando in modo strutturale il ruolo del Nord America nel commercio mondiale di energia”. Aggiunge che intorno al 2020 gli Usa diventerebbero il primo produttore mondiale di petrolio, sopravanzando l’Arabia saudita. Verso il 2030 gli Usa diventerebbero addirittura esportatori netti di petrolio, modificando in modo straordinario non solo il commercio degli idrocarburi e l’insieme dei traffici mondiali, ma la stessa geopolitica che dall’inizio del secolo scorso, in pace e in guerra, ha avuto il petrolio e il suo controllo, non solo degli Stati uniti, ma soprattutto di essi, come strategia principale e scatenante di gran parte, se non di tutto lo svolgersi degli avvenimenti diplomatici e militari, nel secolo scorso e nell’attuale.
Il petrolio del Medioriente non resterà comunque ad arrugginirsi nei pozzi, ma si rivolgerà altrove per trovare un mercato. Sarà l’Asia orientale, soprattutto la Cina e in secondo luogo l’India e il Giappone a comprare il petrolio “arabo” eccedente, o per meglio dire, dell’Opec (compreso quello, gravato di sanzioni, iraniano) che Usa ed Europa abbandoneranno. Si prevede infatti che il numero delle automobili raddoppierà nel corso degli anni, ciò che esalterà la fantasia di alcuni. Utilizzando l’abituale divisione tra petrolio Opec e non Opec, in questo decennio, quello originato nel resto del mondo supererà l’altro, raggiungendo 53 milioni di b/g contro 50, ringraziando la novella “bonanza” Usa. Nel decennio successivo si verificherà un contro bilanciamento dei pesi e l’Opec supererà i 50 milioni, mentre il resto del mondo si attesterà a una misura di poco inferiore. Nel prossimo futuro sarà dunque l’offerta degli Usa a fare la differenza, e in seguito l’Opec riprenderà il primato con l’aumento atteso della produzione irachena. Dai due milioni di barili al giorno dell’ultimo periodo, si punta a risultati quattro volte più elevati, attribuendo in buona misura all’Iraq e alla sua produzione nell’area di Bassora e del Golfo persico il compito di riempire di petrolio le assetate auto asiatiche. L’Iraq potrebbe perfino fare da sé, con una spintarella iniziale, visto che si prevedono entrate di 5.000 miliardi di dollari per tutto il periodo, con una media di 200 miliardi annui. Senza l’offerta aggiuntiva dell’Iraq, l’Aie prevede un aumento dei prezzi di 15 dollari al barile, con tutte le conseguenze del caso.
C’è infatti una rassicurante (?) previsione di un parco macchine che dovrebbe raggiungere e superare 1,6 miliardi di vetture, il doppio di quello attuale, da raggiungere per la metà degli anni trenta. Occorre un grande quantitativo di denaro per mettere a punto la ricerca e gli impianti iracheni. L’Aie nota che oltretutto quasi tutto il gas, estratto insieme al petrolio, viene bruciato nell’impossibilità di usarlo. L’enorme diffusione dell’auto è innegabilmente connessa alla soglia di 3,8 gradi centigradi di aumento della febbre mondiale che l’Outlook della Aie ammette con tutta disinvoltura. È noto che due gradi di maggiore temperatura media alla fine del secolo sono stati indicati dagli scienziati dell’Ipcc-Onu come il limite invalicabile per sopravvivere, pur con molti traumi, molto male ripartiti e con pericoli incombenti, forse superabili, degli umani sul comune pianeta. Su questo punto si tornerà al termine del presente riassunto.
Bisogna fare un cenno sul gas. Da alcuni anni gli Usa con la tecnica dello Shale gas (si veda in proposito l’articolo di Francesco Ciafaloni, “Grattare sporco. Uno sguardo al mondo nuovo dello Shale gas”, (6 maggio 2011) sono diventati esportatori netti di gas. Anche Cina e Australia usano di sistemi analoghi. Quello che più conta è che il loro gas costa alle industrie locali un quinto di quanto pagano il loro le corrispondenti imprese europee per il gas importato, e un ottavo di quanto costi alle giapponesi. La Cina dagli attuali 130 miliardi di metri cubi (è l’ordine di grandezza dei consumi di gas italiani, 90 miliardi) salirà a un consumo previsto di 545 miliardi nel 2035. Si allineerà davvero il nuovo governo cinese alla predizione dell’Aie? Quel che è ormai certo è invece l’imminente piano energetico del governo italiano. I nostri tecnici forse invidiosi dell’exploit cinese, si battono per l’onore d’Europa, auspicano che l’Italia divenga l’Hub continentale, per trattare e ridistribuire in ogni direzione il gas di molte provenienze. A furia di rigassificatori e gasdotti, potremmo perfino guidare il sorpasso della Cina, quanto a uso di gas, con tutte le preoccupazioni, i disagi (e i profitti) del caso.
L’Aie suggerisce però un piano di contenimento dei consumi energetici, anche se non sembra crederci troppo, almeno con riferimento all’Outlook che è quello che, come ormai sappiamo, passerà per le mani di tutti i decisori, industriali e politici. L’aumento della temperatura media e le sue attese conseguenze sono spesso richiamate nel testo, quasi come un male necessario, o almeno un costo inevitabile. Certo le rinnovabili sono assai meno insidiose dal punto di vista ambientale; nel giro di venti anni saranno anche una componente essenziale dell’offerta energetica. Di passaggio, nota l’Aie che “ i consumi fossili (carbone petrolio e gas, ndr.) rimangono dominanti nel mix energetico mondiale, supportati da sussidi che nel 2011 ammontano a 523 miliardi di dollari, in aumento di circa il 30% rispetto al 2010 e sei volte superiori agli incentivi erogati a favore delle fonti rinnovabili”. Ma non è tutto; l’esame dei sussidi prosegue: “I sussidi alle fonti fossili, che sono aumentati principalmente a causa del rialzo del prezzo del greggio, continuano a essere concentrati in Medio Oriente e in Nord Africa, dove la spinta verso una loro riforma sembra essersi esaurita”. Della serie: Primavera araba, caro petrolio, sussidi… Ma il testo prosegue: “Nello scenario nuove politiche il livello di emissioni atteso è coerente con un aumento della temperatura media mondiale nel lungo termine di 3,6°C”. L’Aie in ultima analisi suggerisce di infilare l’anidride carbonica in qualche buco della terra (“utilizzo diffuso della tecnologia di cattura e stoccaggio della CO2 (CCS)”.
Non è solo la temperatura a saltare. Tra gli aspetti che sono fatti emergere vi è anche l’indicazione di quanta acqua sia necessaria per produrre energia secondo le tendenze più probabili. Si parte da un utilizzo di 583 miliardi di m3 per il 2010 e il consumo potrebbe crescere dell’85%. Ma non finisce qui. Si aggiunge, evidentemente per tranquillizzarci, che il “fabbisogno di acqua per la produzione di energia è previsto crescere a un tasso doppio rispetto a quello della domanda di energia”.
Possiamo far finta di niente. Nella situazione disperata dell’Europa presa nella tenaglia finanziaria, ogni discorso che esuli dalla lamentazione principale può sembrare un diversivo. Qui è il muro e qui salta. Non puoi giragli intorno, sentiamo ripetere. Il fatto è però che senza badare all’acqua sprecata, ai ghiacci sciolti, al riscaldamento globale, all’inquinamento crescente, è come se si alzasse il muro con altre pietre, altri fili spinati, per poi dichiarare: è impossibile andare oltre. Invece lavorare per modificare il costo e la qualità dell’energia, con misure ragionevoli, rinnovabili, leggere, brevi potrebbe servire a migliorare i nostri conti, perfino quelli dell’economia, offrendo posti di lavoro di qualità nei programmi di mitigazione e adattamento. Un programma poco costoso rispetto ad altri, democratico e trasparente, facile da capire, prossimo ai beni comuni.