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Il coronavirus è uguale per tutti?

Senza fissa dimora, disoccupati, migranti, poveri sono i più colpiti dal Covid. Una collezione di storie romane, da Tor Bella Monaca alla Stazione Tiburtina, fotografa questa realtà. Restituendoci una certezza: contro la sopraffazione dei più forti servono nuove regole, di libertà e uguaglianza.

Il coronavirus è uguale per tutti. Quella che precede è un’affermazione di senso comune, un’idea corrente, direbbe Gustave Flaubert. Difficile dire che nella primavera appena trascorsa le cose siano davvero andate così: è una materia sulla quale sono ancora aperte le indagini. Si sa che la malattia ha, secondo statistica, colpito più gli uomini delle donne, più le persone anziane che non l’infanzia. Ha danneggiato più la Lombardia che il Mezzogiorno d’Italia. È sufficiente la mascherina obbligatoria per tutti o quasi per mettere tutti alla pari? O è il distanziamento, e i guanti (oppure l’amuchina per tutti, nell’intesa che ogni mano lava l’altra) per ristabilire la parità generale?

L’affermazione egualitaria riguarderebbe a ben vedere soltanto la bilancia tra ricchi e poveri. Come dire che la malattia, l’aria, il respiro, non fanno sconti a nessuno: prendono quello che trovano e lo portano via. Ricchi e poveri, per dirla altrimenti, sono uguali, nella baraonda del sabato sera. Siamo abbastanza sicuri che sia proprio così? Proponiamo di riflettere su alcune categorie di persone: gente priva di una fissa dimora, minori non accompagnati, altri privi di mezzi di sostentamento, cosiddetti “clandestini”; per tutti costoro il male nuovo ha fatto più danni che non alle “persone per bene”. 

Le persone per bene hanno isolato negli anni quelle a rischio in luoghi e quartieri separati, nei quali – era tutto previsto – sono cresciuti spaccio e malavita. Una grande capitale ha anche questi bisogni, o no? Nella Capitale tra i luoghi separati più conosciuti, anche per una serie di film iper neorealistici di sicuro successo internazionale, c’è Torbella, come la chiamano i giovani. Al locale Municipio (sesto) si parla piuttosto di Tor Bella Monaca. Il vanto locale sarebbe potuto essere il magnifico liceo Amaldi, dove tra gli altri ha studiato Lorenzo Fioramonti, professore all’università e ministro della scuola per una breve stagione, ma l’istituzione educativa per bene ha poco a che fare con le esigenze d’istruzione locali, nelle intenzioni ministeriali. Lo spazioso liceo sorgeva per esigenze di altri quartieri, vicini e comodi; e ricchi. 

Alcuni insegnanti, come Danilo Corradi e molti giovani (collettivo errezero) hanno inventato una scuola popolare, per le esigenze di Torbella. C’è perfino una scuola gratuita d’italiano per stranieri: don Milani docet. La fortezza Torbella, assediata da spaccio e malavita, ha un altro vanto: il maggior comprensorio nazionale di strutture abitative pubbliche; a Roma Ater. Nell’Ater più grande del mondo vivono migliaia di persone. Si è fatta un’indagine e l’hanno studiata due ricercatori, Francesca Cubeddu ed Enzo Puccini. Si tratta (2018) di 1.495 nuclei familiari che hanno in media entrate per 16.706 euro (qualcuno non ha niente da dichiarare); sono ben al di sotto della media del municipio, che essendo il più povero della capitale segna 28mila euro. All’Ater di Torbella sono poveri tra i poveri, nel municipio più scalcinato della città; ed essendo il 2019 si è in attesa di coronavirus.

Siamo a metà 2020 e ormai è più facile prevedere come finirà l’anno. La caduta nel reddito nazionale sarà del 10 per cento e forse maggiore, abbastanza in linea con la caduta negli altri Paesi, Cina esclusa. Un recupero record del 5 per cento del famoso Pil nel 2021 ci terrà in condizioni di debolezza. Sarà una decrescita infelice. Tutto considerato, sarà molto difficile vendere all’estero nostri beni e servizi, perché all’estero avranno problemi simili ai nostri e cercheranno di vendere anch’essi all’estero – a noi – il più possibile, comprando il minimo e s’istaurerà una competizione al ribasso nella quale i lavoratori perderanno tutti e comunque. 

In ogni Paese, la minore ricchezza presente quest’anno si distribuirà con modi non egualitari tra persone e tra famiglie, così come il recupero atteso nell’anno seguente. Qualcuno avrà modo di arricchire, molti di più perderanno terreno. Nel 2020 i lavori regolari saranno molti meno, sostenuti in parte da strumenti politici come la cassa integrazione, o l’esiguo reddito di cittadinanza o altri simili ancora, forse inventati a proposito, per dare sollievo alla popolazione. I lavori informali si moltiplicheranno: i cosiddetti lavoretti di piccola riparazione, la cura alle persone, l’assistenza agli anziani e ai bambini saranno ancora più precari del solito, imprevedibili; se possibile ancor meno tutelati di quanto non siano stati nel magico e indimenticabile anno 2019, l’ultimo anno ante Covid-19. 

Le famiglie faranno uso dei propri risparmi, almeno quelle che hanno la fortuna di avere da parte qualcosa. Ove possibile, in mancanza di meglio, si venderanno gli averi: case, mobilia, gioielli, per farne pane e cure essenziali, per mandare i figli all’università. Si chiederanno prestiti, ci si assoggetterà all’usura, si cederà ai ricatti. Quando si riterrà di essere sopraffatti da un prepotente si cercherà di difendersi in qualche modo, in caso di estrema necessità si cercherà un aiutino, ai margini della legge. Che legge, poi, ai tempi di Palamara… I banchieri, per ultimi: fermi, immobili. La gente di banca, quella superstite, era sempre convinta che il compito storico fosse quello di far sopravvivere l’Istituto, anche sacrificando i clienti e i correntisti. 

Sono, tutti insieme, i casi della nostra sorella Grecia che ci sembrarono assurdi e che ricordiamo così, riscoprendoli dieci anni dopo. Qualcuno, da noi, potrà attendere tempi migliori, qualcuno saprà entrare in un ciclo di compravendite e riuscirà a barcamenarsi. Chi invece ne profitterà, sapendo speculare, quello ne uscirà arricchito. Le persone senza legami familiari e senza risparmi perderanno di nuovo tutto, saranno affidate alla pubblica benevolenza, all’aiuto altrui, alla carità. Sarà fame per molti. Non sarà un momento favorevole per le amicizie, le relazioni affettive; molti del pubblico saranno travolti da un riflesso egoistico: “Cosa ne ricavo, io”?

La pandemia sta causando una trasformazione incalcolabile all’assetto planetario cui eravamo abituati da secoli. Quanto grande e profonda sarà è difficile stabilire in anticipo. Si può però immaginare che il ritorno ai giochi di prima, all’egoismo connaturato, alle scelte pratiche che tendere sempre all’interesse particulare, come si diceva in Toscana mezzo secolo fa, sarebbe inteso come una trionfale vittoria della civiltà e della nazione tutta. Meglio non provare a mettere in dubbio tale successo. Thomas Hobbes scuoterà la testa: “homo homini lupus, ve l’avevo pur detto”.

Finito il lockdown si ricomincia a discutere; torna in primo piano la politica. Alcuni avrebbero bisogno di un partito che non c’è più, sempre che ci sia stato negli anni che furono. Serve un partito che agisca in direzione dell’uguaglianza dei cittadini e della libertà possibile per tutti. Due condizioni che per secoli sono apparse difficilmente conciliabili, ma per secoli uomini e donne ci hanno provato, senza stancarsi mai. Se un partito così è impossibile, o forse è meglio dire difficile a breve termine, diamoci almeno un sindacato, capace di rappresentare, iscritti e non iscritti, lavoratori e senza lavoro, operai e lumpenproletari, nazionali e non: tutti e tutte. In un’acqua ferma nuotavano in gennaio solo le sardine: non partito, non sindacato, esprimono bene l’esigenza di libertà e uguaglianza. Nella loro prima uscita quando la pandemia ha sbloccato un po’ il Paese hanno proposto ancora lo ius soli, la scelta politica di libertà e di uguaglianza che potrebbe cambiare la nostra storia, in modo onorevole e saggio. 

Finito il lockdown ripartono gli sgomberi. La Città è ripresa dalla sua ansia di sorveglianza e divieti. C’è un caso minore ben conosciuto nella capitale: è il Baobab, sgomberato 25 volte. All’inizio ha sede in via Cupa, strettissima, di fronte al Verano, il cimitero. Un centro sociale dove convergono i senza casa, i senza cibo, i senza letto, i senza niente, per lo più venuti da fuori, in transito, come dicono sempre, parlando delle loro storie. Il portavoce più conosciuto di chi li aiuta si chiama Andrea Costa. “Siamo transitanti, assicurano, non vogliamo fermarci qui”. Al Baobab trovano qualcosa; pochissimo, ma ben di più di quanto sappia offrire la Capitale. Sgombrati dal Baobab di Via Cupa sono in strada, dalle parti della modernissima stazione Tiburtina, il vanto della incombente alta velocità romana. 

Secondo l’uso della città, la stazione non è una cosa soltanto; è anche il terminal dei pullman per ogni dove; e mantiene il ruolo antico, snodo e punto d’appoggio, per i treni di basso profilo che portano a casa o al lavoro migliaia di pendolari. C’è anche un intreccio di cavalcavia intorno alla megastazione che ogni tanto collassano. Alta velocità, treni di pendolari, pullman per ogni dove, stazione nuova ed elegante (dedicata a Camillo Benso conte di Cavour), quartiere un po’ fuori mano, una via consolare – la nobilissima Tiburtina Valeria – che verso sera è predisposta al gioco, vicino al Baobab: sembra un obiettivo inventato da un sociologo della modernità, studioso della città incontrollabile e aperta a ogni qualunquità. I transitanti sono cento-duecento persone in continuo movimento, a partire dal Piazzale Spadolini (tra Piazzale Spadolini, il Conte di Cavour e la consolare Tiburtina Valeria, questa città è un bel guazzabuglio di storie). “Dimenticati durante il lockdown, ora di nuovo scomodi e indecorosi. È sempre tempo di invisibilità”: Baobab Experience commenta così sul suo profilo Twitter lo sgombero in atto da parte di polizia di stato e polizia locale di Roma Capitale. 

Ma lasciamoli parlare di sgomberi e di altro:

(1) “È un corto circuito perfetto: l’Amministrazione che nega agli aventi diritto ogni possibilità concreta di accedere alle misure di accoglienza ordinaria o emergenziale è la stessa che promuove gli sgomberi”.

(2) “Rifugiati e titolari di protezione internazionale, esseri umani che DEVONO essere protetti ed accolti dallo Stato, migranti transitanti che hanno trovato i confini interregionali bloccati per l’emergenza Covid sono rimasti in strada, esposti al contagio e senza un luogo dignitoso in cui vivere: unico supporto quello di volontari e cittadinanza responsabile, a colmare il vuoto delle amministrazioni competenti. I problemi non sono tutti di transitanti. Ci sono anche concittadini”.

(3) “A Piazzale Spadolini ci sono ragazzi in cassa integrazione, persone che hanno perso il lavoro a causa del coronavirus, esseri umani che nonostante la PROPRIA legalità sul territorio non hanno incontrato altrettanta legalità da parte di nostrani datori di lavoro e sono impiegati, quindi, al nero, per pochi soldi. Ci sono persone che non si sono più potute permettere l’affitto di una stanza. C’è una moltitudine infinita di situazioni individuali, che lo Stato, a tutti i suoi livelli, ha scelto consapevolmente di lasciare indietro”.

Situazione disperata? Non proprio, non necessariamente. Ciascuno di noi conosce persone che credono nel bene comune e si danno da fare per raggiungerlo, perfino a Roma, al Piazzale Spadolini, a Torbella. Il bene comune è difficile: grandi economisti poco inclini all’ottimismo, come Garrett Hardin, hanno parlato di tragedia dei beni comuni. Erano altri tempi, più felici e più in buona salute dei nostri. Dobbiamo invece convincerci, parafrasando Margaret Thatcher, che anche per noi “non ci sono alternative”. Nessuno ci impedisce di sperare che in autunno ci sarà il vaccino e allora, tutti contenti, tireremo avanti come prima. Questa però è una speranza disperata. Dobbiamo immaginare un mondo diverso, con un Covid-19 latente, con il quale convivere a lungo. Per evitare la sopraffazione dei più forti, servono nuove regole, quelle della libertà e dell’uguaglianza. Come esse si debbano applicare alla vita politica e sociale di tuti i giorni, non lo sappiamo con precisione. Quelli di Torbella e quelli di Piazzale Spadolini ci aiuteranno a capire. 

Quanto a noi, qualche sospetto lo abbiamo.