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Il colonialismo italiano rimosso anche nelle città

Vie, piazze, ponti, lapidi, busti, palazzi a Roma e nel Lazio sono intitolati a personaggi e eventi del nostro passato coloniale. Soltanto nella capitale ne sono censiti 150. Due appelli di storici e intellettuali ora chiedono a sindaco e presidente della Regione di rimuoverli.

Basta alzare lo sguardo, nelle nostre città, per sprofondare in un passato coloniale che si fa fatica a riconoscere.

Vie, piazze, ponti, lapidi, busti, palazzi, tutti intitolati a personaggi – militari, politici, diplomatici, esploratori, religiosi, ingegneri, scrittori – e luoghi, apparentemente esotici, che richiamano l’Africa Orientale Italiana. 

Solo a Roma abbiamo classificato 150 odonimi, ma si tratta di un censimento provvisorio, destinato a crescere rapidamente.

Siamo circondati da tracce coloniali eppure di questi 70 anni di storia, che vanno dal 1869 al 1943, non conosciamo praticamente nulla: basta chiedere in giro per restare sconcertati. Sappiamo poco di Adua e Dogali, due sconfitte che hanno segnato la storia d’Italia e d’Africa, e praticamente nulla dell’occupazione e dei campi di concentramento libici, della repressione in Cirenaica dove abbiamo sperimentato l’uso dell’aviazione civile contro i civili in fuga, delle forche nelle piazze di Tripoli, delle leggi razziali, della violenza sistematica sulle donne africane, dell’occupazione e della repressione in Etiopia, dell’uso intensivo dei gas tossici, delle stragi di Addis Abeba, di Debre Libanos e di Caia Zeret, del saccheggio dei tesori sacri che mai abbiamo restituito, del campo di concentramento di Danane, in Somalia.

In Italia non ci ha neanche aiutato il cinema che, inspiegabilmente, ha faticato a trovare in quelle storie una fonte d’ispirazione.

Né ci ha aiutato la memoria musicale collettiva visto che nessuno sembra ricordare una canzoncina come “Topolino in Abissinia”, pubblicata nel 1935 da parte dello stesso autore di “Maramao perché sei morto”, per creare il consenso dei giovani attorno all’impresa coloniale, nella quale Topolino parla della borraccia nella quale custodisce mezzo litro di gas asfissiante. Bastava ricordarsi di Topolino e ci saremmo risparmiati dieci anni di inutili polemiche sull’uso dei gas tossici.

Non sappiamo nulla anche se gli storici, negli ultimi trent’anni, hanno regolarmente pubblicato centinaia di ricerche documentate su quell’esperienza tragica.

Siamo stati protagonisti di genocidi che, secondo Ian Campbell, hanno provocato 700.000 morti, un numero non ancora sufficiente a dismettere definitivamente il “mito del bravo italiano” che costruisce case e strade, salva donne e bambini, familiarizza con le popolazioni e ne civilizza i costumi.

Abbiamo esportato nelle terre d’Oltremare circa 1.100.000 persone, tra coloni e militari, ma giriamo ancora la testa dall’altra porte di fronte a diari e foto dal contenuto inequivocabile.

È proprio quel colonialismo omesso la ragione profonda del razzismo sistematico, a basso dosaggio ma pronto ad esplodere, e degli stereotipi sessisti e razzisti, che ancora pervadono la società italiana

È proprio per questo che abbiamo deciso di promuovere due lettere appello, rivolte al Sindaco di Roma, all’Assessore alla Cultura e al Presidente della Regione Lazio (pubblicate qui di seguito) per:

  • dare un nuovo significato, non omissivo, agli odonimi coloniali riportando nelle targhe una spiegazione che faccia riferimento agli episodi storici, in gran parte criminali, a cui l’intitolazione fa riferimento;
  • istituire, se necessario, un’odonomastica compensativa che celebri chi quel colonialismo ha combattuto e contribuito a svelare;
  • cambiare l’infelice nome assegnato dalla Regione Lazio al palazzo romano che custodisce l’enorme mappa dell’Africa Orientale Italiana, ovvero “We Gil”, letteralmente Noi Gioventù Italiana del Littorio: nell’anno del centenario della marcia su Roma darebbe un segno importante di sensibilità e consapevolezza da parte delle istituzioni circa la necessità di rielaborare l’eredità del fascismo risignificandone luoghi e simboli;
  • definire un programma di iniziative culturali, sia permanenti che a cadenza periodica (ad esempio il 19 febbraio, giorno in cui, nel 1937, ebbe inizio la strage di Addis Abeba), che coinvolga le comunità di afrodiscendenti, per impegnarsi in una profonda riflessione sul colonialismo italiano e sulle tracce che ha lasciato ovunque nelle nostre città.

Pubblichiamo i due appelli a cui si può aderire scrivendo a silvano.falocco@gmail.com

Silvano Falocco, autore, con Carlo Boumis, di “Roma Coloniale”, Le Commari edizioni.

On. Nicola Zingaretti

Egregio Presidente,

in questi mesi è in corso di ristrutturazione, pur mantenendo la sua attività espositiva, lo spazio culturale “We GIL”, riqualificato anni fa dall’Amministrazione Regionale fino a diventare un importante Hub culturale della città.

Come Lei ben sa, lo splendido palazzo di Luigi Moretti soffre di due gravi criticità. La prima è il nome, che si è deciso dovesse essere, letteralmente, Noi Gioventù Italiana del Littorio. Una scelta incomprensibile, impensabile nel resto d’Europa, e sintomatica della leggerezza con cui in Italia si trattano le eredità del totalitarismo.

La seconda criticità è la presenza, all’interno, di un’enorme mappa dell’Africa Orientale Italiana, sovrastata dalla scritta “Noi tireremo diritto”, che Mussolini pronunciò dal balcone di Piazza Venezia l’8 settembre 1935 in risposta alla posizione critica assunta dalla Società delle Nazioni contro la politica militare italiana in Etiopia che ne preannunciava l’occupazione.

Ai lati della mappa luoghi e date di battaglie in cui l’esercito italiano sterminò decine di migliaia di persone, tra cui civili, donne, anziani e bambini, per procedere all’occupazione dei territori d’oltremare e alla successiva feroce repressione della resistenza etiope.

Ogni giorno i visitatori dell’edificio passano davanti a quella mappa che, per colpa di un oblio collettivo, non è stata accompagnata da alcuna contestualizzazione o riflessione critica sul colonialismo italiano.

La ristrutturazione in corso ci sembra un’occasione da non perdere per impegnare la nostra Regione alla ricucitura di quelle ferite che quel nome, e quella mappa, ancora evocano.

Crediamo che la Regione Lazio debba impegnarsi fin da subito, innanzitutto perché sia modificato l’infelice nome “We Gil”. Nell’anno del centenario della marcia su Roma, darebbe un segno importante di sensibilità e consapevolezza da parte delle istituzioni circa la necessità di rielaborare l’eredità del fascismo risignificandone luoghi e simboli. Inoltre, è opportuno che l’edificio diventi, seguendo la sua attuale vocazione di promozione culturale, l’epicentro di una profonda riflessione sul colonialismo italiano, i suoi crimini, e le tracce che ha lasciato ovunque nella nostra città.

Crediamo che tale impegno possa concretizzarsi attraverso iniziative culturali sia permanenti (in particolare nei pressi della “mappa dell’impero”) sia a cadenza periodica (ad esempio il 19 febbraio, giorno in cui, nel 1937, ebbe inizio la strage di Addis Abeba), con il coinvolgimento delle comunità di afrodiscendenti storicamente presenti nel nostro territorio.

Promotori dell‘appello

Silvano Falocco, Carlo Boumis, autori di “Roma Coloniale“

Emanuele Ertola, Università di Pavia, Dipartimento di Studi Umanistici

Tezeta Abraham, attrice

Marco Gisotti, giornalista, autore Wikiradio Rai-Radio3

 

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Al Sindaco di Roma Capitale

On. Roberto Gualtieri

Egregio Sindaco,

la nostra città, ancora oggi, custodisce centinaia di tracce del feroce colonialismo italiano, celebrato attraverso piazze, vie, viali, larghi, ponti, lapidi, busti e palazzi la cui presenza muta permette di continuare a godere del senso di superiorità imperiale di cui sono intrisi.

Una vera e propria odonomastica coloniale che fa di Roma, con oltre 140 odonimi, il luogo d’Italia maggiormente connotato da quell’esperienza storica.

Come Lei ben sa, anche per il contributo essenziale delle seconde generazioni, è sorto ovunque, nel nostro paese, un movimento di “de-colonizzazione dello sguardo” che, nelle città, chiede di assegnare un significato nuovo, veritiero e più giusto, a quelle tracce, perché oggi é impossibile continuare a vedere statue, monumenti o vie intrise di storia coloniale in modo innocente, acritico.

Un primo intervento ha portato il Consiglio Comunale di Roma Capitale, il 4 agosto 2020, ad approvare una mozione per intitolare la fermata della metro C non all’Amba Aradam – luogo di una battaglia feroce che vide l’uccisione di migliaia di etiopi per mano dell’esercito e dell’aviazione italiana con l’uso di gas tossici – ma a Giorgio Marincola, partigiano nato in Somalia, legato al Partito d’Azione e ucciso in Val di Fiemme nel maggio del 1945.

Un intervento provvidenziale ma che deve essere solo l’inizio di un lungo percorso di ripensamento sulla nostra città.

Un primo passo potrebbe consistere nel riportare, nelle targhe che indicano nella loro interezza il nome della persona, del luogo, dell’evento a cui sono intitolate, una spiegazione – in caratteri più piccoli sul margine inferiore – che faccia però riferimento agli episodi storici, in gran parte criminali, a cui l’intitolazione fa riferimento.

Le proponiamo di iniziare con un gruppo di strade coloniali che sono state luogo di crimini particolarmente efferati come le deportazioni, le fucilazioni, le impiccagioni, l’uso dei gas tossici e le stragi di civili, come Addis Abeba, Amba Aradam, Ascianghi, Endertà, Tembien, o che commemorano la perdita di soldati, omettendo le motivazioni, legate all’occupazione coloniale, come Adua fino ad arrivare ai Cinquecento dell’omonima piazza.

Ulteriori iniziative dovranno seguire, coinvolgendo la cittadinanza e, particolarmente, le comunità di afrodiscendenti storicamente presenti nel nostro territorio,

Crediamo che Roma Capitale possa cogliere, dalla sovrabbondante presenza di questa odonomastica coloniale, l’occasione per impegnarsi in una profonda riflessione sul colonialismo italiano e sulle tracce che ha lasciato ovunque nella nostra città.

Promotori dell‘appello

Silvano Falocco, Carlo Boumis, autori di “Roma Coloniale“

Emanuele Ertola, Università di Pavia, Dipartimento di Studi Umanistici

Tezeta Abraham, attrice

Marco Gisotti, giornalista, autore Wikiradio Rai-Radio3