Il cancro uccide ogni anno 10 milioni di persone. L’incidenza è destinata ad aumentare clamorosamente. Possiamo vederlo come un indicatore di patogenesi della globalizzazione. I nuovi farmaci sono decisivi se inseriti in un sistema sanitario pubblico e universalistico, ma serve una nuova economia della cura.
Nella giornata internazionale della lotta al cancro, il 4 febbraio scorso, la Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM) ha organizzato un’importante giornata di riflessione rivolta alla stampa per dare conto delle tendenze globali e nazionali su questa patologia in costante aumento. Ci tengo a riprendere la questione perché considero cruciale che – in tempo di pandemia – siano ulteriormente diffusi e analizzati i dati di tendenza sul cancro, ben oltre la giornata mondiale e ben al di fuori della comunità medico-scientifica. Dati agghiaccianti: già oggi il cancro uccide, anno dopo anno, 10 milioni di persone, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). La incidenza e morbilità globale dovute al cancro sono tuttavia destinate ad aumentare clamorosamente nei prossimi venti anni, da 19,3 milioni di persone nel 2020 a 28,9 nel 2040 (fonti Oms/IARC), un dato confermato in buona sostanza anche dalla European Society for Medical Oncology. Per questo occorre partire da lì, dalla scienza, tanto retoricamente acclamata da un paio di anni a questa parte, ma sostanzialmente trascurata poi nei messaggi inequivocabili che trasmette alla politica. E la fotografia che viene dalle proiezioni Oms/Airc sulle stime di incremento dei tumori nel mondo tra il 2020 e il 2040 non lasciano scampo. Sempre di più, possiamo dire come ragionevolezza che le patologie del cancro hanno assunto i contorni di indicatore di patogenesi della globalizzazione.
AIOM ha opportunamente puntato lo sguardo sui determinanti globali delle patologie tumorali, con coraggio. Non è ormai più sufficiente, neppure per la comunità medico-scientifica, sentirsi appagati dei grandi progressi che la medicina ha conseguito, soprattutto negli ultimi decenni, nella lotta al cancro. Le terapie innovative più recenti hanno di fatto cambiato la dinamica della malattia e in molti casi la storia dei pazienti: sono fondamentali e nessuno le mette in discussione. Ma il focus prevalente e direi quasi esclusivo sulle pur decisive soluzioni biomediche risulta per alcuni aspetti fuorviante (uso questo aggettivo con consapevolezza di provocazione). Rischia di far perdere completamente di vista le cause distali di questa patologia, ormai diffusa nelle molteplici sue forme anche nei paesi del Sud del mondo, e di dirottare la comunità medica e mediatica solo sul trionfo delle soluzioni farmacologiche, ovvero sulla malattia invece che sulla sua prevenzione. Rischia inoltre di oscurare alcune considerazioni di contesto imprescindibili, quasi che le terapie funzionassero in isolamento.
La prima: la vera possibilità di efficacia delle terapie antitumorali poggia su un sistema di salute autenticamente pubblico e universalistico, ispirato alla presa in carico della persona in quanto titolare del diritto umano alle cure essenziali. Le terapie vecchie e nuove contro i tumori, tutt’altro che banali sotto il profilo finanziario per un sistema sanitario, sono un lusso abbastanza elitario nei paesi dotati di sistemi a vocazione privatistica, imperniati perlopiù su logiche assicurative di mercato, tali per cui l’accesso alla terapia dipende dal potere di acquisto del paziente, dalla gravità del tumore e financo dalla sua stessa età, fattori che determinano i criteri di copertura ovvero sistematiche forme di esclusione. La capacità finanziaria inficia così la stessa efficacia della terapia. E il mancato accesso per le fasce della popolazione meno abbienti, che non trovano copertura sanitaria ai servizi oncologici nella gran parte dei paesi del pianeta, trasforma per paradosso la cura in un fattore scatenante di disuguaglianza, sicché la scelta stessa della politica sanitaria di un paese può determinare l’incremento dei tumori, la loro mancata gestione, il crescente impatto in termini di mortalità.
Non parliamo poi dei paesi a basso reddito del Sud globale, dove il cancro svetterà con percentuali esorbitanti nei prossimi venti anni (+69,7% in Asia, +92,9 in Africa, +77,3% in America Latina), con una vera e propria transizione epidemiologica. Qui la seconda considerazione: mentre nei paesi ad alto reddito gli strumenti diagnostici più sensibili e le migliori terapie hanno drasticamente ridotto la mortalità, in molti paesi del Sud globale il cancro viene considerato una malattia dimenticata. Non esistono dispositivi di diagnosi e sistemi sanitari pubblici degni di questo nome, non esistono i farmaci per le terapie, se non per le minuscole élite locali che possono permettersi i trattamenti all’estero o nei centri privati in capitale. Il resto è una terra desolata: al punto che persino agenzie medico-umanitarie come Medici Senza Frontiere stanno ragionando se prendere in carico pazienti oncologici nei loro progetti di emergenza. Ma noi sappiamo che il cancro non è un’infezione, e non sta certo nell’intervento umanitario la soluzione del problema. Come dire che l’apartheid sanitario non riguarda solo i vaccini contro Covid-19; si tratta piuttosto di una profonda faglia di disuguaglianze che solca il mondo con traiettorie imprevedibili a volte.
Nel corso della 150° sessione del Comitato Esecutivo dell’Oms a fine gennaio due questioni sono emerse con una certa insistenza, incastonate nella prevalente discussione sull’emergenza pandemica e la necessità di affrontare le persistenti esternalità socio-sanitarie e disuguaglianze generate da Covid-19. La prima ha portato l’attenzione al consumo globale di alcol, cresciuto a dismisura negli ultimi due anni della pandemia, soprattutto tra le fasce giovanili, nei paesi dell’Est europeo e nel Sud del mondo (paesi asiatici – Cina, India e Vietnam – e Africa subsahariana). L’altro problema affiorato più volte nel dibattito fra gli stati membri ha riguardato l’obesità, anch’essa in drammatico incremento dopo due anni di pandemia (nel 2020, 39 milioni di bambini sotto i 5 anni erano obesi o sovrappeso), e fattore altamente significativo dello sviluppo di complicanze da Covid-19, e anche di decesso a causa del virus SARS-CoV-2, nelle sue varianti. Lo dice l’ultimo rapporto della World Obesity Federation del marzo 2021: dei 2,5 milioni di decessi da Covid-19 segnalati entro la fine di febbraio 2021, 2,2 milioni erano avvenuti in paesi dove più della metà della popolazione è classificata in sovrappeso o obesa. Obesità e alcolismo sono due condizioni che portano diritto al cancro. Secondo l’Oms, si contano sette tipologie di tumori correlate al consumo di alcolici (alla laringe, faringe ed esofago, al colon e fegato, al seno e alla cavità orale) e The Lancet Oncology del luglio 2021 dimostra come oltre 740.000 nuovi casi di tumori nel 2020 siano imputabili all’alcol. Quanto all’obesità, questa è la fotografia di correlazione a molteplici forme tumorali secondo il National Cancer Institute americano. Non c’è da stare molto tranquilli.
Bene, stiamo parlando di settori dell’economia assai poco regolamentati su scala globale, anzi del tutto privi di regolamentazione in gran parte del mondo, come evidenziato a più voci alla sessione dell’Oms. Tanto che più volte si è evocata la necessità di pensare ad una convenzione internazionale contro il consumo dell’alcol, per esempio, così come l’Oms ha fatto per regolamentare l’uso del tabacco venti anni fa.
Cito queste due sfide sanitarie, legate nello specifico al disagio sociale e psicologico della pandemia, come casi paradigmatici, su scala globale, dei determinanti industriali della salute. Così li hanno definiti alcuni importanti analisti di salute pubblica, anche se forse sarebbe meglio dire determinanti industriali della malattia. L’industria dell’alcol, una categoria industriale tra quelle definite sin stocks, legate al vizio come il gioco d’azzardo o il tabacco, costituiva nel 2020 un mercato dell’ordine di oltre 1,49 mila miliardi di dollari, con un incremento di 200 miliardi rispetto al 2019, stando a Statista Research Department. Si tratta di un settore particolare dell’industria alimentare che la fa da padrona in materia di contrasto alla regolamentazione ma nel contempo esercita una grande pressione sulle politiche nazionali, come ben sappiamo in Italia, e anche su quelle delle agenzie dell’Onu. La governance globale del cibo presenta molteplici criticità, come ha ampiamente documentato l’esperta Nora McKeon, ma questo non impedisce che la Fondazione Nestlé quest’anno sia persino riuscita a finanziare le attività dell’Oms in materia di nutrizione, in barba a ogni nozione di conflitto di interessi. In questo caos di poche regole sbrindellate, chi paga il prezzo più alto sono le persone più esposte, meno informate, oppure con meno potere d’acquisto – spesso il cibo ultra-processato costa meno di quello fresco, in molte parti del mondo, per le politiche commerciali opportunistiche delle aziende.
Molti altri settori dell’economia potrebbero essere menzionati, legati a doppio filo con la acquisizione e la trasformazione di vaste quantità di risorse primarie; quelli che convenzionalmente definiamo industrie estrattive: miniere, petrolio, gas, carbone. Potremmo ad esempio allargare lo sguardo all’industria estrattiva in America Latina o al cobalto e il coltan nella Repubblica Democratica del Congo. Potremmo considerare anche l’industria petrolifera in Africa a partire dalle pratiche cancerogene del flaring delle raffinerie nel Delta del Niger, che rilasciano fumi tossici e avvelenano l’aria, le acque, i raccolti, generando malattie e morti che non contano e che non vengono contate nelle statistiche mondiali citate sopra. Le attività fossili su cui è costruito il modello economico e finanziario della globalizzazione degli ultimi quattro decenni ha bisogno del resto di questa umanità di scarto, per usare le parole di Papa Francesco, in un processo di distruzione incardinato nel canovaccio della liberalizzazione dei mercati attraverso una sapiente, ben congegnata topografia della inaccessibilità. Alle attività estrattive conosciute si stanno aggiungendo negli ultimi anni altri filoni industriali come l’attività di estrazione delle sabbie e dei minerali, anche nei fondali marini, per sopperire alla progressiva riduzione e poi abbandono delle fonti fossili come il petrolio. Il cambiamento climatico dovuto a pratiche di deforestazione, ai fenomeni di antropizzazione e alla progressiva perdita della biodiversità che ne consegue, con il cambiamento dei cicli del fosforo e dell’azoto, sono anche queste condizioni che favoriscono numerose forme di cancro, come documenta The Lancet Oncology e recenti articoli di Nature, a causa dell’esposizione ai raggi ultravioletti, all’inquinamento atmosferico, alla distruzione delle forniture di acqua e cibo, ai parassiti cancerogeni (come l’aflatoxina, l’opisthorchis viverrini, o lo stesso plasmodium malariae). Si tratta di scenari che potrebbero mettere a repentaglio gli stessi sistemi sanitari pubblici che sono stati finora essenziali per la gestione del cancro nel mondo.
Nel terzo anno della pandemia, la feroce ma razionale pedagogia del virus ci chiede con insistenza: verso quale direzione di mondo vogliamo andare? Richard Horton, direttore di The Lancet, già nel 2020 evidenziava come la griglia interpretativa meramente sanitaria fosse insufficiente per analizzare Covid-19, e invitava la comunità scientifica a guardare l’emergenza attraverso la lente della sindemia, ovvero di una diagnosticata malattia di sistema che allarga ed espande lo spettro della patogenesi ben oltre le dinamiche infettive di SARS-CoV-2. Lo sguardo non può eludere allora le tendenze all’incremento della morbilità e mortalità da cancro, già in atto.
Ma non è la deregulation, la sola regola della globalizzazione, la vera metastasi? Il PIL del mondo sarà anche cresciuto a dismisura, ma il reale benessere economico è andato diminuendo dalla fine degli anni ’70 in poi, come dimostrano gli studi degli economisti ecologici, ed è andato diminuendo anche il benessere sanitario della popolazione mondiale. Già negli anni ’50 Federico Caffè metteva in guardia dagli alti costi di un sistema dell’economia concorrenziale e allora già mal regolato – e poi sempre più deregolato, dagli anni ‘80 in poi – avvertendo come “la politica economica dovesse mirare in primo luogo a promuovere la compatibilità umanità-natura, e a minimizzare, e non incrementare, la sofferenza umana”. Oggi invece la comunità internazionale si proietta in un futuro pandemico come se fosse un irrimediabile destino, e non un esito nefasto di una cattiva gestione del mondo cui è ancora possibile, e urgente come non mai, porre rimedio.
Intanto, gli attori economici detengono un potere che non si era mai visto prima nella storia, a cui con molta difficoltà si vogliono porre limiti. Lo conosciamo bene. Abbiamo visto negli anni passati il potere delle lobby del tabacco in azione, senza scrupoli, quando l’Oms ha portato avanti con rara determinazione il negoziato per dotare il mondo di un trattato per fermare il tabagismo senza freni, nel 2004. Oggi, vediamo come la stessa industria del tabacco stia puntando verso il Sud del mondo, dove gli standard normativi sono più fragili e meno monitorati, per eludere le regolamentazioni. E per evitare le regolamentazioni statali nel Nord del mondo, le lobby del tabacco, insieme a quelle del petrolio, finanziano in segreto gruppi di consumatori che difendono l’uso delle sigarette elettroniche, che comunque contengono la presenza di sostanze potenzialmente cancerogene, mentre tentano di ricostruirsi un’immagine finanziando la ricerca sui vaccini contro il Covid, come sta facendo la Philip Morris in Canada. Sappiamo come la lobby chimica stia facendo pressione sull’Europa e le società scientifiche per non bandire il glifosato, principio attivo dell’erbicida Roundup di Monsanto, i cui effetti cancerogeni sono ben noti alle popolazioni del Sud globale esposte alle monoculture di soia (in America Latina) e di biocombustibili (in Africa). Quest’anno la UE è chiamata a prendere una decisione definitiva, e la messa al bando di questo veleno registrato nel 2014 come antibiotico resta molto incerta.
Da sette anni, prosegue a Ginevra il percorso negoziale per un trattato volto a regolamentare le azioni delle transnazionali in materia di diritti umani, tra molti ostacoli e incertezze. Chi ha mostrato finora più reticenza diplomatica nei negoziati sono proprio quei paesi del pianeta in cui l’incidenza del cancro cresce di anno in anno, ostinatamente: Unione Europea, Stati Uniti, Cina, Russia, più orientati alla difesa degli interessi delle industrie multinazionali che alla salute dei cittadini. Covid-19 indica senza equivoci che questa rotta negoziale deve essere perseguita con lena, se il mondo vuole uscire dalla condizione pandemica in cui si trova, per sua propria responsabilità. E allora no, non possiamo più accontentarci dei successi terapeutici della scienza, come se il cancro fosse anch’esso un destino ineludibile. Le malattie oncologiche si devono prevenire, oltre che curare, e questo è un lavoro che spetta alla comunità medica e alla politica. Anche alla politica industriale. Non si tratta più solo di guardare trionfalmente il dito. Occorre, più che mai, guardare alla luna.