L’intervento integrale di Giulio Marcon pubblicato lo scorso 5 febbraio su iMec. Giornale metalmeccanico – il periodico di Fiom e Cgil nazionale.
Le politiche economiche di questi mesi vanno in una direzione sbagliata. Invece di politiche per il lavoro, abbiamo misure estemporanee e sgravi fiscali alle imprese che non creano lavoro stabile e con diritti. Invece di lotta alle disuguaglianze, abbiamo la flat tax che favorisce le classi più ricche. Invece di asili nido abbiamo bonus bebè. Invece di politiche industriali abbiamo la fallimentare bacchetta magica del mercato. Invece di sviluppo sostenibile, manchiamo i più importanti obiettivi di una riconversione ecologica dell’economia.
La legge di bilancio -il principale provvedimento economico per il 2019- è un’occasione mancata, un testo contradditorio. Tra luci e ombre si è persa un’occasione per cambiare pagina rispetto all’obiettivo di mettere i primi mattoni di un nuovo modello di sviluppo fondato sul lavoro, la lotta alle diseguaglianze, i diritti sociali.
I conti non tornano
E’ una legge dove tra l’altro i conti non tornano. Si prospetta una manovra correttiva nei prossimi mesi. Dopo appena quattro settimane dal varo della legge di bilancio, mancano all’appello già 5-6 miliardi di euro. I motivi sono diversi: i conti approssimativi e un po’ truccati, la revisione al ribasso delle stime della crescita, le difficoltà dell’economia mondiale. Non è da escludere, dunque, che già dopo il varo del prossimo DEF-Documento di Economia e Finanza (e dopo le elezioni europee) possa esserci l’annuncio di una correzione dei conti. Nel giro di un paio di mesi la stima (del governo) di crescita nel 2019 è passata da 1,5% all’ 1,0%. Banca d’Italia qualche giorno fa -suscitando le ire del governo- ha ridotto ulterioriormente le stime di crescita allo 0,6%. Stessa previsione ha fatto il Fondo Monetario Internazionale. Un paio di settimane fa il ministro dell’economia Tria ha detto: “siamo in una situazione di stagnazione” e ha aggiunto: “speriamo di non entrare in recessione”. Di fatto già lo siamo. Intanto registriamo pesanti battute d’arresto sui consumi e la produzione industriale. Non aiuta la situazione dell’economia mondiale, con la diminuizione dei tassi di crescita della Cina e con la guerra dei dazi. Non aiuta la situazione dell’Unione europea, priva di una politica economica e fiscale comune.
Il governo italiano – in una situazione in cui nemmeno le esportazioni vanno più tanto bene –
ci ha messo del suo facendo il contrario di quello che si sarebbe dovuto fare: ha ridotto gli investimenti pubblici, ha contenuto gli stanziamenti per l’innovazione e ha messo in atto provvedimenti regressivi di politica fiscale che aumentano le diseguaglianze. Aumentare il rapporto deficit-pil è sacrosanto se si fanno investimenti pubblici, se si sostiene la domanda interna, se si crea lavoro e si rafforza il welfare. Ma tutto questo nella legge di bilancio e nelle politiche di governo di questi mesi non c’è. Gli investimenti pubblici nella manovra del governo sono ridotti al minimo, drasticamente tagliati dopo l’accordo con la Commissione europea. E di interventi per il lavoro non c’è traccia. La previsione di riduzione del debito pubblico è -alla luce del modesto livello di avanzo primario e di crescita modesta- infondata. Prevedere 18 miliardi di entrate dalle privatizzazioni, quando i precedenti governi non hanno realizzato che una parte infinitesimale di quell’obiettivo è un inganno. Oltretutto questo significa svendere il patrimonio pubblico, fare operazioni sbagliate, senza peraltro poter utilizzare le risorse per gli investimenti. Infatti i proventi delle privatizzazioni sono vincolati alla riduzione del debito.
Crescono le diseguaglianze e la povertà
Nelle politiche di questo governo non ci sono interventi per la riduzione delle diseguaglianze, che nel nostro paese continuano ad aumentare. L’aumento dei poveri (quelli in condizioni di povertà assoluta sono passati in dieci anni da 2,5milioni a più di 5milioni) è strettamente correlato con l’aumento delle diseguaglianze che non sono solo date dalla disponibilità di reddito, ma anche dall’accesso ai servizi pubblici e alla casa, dalle divaricazioni nelle opportunità educative e formative, dalle disparità territoriali e di genere. Non sono solo poveri molti disoccupati, ma anche molti lavoratori il cui reddito è insufficiente a garantire uno standard di vita dignitoso. In questi anni i profitti hanno assorbito una quota crescente della ricchezza nazionale, mentre il lavoro l’ha vista progressivamente diminuire. La crescita delle diseguaglianze incide anche sul cattivo funzionamento dell’economia: si indeboliscono i consumi, cala la domanda interna, si incrina la coesione sociale.
Ricordiamo alcuni dati. La divaricazione tra il reddito disponibile equivalente ricevuto dal 20% della popolazione con più alto reddito e quello del 20% della popolazione con più basso reddito è aumentato dal 5,2 del 2007 al 6,3 del 2018. Alcune regioni registrano in questi anni una forte crescita delle disuguaglianze di reddito: Sicilia, Calabria, Campania, Sardegna, ma anche Lazio, Liguria, Lombardia.
Riguardo alla ricchezza privata la quota di ricchezza netta personale detenuta dall’1% più ricco della popolazione è cresciuta da circa il 16% del 1995 a oltre il 25% nel 2014. Nello stesso periodo, la concentrazione di ricchezza delle 5.000 persone più ricche del Paese è aumentata dal 2% a circa il 10%. Una quota oggi doppia di quella posseduta dalla metà della popolazione più povera.
Redistribuire la ricchezza, cancellare i privilegi
Di fronte a diseguaglianze così estese mancano politiche efficaci: tra queste l’estensione e il rafforzamento degli interventi specifici di sostegno al reddito per lo sradicamento della povertà assoluta (vedremo come sarà realizzato il reddito di cittadinanza); un sistema fiscale improntato a una vera progressività; una politica dei redditi capace di far crescere i salari; l’estensione universalistica e pubblica dei sistemi di welfare; interventi mirati allo sradicamento delle condizioni di privilegio più inaccettabili. Servirebbe una politica fiscale capace di aggredire le grandi ricchezze (come una tassa patrimonile), la speculazione finanziaria (con la Tobin tax), il business “esentasse” delle multinazionali del web. Ma poco o niente si vede all’orizzonte.
Così, nei provvedimenti del governo di questi mesi non ci sono politiche di redistribuzione della ricchezza e non ci sono politiche universalistiche di welfare capaci di produrre una redistribuzione indiretta del reddito. Con il decreto fiscale legato alla legge di bilancio viene introdotta la flat tax (15% sotto i 65mila euro dal 2019 e 20% sotto i 100mila dal 2020) che rappresenta una grave distorsione del pricipio della progressività fiscale, così come voluta dall’art. 53 della Costituzione. Questa non è una norma a favore dei tanti precari che sono costretti ad aprirsi una partita IVA per lavorare, spesso con redditi bassi, oppure di piccoli artigiani, ma un vantaggio ai settori medio-alti delle libere professioni. Vengono ridotte le tasse ai liberi professionisti e agli operai e ai pensionati. La pressione fiscale, anche se di poco, aumenta nel 2019. Aumentano le diseguaglianze di genere (le donne guadagnano in media meno degli uomini) e quelle tra Nord e Sud. Questo governo continua a non toccare piccoli e grandi privilegi, a difendere gli interessi di piccole grandi corporazioni, ad affidarsi al mercato. Più che a concentrarsi nella lotta alle diseguaglianze, il governo sembra preoccupato di distribuire qualche “pannicello caldo” elettoralistico, lasciando intatto il meccanismo economico e sociale che produce diseguaglianze e povertà. Come diceva più di un secolo fa R. H. Tawney, un socialista fabiano e riformista: “Quello che i ricchi chiamano il problema della povertà, per i poveri è il problema della ricchezza”. Ma questo governo il della divaricazione tra l’eccesso di ricchezza in mano di pochi e la grande povertà di molti non lo vede, o non vuole vederlo.
Serve giustizia fiscale
Bisogna coniugare la lotta all’evasione fiscale (ancora enorme nel nostro paese) con la giustizia fiscale. E’ stata introdotta una prima forma di flat tax nella legge di bilancio, ma il problema è che l’appiattimento fiscale è un processo che va avanti da decenni. Il principio della progressività fiscale si è perso ormai quasi del tutto. L’aliquota massima sui redditi più alti era del 72% nel 1974, del 62% nel 1988 ed è oggi del 43% per chi guadagna più di 75mila euro l’anno. E’ un fenomeno che riguarda molti paesi, non solo l’Italia. Le tasse di successione per i ricchi sono di fatto abolite e rimangono solo sugli straricchi: in Italia la franchigia è di 1 milione a erede. In sostanza in una famglia con un coniuge e due figli, la franchigia è di 3 milioni di euro. Sotto questa cifra non si paga niente. Inaccettabile. Per questo la campagna Sbilanciamoci! ha proposto di innalzare l’aliquota al 60% per i redditi sopra i 100mila euro e di abbassare la franchigia per le successioni a 500mila euro, indipendentemente dal numero degli eredi.
Serve una politica del cambiamento, ma quello vero. Sbilanciamoci! ritiene necessario cambiare pagina, un salto di paradigma, un’inversione di rotta rispetto alle politiche neoliberiste di questi anni. Bisogna rimettere al centro la politica, le politiche. Servono investimenti pubblici per consumi e produzioni legate alla green economy e ai nuovi bisogni sociali capaci di produrre qualità sociale ed eguaglianza. Per questo sono fondamentali politiche redistributive che intacchino privilegi, rendite di posizione, ricchezze abnormi. Il welfare non è un costo, è un diritto ed è un investimento. Una società più istruita, formata e sana esprime anche un’economia più innovativa e capace di futuro. Abbiamo bisogno di una radicale riconversione ecologica e civile dell’economia. Dobbiamo eliminare i sussidi ambientali dannosi (che ammontano a ben 19 miliardi di euro) e ridurre drasticamente le spese militari di almeno il 20%. Bisogna pretendere lo stop immediato della produzione dei cacciabomardieri F35. Tutto questo non è il “libro dei sogni”: è possibile, come ha dimostrato la campagna Sbilanciamoci nel Rapporto 2019. Si può fare: questa è la strada del vero cambiamento.