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Il 25 luglio, Giorgia Meloni e l’opportunismo del potere

A ottant’anni dalla caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, il governo di Giorgia Meloni – incapace di rileggere la storia – presenta un tratto comune con le vicende di allora: un opportunismo che sbaglia i calcoli, a cui si aggiunge la sottomissione agli Stati Uniti.

Si compie l’ottantesimo anniversario della caduta del fascismo, sanzionato dall’approvazione, a maggioranza, dell’ordine del giorno del Gran Consiglio che rimosse Benito Mussolini dal comando delle forze armate e, di conseguenza dalla guida dell’Italia. Il primo firmatario, Dino Grandi, avrebbe voluto un immediato rovesciamento delle alleanze, con relativa dichiarazione di guerra alla Germania e il blocco del Brennero, prima che le tre divisioni della Wehrmacht, allora presenti sul suolo italiano, fossero raggiunte da prevedibili rinforzi. Fu il sovrano, Vittorio Emanuele III, a sostituire Mussolini con Pietro Badoglio e a compromettere ogni ipotesi di cobelligeranza con i futuri vincitori.

I fascisti non servi dell’alleato tedesco avrebbero potuto, e potrebbero tuttora, rivendicare la caduta del regime come un atto democratico maturato all’interno del regime stesso. Dubito che lo facciano in questa circostanza. Né, per fare un’altro esempio, hanno mai rivendicato una relativa opposizione al regime mafioso della Sicilia – un nome per tutti quello del prefetto Cesare Mori – che, in un’epoca successiva, portò gli Alleati a concordare una collaborazione mafiosa prima dello sbarco in Sicilia.

In occasione delle elezioni presidenziali del 1992, 47 parlamentari del Movimento Sociale Italiano arrivarono a votare per Paolo Borsellino, mentre Giorgia Meloni, nel commemorarlo ora, si deve sottrarre a suo fratello Salvatore e a chi altro la interroghi sui suoi progetti di legge che contrastano quel limpido impegno contro la mafia.

E cosa resta dell’opposizione di Alleanza Nazionale alla ratifica del trattato di Maastricht perché avrebbe costituito un’Europa dei banchieri e non, come allora auspicato anche da Rifondazione comunista, un’Europa unita finalmente politica, cioè tale da sottrarre l’Italia alla sua ormai storica subalternità nei confronti del maggiore alleato degli Stati Uniti? Anche se sfuggiva loro che anche soltanto la costituzione di una moneta unica europea è stata sufficiente per suscitare l’opposizione di Washington.

Perché la presidente del consiglio non rivendica alcun aspetto di questo pur controverso patrimonio storico, qui sommariamente accennato? Sarebbe troppo facile rispondere indicando le sue ascendenze e preferenze politiche per il fascismo di Salò, fedele alla Germania nazista.

Vi è di più, molto di più. Un filo nero collega Benito Mussolini, Pietro Badoglio e persino Giorgia Meloni (nel suo caso, la tragedia tende a riproporsi come farsa). Quello di un opportunismo infondato, mal calcolato, che porta all’umiliazione della sovranità italiana, oltre che a sanguinosi sacrifici. I loro orientamenti e le loro decisioni determinanti furono e sono in larga parte sollecitate da una comprensione errata della politica estera degli Stati Uniti.

Quando il 10 giugno 1940 Mussolini annunciò la partecipazione dell’Italia alla Seconda guerra mondiale al seguito della Germania di Hitler, egli accompagnò la sua decisione esprimendo la convinzione che la guerra sarebbe durata pochi mesi e che gli servivano “alcune migliaia di morti” per sedersi al tavolo delle trattative di pace. Non aveva compreso che gli Stati Uniti, allora dichiaratamente isolazionisti, per bocca di Roosevelt in piena campagna elettorale, non avrebbero tollerato un’Europa sotto il tallone di Hitler; che sarebbero entrati in guerra e che, per il loro peso industriale e militare, ne avrebbero determinato l’esito, esattamente com’era avvenuto nella Prima guerra mondiale. Mussolini non si era mai recato negli Stati Uniti, dove pure sarebbe stato bene accolto negli anni precedenti. Egli aveva perso i contatti con Margherita Sarfatti, l’unica fascista in grado di ragguagliarlo, né poteva più contare su diplomatici impegnati a compiacerlo più che ad informarlo.

Analoga sorte toccò a Pietro Badoglio, duca di Addis Abeba, comandante militare dell’Italia fascista; successivamente beneficiario della sua caduta, grazie alla nomina a capo del nuovo governo da parte di Vittorio Emanuele III. Protagonista del monumentale opportunismo pro domo sua de “la guerra continua” e dell’8 settembre che privò l’Italia dei vantaggi della cobelligeranza, Badoglio antepose gli interessi propri e della ristretta classe dirigente monarchica e – in ciò simile al suo predecessore Mussolini – non capì neanche i rapporti di forza che si stavano configurando tra i vincitori del conflitto, privilegiando le relazioni con il Regno Unito e la pur lontana Unione Sovietica, primi paesi a riconoscere il suo governo. Quando gli Stati Uniti sostituirono il Regno Unito come forza egemone nel Mediterraneo, l’opera di Badoglio era ormai compiuta e De Gasperi, pur con tanto di Resistenza alle spalle, fu costretto a presentarsi alla Conferenza della Pace come rappresentante di un paese sconfitto.

Giorgia Meloni è l’erede – bisogna ammetterlo – di una lunga storia di sottomissione dell’Italia, anche repubblicana, agli Stati Uniti, alla NATO, a cui viene graziosamente ammessa, e ad una sorta di doppio stato (cfr. ad esempio Franco de Felice e gli ultimi scritti di Norberto Bobbio) che manipola con mezzi anche violenti gli equilibri di politica interna italiana a piacimento del nostro maggiore alleato. La velenosa battuta di Gianni Baget Bozzo – l’Italia Bulgaria della NATO – salvo la politica petrolifera di Enrico Mattei, trova un solo principale antidoto: il patto di Roma e l’inizio della costruzione dell’unità europea. Cosa fa la povera Meloni, più che di Mussolini, erede del Badoglio più odiato da ogni fascista della sua tradizione? Ricattata dalla sua appartenenza passata e presente, batte ogni primato di servilismo italiano, pur ricco di contendenti di rilievo – con la principale eccezione di Aldo Moro, non a caso dal destino segnato – nei confronti dell’impero statunitense di cui non coglie i sintomi del declino di un paese all’affannosa ricerca di un nemico tale da giustificare il suo residuo primato militare. Mentre obbedisce a Washington, Meloni sfoga il suo pseudo nazionalismo contro l’Europa, unica appartenenza che consente un recupero di sovranità previsto dall’art. XI della Costituzione, oltre che dai profeti disarmati di Ventotene.