Diabolico perseverare/Secondo Draghi le stime della disoccupazione strutturale sono circondate da considerevole incertezza e la sua dimensione è sovrastimata
L’Ocse nel rapporto annuale Employment Outlook 2014 stima un aumento della «disoccupazione strutturale» con rischi di inflazione perché non verrà riassorbita con il ritorno alla crescita. Già la Commissione Europea allertava i paesi periferici europei, tra cui Spagna e Italia. Ma è un giustificato allarme? Tale aumento ha effetti di non poco conto sugli obiettivi di medio termine per consolidamento fiscale e rispetto del Fiscal Compact: Il gap tra disoccupazione strutturale e ciclica si riduce e quindi si restringono i margini per la politica economica keynesiana, per la domanda pubblica e quindi per politiche di struttura sull’apparato industriale. Si azzerano strumenti fiscali e rimangono sul tavolo solo ricette volte a meno tasse e più tagli alla spesa ed al welfare, per soddisfare i vincoli di bilancio, e riforme strutturali del mercato del lavoro per più flessibilità. La politica economica si risolve tutta qui: flessibilità del lavoro.
Sono però tempi di ripensamenti anche nelle istituzioni. Dopo l’autocritica del Fmi sui moltiplicatori fiscali, ora si affacciano anche cautele e dubbi della Bce: quanto sono affidabili le stime sulla disoccupazione strutturale? Il Governatore Draghi al Jackson Hole Symposium ha dichiarato che le stime della disoccupazione strutturale sono circondate da considerevole incertezza, che la sua dimensione è sovrastimata, che occorrerebbe essere molto più cauti nel distinguere la disoccupazione strutturale da quella ciclica. D’altra parte, se la disoccupazione strutturale fosse aumentata così tanto da ridurre il gap con la disoccupazione effettiva, perché non vi sono pressioni verso l’alto sui salari e sui prezzi, anzi siamo in deflazione?
Non vi è dubbio che Draghi abbia qui segnato una discontinuità con il refrain sulle riforme strutturali, affermando che l’Eurozona soffre di un problema serio dal lato della domanda effettiva e che interventi di sostegno pubblico su scala europea sono oggi imprescindibili. Rimane però ambiguo su quali interventi dal lato della domanda, mentre è esplicito su quelli sull’offerta. In politica monetaria dichiara di impegnarsi (ma lo aveva già detto) per contrastare i rischi della deflazione (purtroppo la deflazione c’è già e la Bce avrebbe dovuto anticiparne l’avvento), inducendo anche l’importazione dell’inflazione mediante il ribasso del valore dell’Euro, che aiuterebbe pure le esportazioni. In politica fiscale richiama la necessità del coordinamento europeo sempre nel rispetto delle regole di bilancio, quelle regole che sono causa del progredire della crisi. Si esprime a favore di un (ri)lancio di un piano europeo di investimenti pubblici, ma lamenta che il budget europeo è irrisorio ed afferma che comunque le politiche fiscali non possono transigere dal pareggio di bilancio pubblico, per cui meno tasse compensate da meno spese, anche se sa bene che questo ha effetti recessivi. Nonostante i ripensamenti, la Draghinomics con l’enfasi sulla domanda non oscura affatto la dominanza dell’offerta; anzi sia la modalità di intervento sulla domanda, sia il rimarcare la irrinunciabilità delle riforme strutturali dimostrano quanto le azioni suggerite rimangano lontane dallo spirito keynesiano.
Ma ancora, il leit motive sulle riforme strutturali è sempre centrato sul mercato del lavoro. Le retribuzioni nominali devono riflettere in tutto le condizioni di mercato, al livello più decentrato possibile, l’impresa. Nessuno spazio è assegnato alla sfera distributiva fuori dall’azienda, e di politiche re-distributive non vi è traccia. La contrattazione ha ragion d’essere solo se pone in relazione salari, produttività e condizioni dei mercati del lavoro, con le necessarie differenziazioni salariali tra lavoratori e tra settori. La flessibilità del lavoro, negli ingressi e nelle uscite, assicurano quella mobilità dei fattori che le condizioni di domanda e di offerta richiedono. L’idea del mercato del lavoro come istituzione sociale, in cui il lavoro non è una qualsiasi merce, al pari delle patate, da scambiarsi in base ad offerta e domanda, con un salario che risponde a norme sociali ed è superiore a quello di equilibrio di mercato, non è quella del Governatore.
Il comportamento della Bce che non contrasta adeguatamente deflazione e depressione non sembra essere attribuibile semplicemente ad errori previsivi, oppure a suoi vincoli statutari, od ancora al monitoraggio attivo esercitato dalla Germania sull’operato della banca centrale, se non anche a minacce tedesche – di dubbia credibilità – di abbandonare l’euro. Una ulteriore spiegazione è forse la condivisione di una visione della politica economica e dell’intervento pubblico derivante dagli schemi teorici fondanti il liberismo.
Quindi nulla di nuovo sotto il sole? No, tutt’altro; molto di nuovo. Una ulteriore tappa nella rimessione dei peccati, del “mea culpa” da parte delle istituzioni che sono complici della depressione e che l’hanno governata finanche alimentata. Si giungerà ad un cambiamento di rotta nelle politiche economiche? Si dovrà dare ragione a Keynes quando affermava che la forza degli «interessi costituiti» è esagerata rispetto alla «progressiva estensione delle idee» oppure ha ragione Krugman quando afferma che «quando i miti economici persistono, di solito la spiegazione risiede nella politica, ed in particolare negli interessi di classe»?
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