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Giorgio Nebbia e la critica ecologica al capitalismo

Giorgio Nebbia è stato un pilastro dell’ambientalismo italiano: scienziato, docente, politico, attivista, saggista, divulgatore. Un libro di Jaca Book, che raccoglie anche alcuni suoi scritti, ne ripercorre vita e pensiero. Facendoci riscoprire l’attualità e l’urgenza di una critica ecologica al capitalismo.

Giorgio Nebbia ci ha lasciato un anno fa, il 4 luglio del 2019. Chi ha qualche anno di età, ricorderà come Nebbia sia stato una figura fondamentale dell’ambientalismo non solo italiano ma internazionale. Intellettuale – docente universitario di Merceologia a Bologna e poi a Bari e culturalmente nell’intersezione di cristianesimo e marxismo; politico (senatore e deputato per la Sinistra indipendente); attivista e impegnato nella nascita e poi nello sviluppo e sostegno dell’ambientalismo italiano. Ma soprattutto, Nebbia è stato saggista e divulgatore: pacato nel suo ragionare e chiarissimo nel suo stile di scrittura, ma potente nel suo smascherare i falsi miti e le retoriche di un capitalismo in realtà irresponsabile verso il futuro e le prossime generazioni, insostenibile e nichilista per l’ambiente ma anche per la società, disuguagliante per essenza e tendenza. Ai più giovani invece – e pensiamo soprattutto ai tanti dei FfF che hanno riportato d’attualità il tema, quasi dimenticato, dell’ambiente e della crisi climatica – il suo nome forse dice poco, ma allora questa è l’occasione per scoprirlo (e per riscoprirlo, chi è meno giovane).

È infatti da poco uscito il saggio: La Terra brucia. Per una critica ecologica al capitalismo, edito da Jaca Book nella Collana Dissidenze, curata da Lelio Demichelis. E Nebbia è stato sicuramente un dissidente rispetto al sistema capitalistico e un dissidente nel suo costruire un pensiero diverso e radicaleradicale nel senso di andare alla radice, cioè alla ricerca delle cause dei problemi (il capitalismo), senza limitarsi a un mero problem solving ex post.

Un testo di e su Nebbia: che raccoglie molti dei suoi interventi scritti nel corso degli anni, alcuni inediti, come è inedito il Carteggio con Dario Paccino, un altro ambientalista oggi dimenticato; con una Introduzione di Pier Paolo Poggio e Marino Ruzzenenti della Fondazione Micheletti di Brescia, dove Nebbia aveva depositato il suo archivio; e con una Biografia di Luigi Piccioni, dell’Università della Calabria (che ha curato anche il Carteggio) e che ripercorre le tappe di una vita davvero intensa. Un testo – come scritto nella quarta di copertina – “di grande attualità anche con la pandemia da coronavirus, per non dimenticare che, ben più grave della pandemia, è proprio il cambiamento climatico”. Ma di attualità anche perché Nebbia – come scrivono Poggio e Ruzzenenti – “propugnava una regolazione politica dell’economia, sulla base di due presupposti (…): a) la cogenza dei limiti ecologici (…), b) una consapevolezza diffusa della crisi ambientale”.

Per gentile concessione dell’Editore Jaca Book, pubblichiamo qui di seguito alcuni stralci dell’intervento di Nebbia al Congresso del 1983 del Pci (Nebbia fu vicino al Pci, ma mai iscritto). Per ricordare anche quante occasioni ha sprecato la sinistra (ma non solo) in questi quarant’anni, preferendo adattarsi al neoliberalismo e inchinarsi alla Silicon Valley, rimuovendo la questione ambientale (e quella sociale) dal suo orizzonte.

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“(…) La battaglia ecologica è una battaglia contro le distorsioni del processo naturale e corretto dell’uso delle risorse naturali al fine di trarne i beni necessari a soddisfare i bisogni umani.

La violenza all’ambiente e al territorio deriva dalle scelte sbagliate che vengono fatte nelle materie prime, nei processi produttivi, nella qualità dei manufatti, nell’uso del territorio. Errori non occasionali – si badi bene – ma motivati dalle regole della società capitalistica che impone di estrarre sempre di più risorse, di sfruttare sempre di più la natura, di sbarazzarsi dei rifiuti al minimo costo possibile. Una società che misura tutto solo in unità monetarie e nei cui calcoli non entrano i beni che non hanno prezzo: la salute, l’aria e l’acqua pulita, la bellezza. (…)

È contro le regole e contro il modo di agire dell’attuale società capitalistica, anzi paleocapitalistica italiana, che protesta il movimento ecologico. Un movimento dalle mille facce, con aspetti talvolta anarcoidi, con varie contraddizioni. Ma con una grande carica di speranza, di progetto, di aspirazione all’innovazione e al cambiamento. Soprattutto in questi ultimi anni il movimento ecologico è passato dalla denuncia e dalla protesta, all’analisi delle forme della violenza contro la natura e delle sue cause. Tutti i fenomeni materiali, naturali e produttivi, funzionano secondo leggi comuni. Le materie prime vengono trasformate – mediante il lavoro umano, mediante l’ingegno, mediante il progetto – in merci, in macchine, in manufatti, in cose utili. Durante la produzione e dopo l’uso le cose non scompaiono; ritornano alla natura con effetti inquinanti ogni volta che i materiali sbagliati vengono messi nel posto sbagliato. Alla rottura di questo ciclo – che la società capitalistica rompe con le sue leggi, che sono in contrasto con le leggi della materia e dell’ambiente, con le leggi della natura – alla rottura di questo ciclo risalgono tutti i problemi ecologici.

Violenza viene esercitata con l’inquinamento da parte della produzione agricola e industriale, un inquinamento che arreca danni ai cicli naturali perché le regole di questa società impongono di spendere il meno possibile nella depurazione, per rendere massimi i profitti. Violenza viene esercitata verso i Paesi del Terzo Mondo quando li sfruttiamo acquistando le loro materie prime a prezzo basso. Violenza viene esercitata nelle fasi di uso, o di consumo, delle merci, senza curarsi di dove i rifiuti vanno a finire, se possono essere riciclati o riutilizzati e trasformati, con nuovo lavoro umano, in materiali nuovi, risparmiando energia, inquinando di meno. (…)

Così il movimento si è accorto che le leggi con cui sono prodotte e commerciate le merci sono scritte dal governo per compiacere i grandi interessi economici dell’industria, dell’agricoltura, della distribuzione; e che in questo processo i consumatori, i lavoratori in quanto acquirenti e utenti di merci non contano niente, grazie anche all’inesistenza di fatto di un movimento di contestazione in cui i consumatori siano attivi. (…) Ma insieme all’analisi delle forme e delle cause della violenza contro la natura, e pertanto contro l’uomo, violenza pagata più cara dalle classi più deboli anche quando queste stesse classi non lo sanno, il movimento ecologico ha elaborato una serie di proposte, indica un progetto di cambiamento, un suo progetto Ambiente 2000; e comincia col mettere in discussione un tipo di industrialismo basato soltanto sulla crescita della quantità di merci prodotte senza chiedersi a che cosa e per chi servano, senza chiedersi quali effetti tali merci hanno sul territorio. Un modello di industrialismo da cui si lascia tentare ancora una parte della sinistra italiana.

Il compagno Berlinguer su Rinascita, un paio d’anni fa, scriveva che è tempo di chiedersi che cosa occorre produrre e come e dove nel territorio. Ebbene, il movimento ecologista propone proprio un progetto di cambiamento che parte da fatti concreti, materiali, naturali, e prevede una diversa progettazione delle città e dei trasporti, reali cambiamenti nella produzione e nel consumo dell’energia, la valorizzazione dei beni culturali (testimonianze delle radici della nostra storia e attrattive per il turismo), la lotta contro il diboscamento, le frane e le alluvioni. Il progetto verde chiede nuove leggi, dall’urbanistica ai consumi, dal recupero delle zone interne alla difesa del verde e della fauna, dalla lotta contro l’inquinamento alla sicurezza nella fabbrica, all’uso delle sostanze pericolose. Propone l’elaborazione di una nuova cultura della città, liberata dalla morsa del traffico privato, di un’integrazione nel territorio delle abitazioni, delle fabbriche, dei servizi, delle attività agricole, in modo che sia ricostruito il ricambio organico di cui parla Carlo Marx come premessa per condizioni umane di vita e di lavoro.

(…) Anche il movimento ecologico italiano chiede un’alternativa: essa, come proponeva nella sua breve primavera il Progetto a medio termine del Partito comunista italiano, è il nucleo centrale della proposta di una politica cosiddetta di austerità, avanzata dal compagno Berlinguer. Questo progetto deve permettere uno sviluppo economico che, per forza, deve esser diverso dall’attuale, in grado di soddisfare i bisogni umani tenendo conto del valore, che è economico in quanto umano, della salvaguardia dell’ambiente, dell’uso parsimonioso ed efficiente delle risorse naturali del nostro Paese e dell’intero pianeta.

A questa alternativa verso una società (…) neotecnica capace di soddisfare i bisogni umani e di dominare e difendere i propri beni ambientali e culturali in quanto beni collettivi contro la speculazione e il profitto delle classi privilegiate si oppongono – e si capisce – gli interessi economici che verrebbero investiti e travolti da un cambiamento. Da qui la ridicolizzazione del movimento ecologico, l’accusa di essere contro il progresso. E invece, un cambiamento nella programmazione e nel controllo della produzione e del consumo, nell’uso della natura e delle sue risorse, è indispensabile proprio per il progresso civile e democratico del Paese, per ridare fiducia tanto ai lavoratori quanto ai giovani, per colpire la corruzione e la mafia, figlie e madri della speculazione edilizia e delle scelte produttive e clientelari sbagliate e la violenza e la droga, figlie e madri della delusione giovanile e del vuoto di speranza.

È questa alternativa che, pur confusamente, chiede il movimento ecologico, il movimento verde. Non è simile a quella che cercano i comunisti italiani?”

Giorgio Nebbia, La Terra brucia. Per una critica ecologica al capitalismo, Jaca Book (Collana Dissidenze), Milano 2020, pp. 176.