L’individualizzazione pseudo-imprenditoriale e le retoriche dell’autonomia e della flessibilità sono parte essenziale e insieme premessa della frantumazione e dell’impoverimento del lavoro di questi decenni
Per parlare di lavoro, di rete, di capitalismo delle piattaforme, di sharing economy, di Uber e di Foodora partiamo – eccentricamente – da quella meravigliosa commedia noir che è stata Arsenico e vecchi merletti, di Frank Capra, film uscito nel 1944. La storia, per chi l’avesse dimenticata, narra di uno scrittore, Mortimer Brewster che torna alla casa dalle vecchie zie, Abby e Martha per annunciare loro il suo matrimonio con Elaine Harper. Qui però scopre, poco a poco, che le sue due zie in realtà aiutano coloro ai quali affittano le camere a lasciare la terra con il sorriso sulle labbra, offrendo loro del vino corretto con arsenico, seppellendoli poi nella cantina di casa.
Se usiamo questo film come metafora o come rappresentazione (certo illegittima e molto scherzosa, ma non troppo) del tecno-capitalismo di questi ultimi trent’anni (la cui storia è però molto meno divertente di Arsenico e vecchi merletti), potremmo dire: che il vino corretto col veleno (l’arsenico) sono le nuove tecnologie e la globalizzazione che stanno uccidendo il lavoro (e quindi la cittadinanza e la sovranità popolare e la democrazia e la libertà e la dignità) o comunque lo hanno trasformato e ancora lo trasformano incessantemente e profondamente a nostra insaputa, violando impunemente Dichiarazioni universali e Costituzioni e ogni principio di giustizia sociale che lo volevano difendere come un diritto; che il sorriso sulle labbra è offerto ai morituri dalle nuove tecniche di organizzazione del lavoro (in realtà vecchie di quasi un secolo, ma sempre più affinate e perfezionate nel tentativo di nascondere l’alienazione e trasformare la prestazione di lavoro in una collaborazione/relazione emozionale con un’impresa, da pensare e vivere come comunità di lavoro), oppure attraverso l’attivazione dell’auto-imprenditorialità in ciascuno (Uber & gig economy), tecniche basate sulla motivazione e sull’attivazione dell’autostima dei lavoratori, sull’empatia da creare tra direzione e dipendenti, su manager social e dall’intelligenza emotiva secondo Goleman fino alla nuova figura di Chief happiness officer (colui che crea la felicità nell’impresa, ma sempre per aumentare la produttività dei dipendenti), oppure sul sentirsi liberi di scegliere come e quanto lavorare. Aggiungiamo che le zie potrebbero essere Steve Jobs e poi Mark Zuckerberg, Tim Cook e Jeff Bezos, liberi di fare e disfare il mondo (e la società e la democrazia) a loro piacimento; mentre la cantina è la precarizzazione, il JobsAct e la francese Loi travail, e poi l’uberizzazione del lavoro e delle vite e la rassegnazione collettiva; mentre Teddy, colui che occulta i cadaveri in cantina, sono i governi di destra e di sinistra che in questi trent’anni hanno ossequiato e promosso e sostenuto il tecno-capitalismo, hanno flessibilizzato/precarizzato il lavoro, ucciso la dignità delle persone, l’idea di futuro e di ascensore sociale. Rispetto al film, oggi manca un Mortimer (però collettivo), capace di vedere la follia di questo capitalismo. Ci stanno provando, ma a fatica, i ragazzi di Foodora o quelli di UberEats – tutti precarizzati e sfruttati ma tutti considerati come imprenditori di se stessi anche se i più cercano solo di sopravvivere con o grazie alla gig economy, l’economia dei lavoretti o meglio: economia della sopravvivenza. Che protestano, che cercano di fare azione collettiva e che Foodora si è detta disponibile sì a ricevere però singolarmente (divide et impera) perché nulla deve ostacolare i processi di (falsa) individualizzazione e di (vera) de-socializzazione in corso e utili al tecno-capitalismo per sostenere se stesso nella costruzione della propria egemonia. Perché singolarizzazione contrattuale, individualizzazione pseudo-imprenditoriale, retoriche dell’autonomia e della libertà, flessibilità e adattamento come nuova condizione esistenziale (come vocazione individuale) sono, appunto parte essenziale e insieme premessa (la biopolitica) dell’esplosione, frantumazione e impoverimento del lavoro di questi decenni folli.
Grazie a questo, il capitalismo delle piattaforme e gran parte di quella che si è autodefinita sharing economy (ma non lo è) – così come ieri il capitalismo cognitivo, il mito post-operaista dell’intelligenza collettiva, l’economia della conoscenza – mette al lavoro e sfrutta (estraendo valore invece di produrre valore) il lavoro dei singoli singolarizzati e isolati e quindi più flessibili e disciplinati, più utili e docili (Foucault) e quindi meglio integrabili nell’apparato. Grazie (ancora) al passaggio – come sosteniamo – dal fordismo concentrato delle grandi fabbriche di ieri al fordismo individualizzato di oggi, con una rete (e i suoi algoritmi) che è sempre più mezzo di connessione eteronoma di ciascuno nella grande fabbrica globale digitale. Perché, come scriveva Luciano Gallino, «senza Ict non sarebbe possibile coordinare unità produttive che non si arrestano mai e che devono essere collegate in tempo reale con mille altre unità produttive». Soprattutto se l’unità produttiva è ormai il singolo lavoratore falsamente autonomizzato e falsamente imprenditore di se stesso (perché comunque subordinato e dipendente). Il paradosso per cui in questo modo verrebbe meno la produzione di capitale (a parte quello finanziario), come invece avveniva nel capitalismo novecentesco – e non si dà capitalismo senza capitale, quindi saremmo alla fine del capitalismo – è superato dal fatto che ciascuno è ormai (e tale si considera) non più lavoratore (che conseguentemente potrebbe ancora immaginare un conflitto tra lavoro e capitale, almeno per la redistribuzione della ricchezza prodotta), ma collaboratore del sistema e microimprenditore che deve produrre da sé, in ogni modo ma sempre in modalità capitalista, la propria ricchezza (poca ma funzionale al capitalismo e alla sua socializzazione come sistema culturale prima che economico). Ha scritto Evgeny Morozov: questa visione dell’economia trasforma la vita di ciascuno «in una continua partecipazione al mercato in qualità di microimprenditore». Mentre il meccanismo della condivisione cambia la natura del vecchio produttore e del vecchio consumatore e la fa diventare quella di un soggetto economico a tutti gli effetti, a partecipazione continua e a mobilitazione incessante al/nel mercato.
Torniamo alle ‘retoriche del nuovo’. O alla biopolitica del nuovo e dell’innovazione tecnica. A settembre, presentando il nuovo iPhone 7, il responsabile del marketing di Apple spiegava in questo modo l’assenza di una presa per gli auricolari: «La risposta è tutta in una parola: coraggio. Il coraggio di andare avanti, di fare qualcosa di nuovo e che ci migliora tutti». Il nuovo, appunto, sempre e comunque, dimenticando che l’induzione di invecchiamento psicologico nei prodotti e soprattutto nei beni-feticcio (come oggi quelli tecnologici) è una costante del marketing novecentesco, mentre la distruzione e il consumo (anche senza scomodare Schumpeter), sono intrinseci e funzionali alla produzione. Ha commentato The Guardian: Una simile idiozia da fighetti californiani è stata applaudita da una folla di settemila persone e solo blandamente presa in giro dalla stampa. In realtà, ricorda sempre The Guardian, questa idiozia – diventata però norma/retorica esistenziale e comportamentale collettiva (appunto: il coraggio, l’andare avanti, l’innovazione che ci migliorerà tutti) serve a nascondere gli aspetti osceni della produzione fisica degli iPhone in Cina, perché osceni sono i turni di 12 ore al giorno per 6 giorni alla settimana alla Pegatron, fornitrice di Apple. Dunque, tecno-capitalismo e barbarie. Eppure, Tim Cook è vezzeggiato, incensato dalla stampa e dai politici, invitato a eludere le tasse in Irlanda ed è diventato il nuovo modello di imprenditore virtuoso da imitare.
E arriviamo al JobsAct: con il quale i licenziamenti, in due anni sono aumentati del 31%; la disoccupazione, che doveva diminuire, è ferma all’11,4%; le assunzioni a tempo indeterminato sono calate dell’8,5% nei primi otto mesi del 2016. Mentre i voucher sono saliti a 97 milioni, con un +36% rispetto allo stesso periodo del 2015 e del 71% rispetto al 2014. Gig economy? Non solo. Una grande catena di supermercati ha deciso di usare i voucher per pagare i dipendenti messi al lavoro, alle casse, la domenica. Mentre è salita agli onori della cronaca la vertenza dei lavoratori dei call center, forma di lavoro (ancora Gallino) dove «i ritmi sono oggi altrettanto serrati di quanto lo erano su una linea di montaggio o in una sala presse degli anni Sessanta. Si tratta di situazioni in cui, anche se l’Ufficio tempi e metodi non è più in primo piano, Ford e Taylor sembrano esserne più che mai gli ispiratori».
Ancora e sempre capitalismo, dunque; ma un po’ diverso da ieri: profitti alti per pochi, profitti bassi e decrescenti per molti (ma sempre più convinti di dover vivere capitalisticamente) e insieme degradazione e sfruttamento del lavoro, nuova alienazione (credere di essere proprietari dei mezzi di produzione ma non esserlo nella realtà, perché le piattaforme e gli algoritmi, cioè i veri mezzi di produzione, sono proprietà di altri – che fanno profitti). Eppure l’innovazione (dicono) non si può e non si deve fermare (è il determinismo tecno-capitalista e la teologia della religione tecno-capitalista) e anche Uber e l’uberizzazione del lavoro sono innovazione. Ovviamente è una colossale falsità, come lo sono le nuove tecniche di management del personale, ma molti ci credono; per questo, non ci accorgiamo di quale sia e dove sia oggi il potere – disciplinare e biopolitico – di tecnica & capitalismo.
E allora può essere utile riandare al pensiero di Vittorio Foa il quale, nel 2000, scriveva: «è verissimo che il problema è quello delle scelte. Credo anch’io che la tecnologia abbia vanificato in gran parte il vecchio tema del controllo. Esso si fondava sul rapporto consapevole tra la capacità del lavoratore e il suo prodotto. La tecnologia oggi non lo permette più. (…) Chi è che decide? La vera sede di decisione dov’è? (…) Io penso che il potere non si veda più, che si sia reso invisibile». Ma è proprio grazie a questa sua invisibilità (Erich Fromm a sua volta scriveva, già a metà degli anni Cinquanta che il potere è diventato Nessuno), e insieme alla sua pervasività e alla sua introiezione da parte nostra, che il tecno-capitalismo ci hanno de-sovranizzati. E se ai tempi di Taylor era la direzione di fabbrica a dire cosa doveva essere fatto e come, oggi lo facciamo senza ordini espliciti (abbiamo introiettato l’eteronomia – la biopolitica – dell’apparato) o grazie a un algoritmo (ultima forma di eteronomia), illudendoci però che il potere sia in ciascuno di noi; che non siamo più alienati bensì padroni di noi stessi; che facciamo sì fatica a vivere, ma questo è il bello della libertà.
È capitalismo delle emozioni, secondo Byung-Chul Han. O, detto altrimenti, tecno-capitalismo dell’autosfruttamento.
Riferimenti bibliografici
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Byung-Chul Han, Psicopolitica, Nottetempo, 2016
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