Le politiche di coesione accendono molti appetiti ma delineano pochi veri investimenti per la crescita e l’occupazione delle regioni più in difficoltà del Paese
L’ultimo documento del Governo che ricordava politicamente a se stesso dell’esistenza del Mezzogiorno d’Italia data 27 dicembre 2012. L’allora Ministro per la Coesione Territoriale, Fabrizio Barca, d’intesa con i Ministri del Lavoro e delle Politiche Sociali e delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, diffondeva “Metodi e obiettivi per un uso efficace dei fondi comunitari 2014-2020” nel quale si dava enfasi all’introduzione di tre opzioni strategiche: Aree Interne, Città e Mezzogiorno. Di queste tre opzioni, oggi, nell’Accordo di Partenariato per il periodo 2014-2020 approvato dalla Commissione, del Mezzogiorno si è persa ogni traccia. Così, mentre per le Aree Interne si è andata delineando una strategia a carattere nazionale, una sorta di programma sperimentale apripista rispetto all’azione territoriale delle Regioni e per le Città si è addirittura dato vita ad un Programma Operativo Nazionale (PON Metro), per il Mezzogiorno è bastato un colpo di spugna. Ovvero dopo un paio di anni di attività programmatoria, il Mezzogiorno altro non è che l’insieme delle risorse della Programmazione Operativa Regionale e della Programmazione Operativa Nazionale destinate per l’appunto alle regioni meno sviluppate. Una volta Obiettivo 1, poi regioni Convergenza e finalmente, dopo 15 anni di politiche di coesione, vengono indicate con la loro reale aggettivazione di regioni meno sviluppate: Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia.
Analizzando queste risorse senza politiche su cui tecnocrati di amministrazioni centrali e regioni si stanno “confrontando” da anni, un primo aspetto di interesse riguarda la loro redistribuzione territoriale.
È abbastanza evidente (Tabella 1) – guardando ai soli Programmi Operativi Regionali (POR) per i quali è possibile fare un confronto, essendo i PON di assai labile ripartizione – che buona parte delle amministrazioni regionali del Mezzogiorno nel loro complesso perdono una parte significativa della gestione diretta delle risorse. Guardando poi la Tabella 2, i dati mostrano una ricentralizzazione delle risorse, particolarmente accentuata nel passaggio dal periodo 2007-2013 al 2014-2020. Le assegnazioni comunitarie convogliate nei PON sono passate infatti dal 21,9% sul totale dei contributi UE, al 28,6%. Tale vicenda, tuttavia, non ha coinvolto in modo omogeneo le diverse aree del Paese, ma si è tradotta in una sorta di “commissariamento” delle regioni del sud e delle isole, che sono passate da assegnazioni dedicate ed esclusive di oltre 7,7 miliardi di euro rientranti nella Programmazione Operativa Nazionale nel 2007-2013, a 4,7 miliardi di euro nel 2014-2020. In parallelo, a livello di Programmi Operativi Regionali, il Mezzogiorno e le isole, pur vedendo aumentare i contributi comunitari, passati dai 17 miliardi del 2000-2006 agli oltre 20 dei due cicli successivi, hanno sperimentato una perdita, in termini percentuali, del peso che i fondi hanno in tali aree. Nel 2000-2006 i POR delle regioni del sud e delle isole pesavano per il 73,4% sulle risorse UE della Programmazione Regionale, mentre nel 2014-2020 per il 65,9%. In modo complementare, nelle regioni del centro e del nord, i POR cubano nell’attuale ciclo di programmazione oltre un terzo (34,1%) delle assegnazioni europee all’interno di Programmi Regionali, ossia 7,5 punti percentuali in più rispetto al 2000-2006 (26,6%).
Al di là delle risorse, però, questo significa soprattutto un interesse a concentrare investimenti per la crescita e l’occupazione non necessariamente nelle aree dove la crisi si è fatta maggiormente sentire, ma soprattutto in quei territori dove le performance delle amministrazioni regionali sembrerebbero fornire maggiori garanzie di successo. Questa scelta è stata impressa nel nuovo documento di programmazione 2014-2020 più come un assioma che come il frutto di una chiara indicazione di politica di sviluppo. Ovvero una opzione che sembra essere suffragata più dal buon senso che da un palese indirizzo strategico. Del resto in poco più di cinque anni, cruciali per il negoziato dei Fondi europei e per dare un’impronta forte al nuovo ciclo, si sono susseguiti tre ministri (Fitto, Barca e Trigilia) ed un sottosegretario (Delrio) delegati alle politiche di coesione, ognuno con una propria idea sul da farsi, fino ad arrivare ad oggi dove l’Italia può permettersi il lusso di non aver ancora attribuito la delega alle politiche di coesione e aver istituito un’Agenzia per la coesione ancora in cerca di autore. Se a ciò aggiungiamo l’avvicendarsi di ministri e viceministri negli altri dicasteri economici di peso per la politica di coesione (Sviluppo ed Economia e Finanze) si comprende bene che è già un miracolo se si è riusciti a chiudere l’Accordo di Partenariato e, forse per fine anno, vedersi approvati tutti i Programmi Operativi Nazionali e Regionali; del resto è anche interesse della Commissione approvarli.
Altro che una politica economica per il sud che riparta dai Fondi strutturali. Negli ultimi vent’anni la politica economica meridionale, portata avanti con i Fondi strutturali, è stata la sommatoria di enne Programmi Operativi Regionali e Nazionali che hanno generato milioni di microprogetti più a valenza distributiva che redistributiva e/o di crescita. Esattamente come si intravede all’orizzonte anche per il prossimo periodo 2014-2020. Per essere più espliciti non si scorge una linea di indirizzo che disegni una strada per circa la metà del Paese e per l’altra metà si è pensato bene di risolverla con un paio di miliardi di euro affidati direttamente alla big reputation delle amministrazioni regionali del nord.
E veniamo ora al secondo aspetto relativo alla forte ricentralizzazione dell’azione statuale in merito all’utilizzo delle risorse, ossia ministeriale. È questo un aspetto, per certi versi paradossale. Da una parte si rende sempre più palese un affanno conclamato, quello delle amministrazioni regionali, che sembrano perdere terreno, dopo il commissariamento della sanità, anche sul fronte della programmazione economica. Dall’altro c’è da chiedersi: questo spostamento gestionale delle risorse verso il “centro” è frutto di una migliore performance dei programmi operativi a regia ministeriale? Non sembrerebbe affatto. Perché se è vero che in termini complessivi l’avanzamento rendicontabile dei Programmi Nazionali e dei Programmi Operativi Interregionali (POIN) è superiore a quello dei Programmi Regionali, in termini di reale capacità di accelerare la spesa sui grandi investimenti – quelli che dovrebbero di più contribuire al rilancio del Mezzogiorno – questo piccolo vantaggio competitivo si perde completamente. Al 28 febbraio 2015, infatti, limitatamente ai progetti FESR 2007-2013 (Fondo Europeo di Sviluppo Regionale) ascrivibili alla Priorità 6, per intenderci quelli più “pesanti” ossia “Reti e collegamenti per la mobilità”, con un costo rendicontabile UE superiore ai 50 milioni di euro, si contano tra Programmazione Nazionale e Interregionale 9 interventi con un avanzamento rendicontabile del 38,8%, mentre tra i POR i progetti sono 20, con un avanzamento rendicontabile medio del 57,1%.
Insomma, sembra quasi che l’obiettivo di far ripartire il Mezzogiorno a cominciare dai miliardi di euro dei Fondi strutturali abbia lo stesso effetto di un fumogeno lanciato in un campo di calcio: per un po’ non vedi dove è la palla ma c’è tanta gente che corre da tutte le parti. Ovvero le politiche di coesione accendono gli animi e le passioni di coloro che si affannano più a tenere in mano le chiavi della cassaforte che a delineare pochi e chiari investimenti per la crescita e l’occupazione delle regioni più in difficoltà del Paese. Certamente sono sempre meno quelli disposti a credere che i Fondi strutturali, così come sono oggi concepiti, siano ancora lo strumento principe con il quale rimettere a posto gli squilibri territoriali di una Europa senza visioni e di un Sud Italia senza più neanche la capacità di tener serrato il forziere. Le consuetudini e le prassi sono dure da sconfiggere soprattutto in un clima di debolezza politica e disattenzione civica per cui si preferisce continuare a riproporre stanchi e sterili schemi di pseudo-programmazione partecipata, esercizi euristici di una tecnoburocrazia arroccata su se stessa, come se questo bastasse a trasformare un brutto anatroccolo in un principe azzurro. Ma perché non cominciare a modificare la contribuzione al bilancio dell’UE da parte degli Stati membri lasciando più soldi nelle tasche dei cittadini di ciascun Paese europeo? Perché non dare avvio ad una diversa redistribuzione fiscale intra-statuale che dia più soldi a chi ne ha di meno o non ne ha affatto? Perché oltre al fiscal compact non si inserisce nei Trattati europei un sussidio di disoccupazione europea? In breve, perché non attivare misure automatiche di riequilibrio e di coesione senza dover ricorrere alla giostra dei fondi strutturali che ci ha restituito un Mezzogiorno d’Europa sull’orlo del default?