Il probabile accordo tra FCA e Renault creerebbe una casa al terzo posto a livello mondiale. Non sarà però una fusione tra eguali e mentre la Francia interviene a difesa dei suoi posti di lavoro, l’Italia tace.
Aggiornamento:
Pochi giorni dopo la pubblicazione di questo articolo è arrivata la notizia di un probabile accordo tra FCA e Renault per la messa in comune delle loro attività. La nuova entità che nascerebbe da tale incontro sarebbe controllata per il 50% da parte “italiana” e per il restante 50% da parte francese. Si creerebbe una società che fatturerebbe, secondo i dati di oggi, circa 170 miliardi di euro e produrrebbe circa 8,7 milioni di auto all’anno, collocandosi al terzo posto a livello mondiale. L’eventuale raccordo di tale fusione con le attività di Nissan e di Mitsubishi poi porterebbe il numero delle vetture prodotte intorno ai 15 milioni di unità, facendo di tale nuovo gruppo largamente il primo al mondo.
In ogni caso la nuova compagine “ristretta” potrebbe vedere aprirsi il mercato americano per la Renault, che contemporaneamente riuscirebbe a controbilanciare meglio l’invadenza crescente dei soci giapponesi, mentre la FCA potrebbe approfittare del know-how francese nel campo delle vetture elettriche e a guida autonoma.
Rispetto a quanto abbiamo scritto nel nostro articolo qui sotto, la notizia porta delle conferme e qualche apparente scostamento.
Si conferma che il gruppo FCA stava pensando all’incontro con qualche altro produttore per condividere i costi di investimento necessari per stare su di un mercato toccato da grandi trasformazioni, nonché per il fatto che gli Agnelli non sembravano più convinti di andare avanti, almeno da soli, nel settore.
Apparentemente si tratterebbe di una fusione tra eguali e non di una cessione della FCA ad un’altra casa dell’auto, come era invece scritto nell’articolo. Ma, dietro le righe, si intuisce che nella sostanza, pur con le mascherature di circostanza, non è probabilmente così. In effetti, stando almeno alle prime notizie disponibili, l’amministratore delegato, quello che in genere ha la maggior parte dei poteri, sarà di parte francese, mentre gli italiani si dovranno accontentare di nominare il presidente, carica in genere senza grande spessore. Inoltre il consiglio di amministrazione sarà forse composto di 5 rappresentanti per la FCA e cinque per la Renault, mentre un altro membro del consiglio sarà nominato dalla Nissan, che normalmente dovrebbe stare dalla parte di Renault.
Le due case promettono che non ci saranno chiusure di stabilimenti, ma non garantiscono che l’occupazione non diminuirà, cosa che appare a questo punto messa chiaramente in discussione: sono in gioco, come già scritto, decine di migliaia di posti di lavoro, per evidenti sovrapposizioni di attività negli stabilimenti e nei servizi centrali. Sembrerebbe poi che la Nissan e la Mitsubishi siano state sostanzialmente tenute all’oscuro dell’operazione.
Mentre lo Stato francese è subito intervenuto in maniera ufficiale nella questione, mettendo chiari paletti all’accordo, a tutela degli interessi del proprio Paese e dei suoi lavoratori, attendiamo con ansia analoghe dichiarazioni da parte italiana.
Una conseguenza perlomeno curiosa dell’operazione è quella che, apparentemente per ragioni di conguagli e bilanciamenti finanziari dell’operazione, i soci FCA riceveranno circa 2,5 miliardi, dopo che ne avevano incassati di recente altri 2,0 dalla vendita di Magneti Marelli e qualche altro centinaia di milioni come dividendi ordinari. Le casse di Exxor, la finanziaria di Agnelli, fra poco rigurgiteranno di denaro, denaro che non è stato speso invece per preparare un futuro all’azienda.
Un’ultima considerazione. Se verrà poi confermato che si tratta di una sostanziale cessione e non di una fusione tra eguali, saremmo davanti ad una tappa decisiva nel processo di svendita del sistema industriale italiano, processo cominciato già diversi anni fa e mai interrotto.
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La cessione della Marelli e l’accordo con Tesla
Romano Prodi, questa volta almeno, ha avuto pienamente ragione quando, poco tempo fa, ha stigmatizzato da una parte la vendita della Magneti Marelli agli americani e dall’altra la distribuzione di una parte importante degli incassi dalla cessione, 2 miliardi di euro (la vendita ne ha fruttato circa 5,8 in totale), agli azionisti (per una buona fetta quindi agli Agnelli); si è privata così l’Italia di uno dei suoi ultimi bastioni tecnologici, mentre si è sottratta al gruppo una parte importante di quelle risorse che sarebbero state preziose per finanziare i grandi investimenti necessari per stare al passo con il mercato.
Tale cessione è stata accompagnata dal sostanziale silenzio del mondo politico, così come di una parte almeno del sindacato. Solo gli attentati all’impero di Berlusconi suscitano clamore e ostilità nelle nostre classi dirigenti vecchie e nuove.
Ricordiamo anche come la cessione della Magneti Marelli si inserisca in un più ampio processo di liquidazione progressiva, di volta in volta al migliore offerente, dei gruppi industriali nazionali; con la probabile vendita delle attività FCA che dovrebbe seguire, si compirà un passo decisivo in tale direzione, vista la rilevanza che l’azienda ancora ha in Italia sul piano industriale.
Che il gruppo non abbia grandi speranze di restare autonomo è segnalato anche da un’altra notizia, che nessuno sembra aver commentato con sufficiente durezza, quella che la FCA si appresta a versare 1,8 miliardi di dollari alla statunitense Tesla, perché la copra in sostanza dalle norme che prevedono che le case dell’auto debbano ridurre i livelli di emissioni inquinanti entro certi limiti. Anche questa decisione segna la liquidazione di preziose risorse deviate dagli scopi più importanti ai quali esse avrebbero dovuto servire.
D’altro canto, sempre la FCA ha dovuto pagare poco tempo fa anche una consistente multa negli Stati Uniti, circa 650 milioni di dollari, più altri importi minori, per aver nascosto i reali livelli di inquinamento delle sue vetture, mentre in Corea, per la stessa ragione, alcuni suoi modelli sono stati esclusi dalla vendita.
I movimenti del mercato
È ormai largamente noto come il settore dell’auto stia attraversando un periodo di grandi trasformazioni, le più importanti da quando l’auto è stata inventata.
Negli scorsi anni si è compiuto un trasferimento del centro del mercato mondiale dai Paesi ricchi a quelli emergenti. La Cina da sola è ormai di gran lunga il primo produttore e il primo mercato del mondo. E a tale Paese guardano in maniera prioritaria tutte le principali case dell’auto. Ad esempio, quelle tedesche vendono una parte consistente delle loro vetture in Cina e vi traggono la gran parte dei profitti. Con i nuovi sviluppi in atto, Pechino tenderà ad essere ancora di più il centro della produzione.
Peraltro nel Paese asiatico, per la prima volta dopo 20 anni, si è registrato nel 2018 un calo, sia pure modesto, delle vendite, mentre i mercati europeo e statunitense sembrano perlomeno stagnare. D’altro canto le prospettive per il 2019 non appaiono in generale brillanti in tutte e tre le aree.
Una trasformazione ancora più rilevante nel settore è rappresentata dai mutamenti nel prodotto e nei modi della sua distribuzione.
Vanno così avanti rapidamente i processi di elettrificazione delle vetture. Si stimava qualche mese fa che la case del settore vi abbiano avviato investimenti per più di 300 miliardi di dollari. Persino la sonnecchiante UE sta cercando di far decollare un progetto, con la spinta di Francia e Germania, nel settore delle batterie, progetto nel quale ovviamente l’Italia appare del tutto assente.
Le preoccupazioni ecologiche stanno anche distruggendo il mercato del diesel e, a medio termine, anche quello del motore a benzina. Di recente diverse città europee stanno già limitando la possibilità di circolazione del primo tipo di motorizzazione. La Gran Bretagna e la Francia hanno annunciato lo stop dal 2040 in poi. Tra pochi anni in Norvegia e poi in India si dovrebbe passare al tutto elettrico. Ne soffriranno progressivamente, oltre alle case dell’auto, anche e soprattutto i produttori di componentistica.
Va avanti, anche se con un decalage di qualche anno, lo sviluppo dei veicoli a guida autonoma; infine si sviluppa, sotto varie forme, l’affitto delle vetture invece del loro acquisto individuale, ponendo così anche le basi per un mutamento radicale dei sistemi di mobilità soprattutto nelle città.
Queste tendenze, mentre mettono sotto pressione le case storiche e in particolare quelle tedesche, che guidavano i processi di innovazione nelle vetture tradizionali, indicano anche un grande riduzione tendenziale delle vendite e dell’occupazione nel settore. D’altro canto, le imprese europee hanno ormai difficoltà a stare al passo con quelle cinesi, statunitensi e giapponesi.
Potrebbero entrare in forze sul mercato le società digitali, in particolare sempre cinesi e statunitensi, che comunque sono corteggiate da quelle tradizionali per la formazione di alleanze.
Le aziende comunque, per concentrarsi sul nuovo, tendono a tagliare i costi e ad abbandonare i Paesi e i segmenti di mercato nei quali mancano delle adeguate prospettive di sviluppo.
Così, negli ultimi 7-8 mesi la GM ha annunciato il licenziamento di circa 15.000 addetti, la Jaguar Land Rover di circa 5.000, mentre la Ford ha avviato una riduzione del suo impegno in Europa (a livello globale si prevedono, secondo alcune stime, circa 24.000 licenziamenti), mentre sempre la stessa GM ha già abbandonato il nostro continente. Intanto la Nissan sta riducendo il suo impegno produttivo in Gran Bretagna, anche in questo caso con ripercussioni nei livelli di occupazione e la Honda ha formalizzato la chiusura nello stesso Paese di un fabbrica che occupa 3.500 addetti, mentre sta portando anch’essa avanti una strategia di riduzione più generale del suo impegno in Europa.
Bruxelles ha aperto un dossier sul sospetto che BMW, Daimler e Volkswagen si siano a suo tempo messe d’accordo per ritardare l’introduzione delle tecnologie che riducono le emissioni.
Le alleanze
L’evoluzione tecnologica in atto richiede importanti competenze specifiche che le case tradizionali non posseggono in maniera adeguata e, inoltre, grandi risorse che solo livelli di produzione molto elevati possono apportare. Questo spiega il rilevante numero di alleanze avviate di recente tra le case dell’auto e tra le stesse e le società digitali.
Le società Usa Tesla, Google e Uber stanno investendo molto nei veicoli nuovi, così come in Cina stanno facendo Baidu, Tencent, Alibaba, Didi Chuxing. Volkswagen e Ford hanno avviato un’alleanza tra di loro, come hanno fatto BMW e Daimler, mentre queste due ultime società hanno siglato un altro accordo con Audi per acquisire una società che produce le mappe elettroniche e mentre sempre Daimler ha concluso un’altra alleanza con Uber nel campo dei veicoli a guida autonoma e BMW lo ha fatto con Intel e con una società israeliana. Sempre Volkswagen, poi, ha annunciato un’intesa con Microsoft, Mentre FCA sta lavorando con Google sulle auto a guida autonoma, Volvo lo fa con Uber e Renault-Nissan coopererà con Google nel settore dell’elettronica di bordo. Toyota ha invece stretto un’alleanza con la giapponese Softbank nelle vetture autonome e connesse. E si potrebbe continuare. Come si vede gli intrecci sono molti e di vario tipo.
Una curiosa reazione italiana
Di fronte alle crescenti difficoltà del diesel vanno registrate in Italia delle reazioni non proprio favorevoli, né lungimiranti. Così, Alberto Bombassei, padrone della Brembo, dichiarava qualche tempo fa che la UE non aveva fatto nulla per difendere il diesel contro l’elettrico, vista la centralità della prima tecnologia nell’auto europea e la grave minaccia all’occupazione che tale cambiamento comporta, mentre Giorgetto Giugiaro rinforzava la dose affermando che solo continuando ad usare il petrolio si poteva contrastare la Cina. Tali opinioni venivano poi, in qualche modo, rafforzate anche dal Cnr e da qualche autorevole studioso del settore.
Anche in questo, quindi, si conferma come il nostro Paese stia rapidamente fuggendo dal principio di realtà, per quanto amaro essa possa rivelarsi.
La situazione del gruppo
Apparentemente, il bilancio del gruppo FCA per il 2018 indica una situazione di salute economica e finanziaria. I ricavi e gli utili sono in leggero aumento, mentre l’indebitamento finanziario è stato più che annullato.
Ma molte ombre sembrano invece avanzare sulle prospettive future.
Mentre il mercato mondiale cresceva, il gruppo è stato praticamente fermo da diversi anni a livello di unità vendute, intorno a 4,7-4,8 milioni di unità, collocandosi all’ottavo posto tra i costruttori mondiali; oggi è assente dall’Asia e in particolare non riesce ad inserirsi dignitosamente sul mercato cinese. Peraltro in Europa le sue quote di mercato sono da tempo in riduzione. Le fabbriche italiane non sono certo sature; in mancanza di un numero adeguato di modelli richiesti dal mercato, imperversa la cassa integrazione. La FCA deriva ormai gran parte dei profitti dalla consociata statunitense.
Guardando alle cifre del 2017, il fatturato italiano pesava ormai solo per il 7,8% sul totale del gruppo, per 558 mila unità vendute e per appena il 5% del reddito operativo. In tutta Europa nello stesso anno esso ha venduto 711.000 vetture. Un peso ormai sostanzialmente trascurabile.
Le dimensioni complessive della FCA non sono, tra l’altro, sufficienti a reggere i grandi investimenti che sarebbero necessari per inserirsi sui nuovi mercati.
Essa appare la casa più indietro nell’adozione delle nuove tecnologie, avendo sino ad oggi investito pochissimo nel settore. Non lo ha fatto per mancanza di risorse, per poca fiducia nel nuovo, per la potenziale cessione, o per un insieme di ragioni? Non appare chiaro.
Intanto i tentativi di incidere sul mercato del lusso, con Alfa Romeo e Maserati, sono sostanzialmente falliti, non alimentati da sufficienti investimenti.
A chi venderanno?
Appare probabile una cessione a relativamente breve termine dell’azienda, più che una fusione tra eguali, o una semplice collaborazione nella condivisione di piattaforme per ridurre i costi. Sembra difficile, in effetti, sostenere ancora a lungo un gruppo che restasse autonomo, mentre la probabile voglia della famiglia Agnelli di sbarazzarsi di quello che considerano un peso e la debolezza strategica della società tendono in una direzione che sembrerebbe segnata.
La cessione dovrebbe sperabilmente avvenire piuttosto presto perché il valore del gruppo, man mano che avanza l’arrivo delle nuove auto e dei sistemi di affitto, può diventare sempre minore e le minacce all’occupazione farsi sempre più consistenti.
Le notizie su quale società potrebbe intervenire nel gioco sono abbastanza vaghe e si possono solo azzardare delle ipotesi.
Negli ultimi tempi si è parlato molto di una vendita a Psa o a Renault. Noi crediamo che tali ipotesi difficilmente possano reggere e siano auspicabili. Per quanto riguarda la prima società, essendoci nel capitale anche i cinesi, molto difficilmente Trump permetterebbe che ciò accadesse; d’altro canto, data la sovrapposizione di modelli in Europa, si avrebbe una ristrutturazione che porterebbe forse a decine di migliaia di licenziamenti. Renault dal canto suo, oltre ad avere gli stessi problemi che nel caso Psa, appare alle prese con rilevanti questioni interne legate al suo conflitto con i giapponesi.
Sempre per l’opposizione di Trump sarebbe difficile vendere il gruppo ai cinesi, mentre questi ultimi potrebbero invece accontentarsi di comprare soltanto le attività europee e forse quelle sudamericane, mentre quelle statunitensi potrebbero andare ad un altro produttore. Comunque la scissione delle attività in due porrebbe rilevanti problemi. La coreana Hyundai-Kia potrebbe essere plausibilmente il candidato che presenta meno complicazioni per l’acquisto del tutto o di una parte; dal punto di vista geografico le sovrapposizioni sarebbero più gestibili.
Resta un’altra importante società del gruppo, la Comau, che potrebbe interessare molto di nuovo i cinesi; bisognerebbe peraltro sempre superare le pressioni contrarie statunitensi.
Ma chissà, le volontà e le decisioni della famiglia Agnelli e del suo più illustre rappresentante appaiono imperscrutabili.