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Federalismo: l’inizio della fine della politica economica?

Le forti Regioni del Nord chiedono, sgravi fiscali ma i numeri danno torto a Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna: vogliono segare il ramo su cui sono sedute, travolgendo lo Stato.

Preambolo

I referendum di Lombardia e Veneto prima, seguiti a ruota dall’iniziativa dell’Emilia Romagna, a sostegno di una maggiore autonomia regionale nell’utilizzo delle risorse finanziarie erariali, richiamano alcune riflessioni di politica economica e fiscale, e sul modo in cui la politica abbia risposto ai problemi che la società e i cittadini affrontano. Il prelievo fiscale è diventato il principale imputato della crisi economica e tutti i governi, di qualsiasi colore e livello, veicolano l’idea che la riduzione delle tasse o trattenere le stesse nel proprio territorio permetterebbero una maggiore crescita. Una impostazione reaganiana che, purtroppo, ha fatto breccia nei cuori e nelle coscienze delle persone. Dopo la crisi del 2007 e la necessità di guidare i processi economici a livelli sovranazionali coerenti, sarebbe stata lecita una discussione più attenta rispetto alla politica economica, ma la storia iniziata con Reagan e Thatcher continua ed è all’origine di dubbi e problemi per coloro che vorrebbero contrastare certe derive. Sebbene sia noto che il fisco intervenga dopo che è stato creato un reddito, l’alto prelievo fiscale è diventato il mantra di ogni politico. C’è un punto culturale, o meglio ancora di egemonia culturale, che dobbiamo assolutamente riprendere.

Le tasse e la politica

La prima osservazione economico-sociale relativa al fisco è la seguente: se nei paesi con elevato grado di sviluppo il prelievo fiscale assume dimensioni così ampie, è naturale attendersi che gli istituti giuridici e le strutture organizzative su cui si fonda il sistema tributario siano complessi. Infatti, i tributi si sono sempre adattati ai modi di produzione e agli assetti patrimoniali emergenti dall’evoluzione economica della società. Inoltre, le entrate erariali sono quelle imposte che affluiscono allo Stato in forza di una legge e sono finalizzate al sostegno dei servizi pubblici. Ovviamente ci sono anche alcune imposte regionali che vengono classificate come imposte dello Stato, anche se vengono gestite in maniera autonoma dalle regioni; e il gettito dell’imposta è dovuto alle regioni anche se tratta di imposte disciplinate dallo Stato. Declinata dal lato della politica economica, significa che la modulazione delle entrate così come i presupposti di imposta concorrono al governo dei fenomeni economici, unitamente alle spese che condizionano il come e qualche volta anche il che cosa si produce. Piaccia o meno, il tratto ineliminabile dei sistemi economici capitalistici (maturi e/o avanzati) è dato dalla presenza dello Stato, sia esso in forma minimale (modello neo-liberista), sia esso di stampo keynesiano. La struttura e la complessità economica esigono un sistema pubblico coerente di regolazione e di governo dell’economia; lo sviluppo delle conoscenze tecniche e scientifiche, la distribuzione del reddito ante e post imposte tra gli attori sociali, la modificazione degli assetti produttivi, concorrono allo sviluppo dell’impostazione dei sistemi fiscali, e devono essere coerenti con gli obbiettivi che la politica e la società nel loro insieme prefigurano. Vale il monito della rivoluzione francese (Robespierre): il pagamento dell’imposta non è un dovere ma un diritto, perché nel pagamento dell’imposta sta per le classi più povere la tutela della libertà e l’indipendenza della politica. Sostanzialmente il sistema dei tributi è l’esito delle aspettative della società e, quindi, della struttura produttiva. Infatti, l’imposta è un prelievo operato in virtù del potere sovrano per il conseguimento del bene comune.

Il preambolo è utile per raccogliere il buono delle politiche fiscali, in termini di diritto, e di politica economica e di giustizia fiscale. La politica economica pubblica è tale nella misura in cui utilizza entrate-spese fiscali. Quando il sistema fiscale realizza un trasferimento dai redditi più alti verso quelli più bassi, lo Stato non distribuisce solo reddito, ma sostiene la domanda aggregata (effettiva) del ricco e del povero. 

Se consideriamo il residuo fiscale come trasferimento di reddito dal più ricco al più povero dal lato macroeconomico e, quindi, dal lato della politica economica, è facilmente dimostrabile che senza quei residui fiscali redistribuiti, che vanno dal nord al sud del Paese, la domanda dei beni e dei servizi del Nord è alimentata proprio da questi trasferimenti. Infatti, la propensione marginale al consumo dei redditi più bassi è maggiore di quella dei redditi più alti. Quindi la distribuzione del reddito è parte integrante della politica economica; la domanda di beni e servizi del Mezzogiorno è sostanzialmente domanda di beni e servizi realizzati nel Nord del Paese. Mi rendo conto che occorrerebbe una politica industriale per il Sud se si vuole rilanciare il Paese, ma denunciare il lassismo meridionale è come tagliare il ramo su cui è seduta l’industria del Nord. Inoltre, proprio la de-specializzazione produttiva del Nord d’Italia, fa sì che la domanda del Sud Italia sia più importante della domanda proveniente da altri paesi che reclamano beni  e servizi a maggiore valore aggiunto che, al momento, il Nord del Paese non può realizzare. Se il PIL della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia Romagna cresce meno della media europea ci deve pur essere una qualche ragione. 

I falsi miti del federalismo fiscale

Sono almeno tre i temi che il federalismo differenziato solleva: (1) il debito pubblico, (2) i trasferimenti erariali, (3) il flusso finanziario del sistema previdenziale. In qualche misura si osserva un errore metodologico e ragionieristico dei sostenitori dell’idea di “trattenere il gettito fiscale generato nei territori”. Sul punto lo studio di A. Giannola, G. Stornaiuolo è prezioso e utilissimo per comprendere il non detto del federalismo fiscale differenziato. Allo scopo è prezioso anche il lavoro di Mariella Volpe: “Ai fini di un dibattito informato e consapevole su tutte le tematiche citate, e al fine di misurare gli effetti potenziali della autonomia differenziata su ciascuna regione, è fondamentale eliminare luoghi comuni e dare alla riforma federale basi più solide, soprattutto facendo buon uso di buoni dati. Solo basi informative molto disaggregate e finalizzate consentono il necessario lavoro di approfondimento, ancor più in una realtà complessa come quella italiana (più complessa di quella che l’analisi dei residui fiscali consente di ricostruire”. 

I residui fiscali regionali non sono altro che l’avanzo primario delle regioni che poco hanno a che vedere con le regioni, piuttosto con il processo perequativo tra contribuenti ricchi e poveri. Ciascuna Regione al suo interno ha una quota di popolazione che, pur in misura diversa, dona e riceve. Secondo Giannola e Stornaiuolo i ricchi della Lombardia garantiscono i diritti dei cittadini delle fasce di reddito più basse della propria Regione, così come di cittadini di altre Regioni; allo stesso e identico modo i ricchi della Campania garantiscono i poveri della propria regione come di quella di altre regioni. L’ipotesi di misurare il residuo fiscale sulla base del contributo regionale all’erario minerebbe nelle fondamenta questo principio. Nella bozza di accordo tra Lombardia e precedente governo Gentiloni si legge (art. 5, comma 2, lettera a) che alla stessa Lombardia spetterebbe “una compartecipazione al gettito maturato nel territorio regionale dell’imposta sui redditi delle persone fisiche e di eventuali altri tributi erariali”. Il reddito da imposta personale diventerebbe regionale, un assurdo economico e giuridico. 

Questa impostazione, come ricordato, tralascia la spesa. Utilizzando le riflessioni di Volpe, si osserva che: “si confermano sostanzialmente gli storici modelli di comportamento per macro area: quello del Mezzogiorno che dispone di una quota di spesa pubblica totale superiore rispetto alla quota di PIL ma inferiore rispetto alla quota della relativa popolazione; quello del Centro-Nord che registra invece una percentuale di spesa pubblica totale inferiore a quella del PIL, ma superiore a quella della popolazione”. L’effetto è il seguente nella erogazione dei più rilevanti servizi collettivi: il 70,7% della totalità della spesa del Settore Pubblico Allargato in Italia continua ad essere concentrato (2016) nelle regioni del Centro-Nord, il 29,3% nel Mezzogiorno, a fronte di una popolazione pari rispettivamente al 65,7% e al 34,3%.

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Nel così detto dibattito sul federalismo fiscale differenziato esce dalla discussione il flusso territoriale degli interessi passivi del debito pubblico italiano, il quale è proporzionale al possesso dei titoli di stato, e questi sono per lo più posseduti da soggetti economici “benestanti”. Se contabilizzassimo questo flusso, il così detto residuo fiscale diventerebbe significativamente più contenuto. Le due tabelle successive, tratte dal lavoro degli autori sopra citati (Giannola e Stornaiuolo) illustrano il peso specifico di questa spesa omessa; questa assenza spiega molto bene l’uso strumentale dei residui fiscali. Sebbene la Lombardia sostenga di avere un avanzo di 40 miliardi, in realtà non dice nulla dei soldi che tornano nel circuito dell’economia soprattutto al Nord: l’Iva pagata al Sud viene contabilizzata al Nord perché la sede di molte aziende è in Lombardia, e al Nord tornano anche centinaia di miliardi di interessi sul debito pubblico. Se contabilizzassimo gli interessi, il residuo fiscale della Lombardia si ridurrebbe a poco più di 10 mld.

Interessi sul debito pubblico per il 2014; riparti territori (dati in milioni di euro s.d.i.)

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Residuo fiscale primario (RFP) al 2014, e residuo fiscale-finanziario (RFF) per percettori e ripartizione territoriale (dati in milioni di euro, s.d.i.)

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La discussione sul federalismo differenziato rimuove persino il dare e l’avere relativo alla spesa previdenziale e assistenziale dell’INPS. Se considerassimo anche questa posta finanziaria nel calcolo del così detto residuo fiscale, emergerebbe qualcosa di anomalo e mai sufficientemente discusso. Prendendo il bilancio sociale dell’INPS Lombardia (2013) si osserva quanto e come questa Regione sia debitrice rispetto alle altre regioni: le prestazioni INPS della Lombardia sono maggiori di quasi 9 mld rispetto alle entrate. È il risultato della crescita economica degli anni settanta, ma in termini di flusso finanziario è del tutto evidente quanto questa regione sia debitrice del flusso corrente del reddito prodotto da altre regioni. In questo caso pesa la storia economica del Paese e l’assenza di politiche per il Mezzogiorno adeguate. Si tratta di pensionati che hanno beneficiato del boom economico degli anni Settanta, che ora, giustamente, beneficiano del dividendo fiscale dello sviluppo del Nord Italia. Ma possiamo escludere dal dividendo fiscale questo sproporzionato dare e avere della Regione Lombardia? Sebbene gli anni settanta siano ricordati come gli anni del boom economico, il lascito di questo sviluppo è la crescita della spesa previdenziale legata all’invecchiamento di quella popolazione che a suo tempo era stata reclamata proprio dal Nord Italia. In questo senso la denuncia di lassismo fiscale del Sud appare quanto meno impropria. Semmai il Mezzogiorno è creditore del Nord Italia, sia dal lato della domanda e sia dal lato previdenziale. Il Nord è, così, beneficiario delle sciagurate politiche degli anni ’70 e dell’attuale flusso dei benefici previdenziali e assistenziali dell’INPS.

Entrate e uscite INPS Lombardia, 2013

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Fonte: INPS Lombardia

Conclusioni

Il fisco senza politica economica è un non senso economico, almeno sul piano normativo. Il fisco governa una parte della politica economica coniugando domanda e offerta. Quello che per alcuni è sottrazione di reddito è, in realtà, domanda per altri; domanda necessaria che diversamente dovrebbe essere sostituita con altre poste. L’idea che sottende il federalismo differenziato del Nord è quella di compensare questa domanda calante del Mezzogiorno, in ragione del federalismo differenziato, con il rafforzamento della domanda estera, supponendo che le maggiori risorse disponibili possano migliorare la competitività. Restando al caso della Lombardia posso ben sostenere che questa regione da tempo manifesta una crescita del PIL più bassa della media europea e un saldo commerciale negativo. Inoltre, la dinamica competitiva internazionale suggerisce di trovare degli equilibri sovranazionali se non si hanno dimensioni di scala adeguate. La stessa Germania, per quanto grande si possa sentire, è un nano rispetto agli Stati Uniti o alla Cina; se continua nella sua policy soccomberà, schiacciata da due giganti. Se la Lombardia o il Veneto e financo l’Emilia Romagna pensano di trovare una occasione di crescita nel federalismo differenziato vuol dire che la loro classe dirigente è interamente avulsa dalle dinamiche economiche internazionali. Indiscutibilmente il fisco attraversa una crisi di struttura enorme. Troppe aspettative di crescita dalla riduzione del prelievo fiscale. Alla fine l’irpef non è più l’irpef, così come le imposte sui capitali non sono più le imposte sui capitali. Siamo all’inizio di una stagione economica che necessita di nuovi presupposti di imposta (ambiente, reddito, salario, profitto e rendita, brevetti, ecc.) per riconsegnare al fisco il compito (parziale) di governo dell’economia. La prima critica rispetto al federalismo fiscale è proprio quella di disconoscere il problema della domanda e, peggio ancora, di pensare che questa possa essere sostituita con una domanda proveniente dall’estero. Inoltre, si parla di federalismo differenziato come se fosse possibile sganciare l’erario dalla spesa. La spesa è parte del fisco, come dimostra il flusso degli interessi passivi del debito che, guarda caso, è indirizzato verso alcune categorie sociali e regioni economiche. È un modo per ricordare che macroeconomia, spesa pubblica e fisco continuano a lavorare assieme e non potrebbe essere diversamente. Possiamo anche immaginare che il trasferimento avvenga a parità di saldo finanziario, ma l’esito sarà quello di creare una bad company (lo stato) e una good company (le regioni). Se è già difficile finanziare il nostro debito in questa situazione, immaginate la sua ricomposizione territoriale. Non ha importanza se il servizio del debito è garantito da tutti legalmente; la realtà sarà quella di un debito frazionato tra regioni; il creditore con fatica accetterà questa condizione. In altri termini, la bad company salterebbe trascinando con sé anche la good company. 

C’è poi la questione dei contributi previdenziali. La Storia economica di questo Paese è Storia: i “terroni” sono l’altra faccia della medaglia del reddito pregresso di Piemonte, Lombardia, Veneto e Liguria. Infatti, i flussi finanziari in uscita (previdenza, cassa integrazione) di queste regioni sono maggiori dei flussi in entrata (contributi dei lavoratori). Si potevano fare politiche diverse durante gli anni sessanta e settanta, ma il modello “Olivetti” aveva pochi interlocutori nella politica, così come nel sistema confindustriale. 

Più che di secessione dei ricchi, è il caso di parlare di sconfitta della ragione economica e della politica economica. Per essere più precisi: non ci sarà nessuno più ricco, piuttosto un indebolimento del paese rispetto all’Europa. In realtà dovremo discutere di giustizia fiscale e di politica economica, nella consapevolezza che c’è anche l’Europa in campo, con un sistema fiscale di area euro che permette l’esistenza di almeno 4 paradisi fiscali. La sfida che dobbiamo affrontare è ben più grande delle vuote e inconsapevoli posizioni politiche sul federalismo fiscale; l’importante è avere piena consapevolezza della sfida che attraversiamo, cioè quella della politica economica nel senso normativo del tema.