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F35 e TAP, la democrazia delle multinazionali

Anche se ci illudiamo di essere un paese democratico tra paesi democratici subiamo gli effetti di decisioni importanti, prese non tanto da istituzioni politiche sovranazionali quanto da grandi aziende multinazionali

Anche se ci illudiamo di essere un paese democratico tra paesi democratici (in Occidente almeno), mentre polemizziamo e ci dividiamo su temi di bandiera, subiamo gli effetti di decisioni importanti, prese non tanto da istituzioni politiche sovranazionali, come l’Unione Europea, quanto da grandi aziende multinazionali. Di queste decisioni ci rendiamo conto solo quando sono già realizzate e ci colpiscono direttamente. Tra le aziende multinazionali che decidono per noi ce ne sono alcune, poche, della cui proprietà fanno parte anche capitalisti italiani o il governo italiano, come la Fca, già Fiat, o l’Eni e l’Enel, che sono state Enti nazionali, per gli idrocarburi e per l’energia elettrica, ma in cui il peso dello Stato italiano e dei lavoratori italiani è drasticamente diminuito. Le più importanti hanno il baricentro negli Stati Uniti o nelle potenze economiche, politiche e militari maggiori. La composizione della proprietà, però, cambia poco il modo di funzionare. Quando intorno ad un progetto si raccoglie una massa sufficiente di soldi e di potere, si avvia un processo di cooptazione, organizzazione, pubblicità – talora, ma non sempre, immagino, corruzione – che coinvolge l’opinione pubblica e trasforma una scelta arbitraria, talora dannosa, persino criminale in qualche sua parte, in una necessità oggettiva.

Due casi recenti di contestazioni in ritardo, considerate irrealistiche e provinciali (not in my backyard) dalla grande stampa, guardate un po’ da vicino, possono consentire di aggiungere qualche dettaglio alla considerazione generale.

F35. L’arma più costosa mai costruita

 Il titolo è quello dell’articolo di apertura, di Daniel Soar, del numero del 30 marzo della “London Review of Books” (https://www.lrb.co.uk/v39/n07/contents) da cui prendo le citazioni e i dati non già disponibili sulla grande stampa e negli opuscoli dei movimenti che si sono opposti all’acquisto di questo aereo da battaglia costosissimo e forse inefficiente, di cui in Italia si costruisce un particolare delle ali.

Oggi l’aereo si presenta come una necessità perché è in grado di decollare verticalmente e perciò di essere utilizzato sulla portaerei Cavour, troppo piccola (un quarto delle portaerei americane classe Nimitz) e perciò troppo corta (220 metri di ponte di volo), in sostituzione degli Harrier a decollo verticale attualmente imbarcati, che non superano la velocità del suono. C’è stata una discussione pubblica alla fine degli anni novanta sul costruendo aereo europeo successore del Typhoon, che è evaporato con un cambio di governo. Da dove spunta l’F35?

Soar comincia, giustamente, dalla enormità delle cifre complessive: “Durante l’intera vita del progetto, gli Stati Uniti spenderanno 1.500 miliardi di dollari per progettare, costruire e tenere in efficienza 2500 aerei per se stessi: abbastanza da cancellare l’intero debito degli studenti americani, o pagare la sanità per tre anni agli americani poveri, o costruire un muro che faccia quattro volte il giro della Terra.” Come si è arrivati a decidere una spesa così ingente e su un progetto così dubbio?

Il progetto nacque sotto l’amministrazione Clinton, con l’obbiettivo di costruire un aereo utilizzabile dall’aviazione, dalla marina e dai marines, che avesse un raggio di intervento ampio (500 km), che fosse superiore in combattimento a tutti i prevedibili modelli russi, cinesi, delle altre potenze. Concorse alla gara iniziale, la McDonnell Douglas, con ottimi precedenti (F15, F/A18), ma perse, a causa di un progetto troppo innovativo. Vinse la Lockeed. A quel punto cominciarono i problemi e i ritardi. “L’aereo era troppo pesante, troppo complicato, troppo impegnato ad essere troppe cose per troppi – e maledettamente troppo costoso”. Il senatore dell’Arizona John McCain (già sconfitto da Bush alle primarie repubblicane, poi sconfitto da Obama per la presidenza, ma certo non l’ultimo venuto) lo definì “una tragedia e uno scandalo”, come, del resto, ha fatto Trump in campagna elettorale e da presidente eletto. Perché il progetto va avanti lo stesso (i primi due esemplari sono stati consegnati con grande pompa ad Israele, che ha anche lasciato intendere di averli già usati per un attacco/sfida in Siria)?

Perché “un progetto enorme produce un numero enorme di posti di lavoro e la Lockeed opportunamente ha fatto in modo che nessuno sia rimasto a bocca asciutta. Ci si scherza su chiamando questo ‘ingegneria politica’: per tutti i suoi bulloni, cuscinetti, alberi, condotti e tubi – oltre che per le sue fibre ottiche, sensori, radar e computer di bordo – il programma F35 coinvolge 1200 fornitori in 45 Stati che generano 40.000 posti di lavoro nel solo Texas.”

Ci vuole molto coraggio per opporsi in Parlamento a questa manna. Non per nulla, osserva Soar, McCain è senatore dell’Arizona, che ha molte commesse militari, ma non per l’F35.

“Aiuta parecchio – prosegue la spiegazione – che molti acquirenti dell’aereo abbiano da guadagnare dal contratto qualcosa di più di qualche tonnellata di meccanica di precisione: la bellezza del progetto è che ognuno può portare qualcosa alla festa.” Nel Lancashire si fa una sezione della coda, ad Ankara si fanno circuiti, a Melbourne sistemi idraulici, cablaggi a Rotterdam, un pezzo della ali a Torino. Gli israeliani hanno avuto persino la possibilità di aggiungere nuovi sistemi informatici ai loro modelli. Perciò ogni critica incontra resistenze insuperabili. Il casco con le informazioni proiettate all’interno che dà una visione totale, avanti e dietro, sopra e sotto, costa 400.000 dollari? E che sarà mai! Anche ogni missile costa 400.000 dollari, e si distrugge nell’uso.

Ma l’aereo regge il confronto con i diretti avversari? Certo il Sukhoi Su-35 è più veloce e può persino sfuggire a qualche missile, e il vecchio Eurofighter è più agile. Ma l’F35 ha il vantaggio del sistema di difesa globale americano, del controllo dei satelliti, dei missili lanciati da oltre l’orizzonte. Del resto ricordiamoci che Luttwak ha sostenuto che tutte le portaerei americane sono inutili perché sono affondabili da un solo missile. Ma, conclude Soar, “le macchine, una volta costruite, sono qui per restare, ed anche gli aerei da combattimento lo sono. L’industria delle armi esiste per costruire e spendere, costruire e spendere. È questa la funzione degli armamenti.”

La Trans Adriatic Pipeline

Il caso del gasdotto che dovrebbe approdare – che approderà – a Santa Foca, in Puglia, è più modesto. La somma di partenza, il valore del giacimento di Shah Deniz, sotto il Caspio, tra 50 e 500 metri di profondità, è forse di 300 miliardi di euro, che si ricava moltiplicando le riserve che si trovano in rete per un prezzo medio su alcuni anni. Al consorzio che gestisce il campo partecipano al 28,8% la BP, che non è nata ieri, al 19% la TPAO, dello Stato turco, al 16,7% la SOCAR, azera, al 15,5% la Petronas, malese, al 10% la LUKoil, russa e la NIOC, iraniana, la cui fondazione, in origine, fu impedita dal colpo di Stato anglo-americano che rovesciò Mossadegh. Non si tratta né di un aggiramento della Russia, né di un boicottaggio dell’Iran.

È stata definito “gasdotto dei dittatori”, ma il capofila è una delle più note multinazionali del petrolio, che almeno una dittatura, a suo tempo, ha contribuito a stabilire e con molte altre ha utili sinergie da sempre. L’Espresso, in due puntate, di Paolo Biondani e Leo Sisti, ci ha raccontato la storia finanziaria del gasdotto, che coinvolge molti personaggi dubbi, come “Raffaele Tognacca … un manager che ha fatto anche politica con i liberali in Canton Ticino … ha lavorato per anni tra Roma e Genova come dirigente del gruppo italiano Erg, … ha diversificato dal petrolio agli impianti eolici e solari soprattutto al sud. Tornato in Svizzera, ha aperto con la moglie la società finanziaria Viva Transfer, che un’indagine anti-mafia italiana ha additato come una lavanderia di soldi sporchi.” O come Zaur Gahramanov, dirigente della TAP Ag svizzera, implicato nei Panama Papers. O il doppio ruolo di Giuseppe Patroni Griffi di membro del governo che ha approvato il Tap e membro del Consiglio di Stato che ha approvato la Valutazione di impatto ambientale.

Ma tutto questo è, per così dire, aggiuntivo. Quando c’è un grande giacimento tutte le cifre diventano impressionanti: la nave per la perforazione, costruita in Malesia (patria della Petronas) e montata nel Caspio, costa tre quarti di miliardo di dollari. Il gasdotto ne costa 45, ecc…

Vorrei solo sottolineare che, quando nel processo politico si genera (viene prodotto da un gruppo potente) un progetto multimiliardario, il progetto comincia a vivere di vita propria e si separa del tutto dal problema che, in origine, doveva affrontare. Ce lo ricordava Alessandra Zendron, proprio ad un seminario organizzato da “Una città”, a proposito del TAV. Si potrebbe ripetere per il ponte di Messina. Dovremmo essere attenti al momento della decisione, prima che sia troppo tardi. Perciò dovremmo diffidare della fusione tra Anas, che è, e dovrebbe restare, un Ente pubblico, e Fs, che sono in parte private; e dovremmo trasalire quando leggiamo, su “Affari e finanza” del 14 aprile, a firma di Fabio Bogo: “Qualche volta l’Italia prova a diventare più grande, con le sue aziende impegnate in progetti economici coraggiosi. È il caso di Atlantia, che tratta con la spagnola Abertis un’operazione capace di creare il gigante europeo delle autostrade.” L’Italia?!

Articolo pubblicato dal mensile Una Città