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Evoluzione atomica, la pericolosa carta ucraina

L’attacco ucraino arriva al culmine di un processo di trasformazione della guerra e della politica che rende molto più imprevedibile il calcolo strategico. La guerra avanza, ed è più che mai necessario evitare narrazioni mediatiche che la sostengono, a cominciare dall’illusione di sconfiggere definitivamente Putin.

You don’t have the cards – gli ha strillato Trump nello Studio Ovale. Dicono gli ucraini che, alla fine, qualche carta Zelensky l’aveva. E che loro hanno mostrato di saperla giocare da soli, senza il servile inchino richiesto da Vance.

Sarebbe meglio evitare ogni enfasi sensazionalistica: chiamare il duro colpo inferto a sorpresa alle forze aeree di Mosca ‘la Pearl Harbor russa’ significa amplificare la retorica revanscista e bellicista di entrambe le parti.

La storia ci insegna che le guerre iniziano in un determinato luogo e in un certo modo, ma poi evolvono altrove e sotto altre forme. Pearl Harbor fu un attacco non provocato che il Giappone imperiale lanciò contro la base americana alle Hawaii per mettere gli Usa preventivamente fuori combattimento nel Pacifico.

Ispirato dal successo devastante dei britannici nel colare a picco la Supermarina fascista nel porto di Taranto, l’attacco giapponese aprì una parabola bellica che si concluse con le bombe atomiche americane su Hiroshima e Nagasaki.

La Russia ha iniziato a invadere l’Ucraina nel 2014, per poi scagliare nel 2022 un’offensiva su larga scala. Alla luce dello ius in bello, l’azione di Kyiv sui bombardieri e i missili che bersagliano le città ucraine non può essere definita una provocazione. Tuttavia, il problema esiste: alimentate dalle stolte litanie del si vis pacem para bellum e della peace through strength, le dinamiche di escalation sono entrate in una fase critica.

Secondo i trattati sul controllo degli armamenti, le superpotenze devono mantenere i bombardieri strategici ben visibili ai satelliti per consentire il funzionamento dei meccanismi di allerta. Facendo leva su questa garanzia per acquisire invece i propri bersagli, l’attacco ucraino non è altro che un ulteriore episodio del processo di smantellamento dell’architettura di sicurezza costruita nel tempo per garantire la pace.

Nonostante recenti dichiarazioni sulla necessità di riallacciarlo, l’interruzione del dialogo sulla stabilità strategica tra Usa e Russia nel 2022 mostra come tale processo abbia radici profonde. L’erosione del regime di controllo sugli armamenti è iniziata l’indomani dell’attacco dell’11 settembre 2001, quando i repubblicani Usa, considerando la Russia una potenza degradata, ignorarono le proteste del Cremlino riguardo alle proprie iniziative missilistiche.

Oggi, però, i calcoli della deterrenza sono complicati dallo sviluppo tecnologico, con modernizzazione degli arsenali, nonché dalla moltiplicazione delle superpotenze nucleari e dalle crescenti tensioni fra di esse. Non solo, dunque, la retorica atomica russa contro l’Occidente, ma anche l’escalation bellica fra India e Pakistan e le ‘conseguenze devastanti per la regione e per il mondo’ con cui, giorni fa, il Segretario alla Difesa Usa, Pete Hegseth, ha descritto la ‘imminente minaccia’ di un’invasione cinese di Taiwan.

L’attacco ucraino mina la fiducia russa nella propria sicurezza: a differenza del suo capo negoziatore Mendinski, Putin ha minimizzato, affermando che la Russia ha perso solo 4% dei propri bombardieri strategici, contro il 34% di cui parlano gli ucraini. Non sappiamo cosa sia vero, né quale risposta seguirà. Ma è chiaro che un attacco diretto sulla capacità di deterrenza russa pone il Cremlino davanti ad una scelta sulle priorità; e che, comunque, da domani sarà difficile ispezionare ovunque ogni carico merci per timore di nuovi attacchi. Zelensky persegue l’obiettivo di far sentire alla Russia il peso delle proprie perdite – ieri tra l’altro con un attacco ha colpito per la terza volta lo strategico ponte di Kerch in Crimea.

E mentre è costretta ad arretrare sul fronte di Sumy, l’Ucraina sferra il colpo, alla vigilia, a Istanbul, di una round negoziale destinato a fallire, con gli Usa che oscillano continuamente fra la minaccia di misure sanzionatorie e quella di lasciare il tavolo. Un giorno attaccano Zelensky e il giorno seguente chiamano Putin pazzo. Galvanizzata dall’esito della propria operazione speciale, la delegazione ucraina si è presentata a Istanbul impettita e in uniforme: dopo un’operazione che alza la posta e, dicono, ‘entrerà nei libri di storia’, sanno che sarà difficile per gli americani defilarsi, e attendono l’esito della visita di Merz a Washington.

La difesa ucraina, che aveva esordito con i Javelin contro le colonne dei carri invasori, oggi si concentra su droni sempre più evoluti, il cui impatto dirompente non può essere sottovalutato. Il confronto strategico e le linee di ingaggio tattico stanno cambiando in tutte le guerre, evidenziando problemi per i grandi e costosi apparati militari basati su una capacità di fuoco (forze aeree e artiglieria) concentrata: essi mostrano difficoltà nel fermare droni che, a loro volta, rafforzano la rilevanza di fanteria leggera e guerra elettronica.

Intanto, al di qua di un confine europeo fatto di nuove barriere e trincee, una Polonia sempre più militarizzata elegge, grazie al voto dell’estrema destra nazionalista (anti-Ue, per molti versi anti-ucraina e filo-russa) un presidente che è anche capo delle forze armate: parteciperà alle riunioni della Nato e di fatto avrà potere di veto sull’azione del governo guidato da Tusk, di cui cercherà la caduta.

L’attacco ucraino arriva al culmine di un processo di trasformazione della guerra e della politica che rende molto più difficile e imprevedibile il calcolo strategico. Da anni ormai gli analisti sono interpellati da media in cerca di sensazione per sapere se siamo di fronte a una svolta negoziale, a una Caporetto o una Pearl Harbor: la realtà è che, dopo che Trump ed accoliti si sono illusi di poter portare Putin a desistere dalla richiesta di resa incondizionata ucraina, la guerra avanza ancora, ed è più che mai necessario evitare di fornire narrazioni mediatiche che la sostengono.

Articolo pubblicato da il manifesto del 4 giugno 2025