ll rapporto dello IEA mette insieme gli impegni degli Stati sulle energie rinnovabili e prospetta un futuro non brillante ma non catastrofico. Il crollo dei prezzi dell’oro nero non aiuta. Ma il momento è buono per smettere di sostenere con detassazioni e aiuti la produzione di idrocarburi
La guerra in Siria rischia ogni giorno di diventare mondiale in senso proprio, non solo per il numero degli Stati che mandano i loro aerei a bombardare obbiettivi di volta in volta ritenuti nemici. Solo i cinesi non ci sono perché troppo impegnati a costruire basi e a farsi dispetti con gli americani nel Mar Cinese Meridionale. Ci sono centinaia di migliaia di morti; profughi; rischi di reazioni a catena nell’area più ricca di petrolio in senso stretto al mondo. Il petrolio però, ritenuto in passato causa, mezzo e fine di molte guerre, sembra assente dai commenti. Il prezzo è la metà di un anno fa; ce n’é troppo, grazie alla minor crescita dei consumi, al gas, al fracking, alla guida a distanza delle perforazioni, alle nuove scoperte; tutti pensano all’ecologia (la International Energy Agency ha dedicato il Rapporto 2015, Energy and Climate Change, alle energie rinnovabili, vedi link). Il petrolio sembra un lago tranquillo: olio, appunto, sulle acque agitate del pianeta.
Non è proprio così. Non solo perché il possesso e lo sfruttamento dei campi locali è uno degli obbiettivi e uno dei mezzi di finanziamento degli eserciti regolari e irregolari tra Siria e Iraq (il contrabbando verso la Turchia con le autobotti tra la prima e la seconda Guerra del Golfo; l’attuale uso dei campi dello Stato islamico). Quasi tutti gli Stati del Golfo che contano, l’Arabia Saudita, cui viene attribuito il 16% delle riserve mondiali di petrolio, l’Iran, che ha le maggiori riserve di gas del mondo, il Kuwait, ecc. sono, almeno in parte rentier states, Stati che ricavano la maggior parte del proprio Pil dalla rendita petrolifera (vedi link). (Davis, antropologo, ha usato, nello stesso senso, il concetto di hydrocarbon society; si usa anche new rentier state per indicare quegli Stati che con il petrolio sono diventati potenze finanziarie mondiali e ricavano la rendita non solo direttamente dal petrolio ma anche dalla finanza.) È in parte un rentier state la Russia, che ricorre alla forza militare di cui di nuovo dispone quando la riduzione del prezzo del petrolio e le sanzioni la mettono alle corde.
Cause ed effetti del basso prezzo del petrolio
Perché il prezzo del petrolio si è dimezzato? Perché la domanda è caduta e i sauditi non hanno voluto o potuto ridurre la propria produzione in modo da mantenere il prezzo. Il resto dell’Opec (di cui fanno parte paesi, come il Venezuela, che per il dimezzamento rischiano la bancarotta) si è adeguato, perché non ha potuto fare altrimenti. Si può raccontare l’accaduto con toni molto diversi. I russi di Lukoil parlano di guerra dei prezzi, a loro danno.
La previsione a medio termine (vedi link) dello IEA (International Energy Agency, con sede in Europa e fini ecologici) è impersonale e, relativamente, armonica. “La crescita dell’offerta potenziale fino al 2020 è sensibilmente più bassa di quella prevista fino ad ora perché il prezzo basso riduce gli investimenti. Malgrado il crollo dei prezzi del petrolio, tuttavia, si prevede una crescita dell’offerta globale… per 2/3 da produttori non-OPEC. E’ interessante che si preveda un aumento dell’offerta dai giacimenti impermeabili americani la cui produzione inizialmente si ridurrà a poca cosa ma poi riacquisterà vigore… La Russia, che deve affrontare la tempesta perfetta del crollo dei prezzi, delle sanzioni internazionali e della svalutazione della moneta finirà con l’essere il maggior perdente nel settore. I tagli colpiranno progetti molto costosi in acque profonde in Africa Occidentale e altrove… Alla fine la produzione non convenzionale nordamericana risulterà più importante di quanto non si pensasse fino ad ora.” Perché i prezzi risaliranno, pensa il lettore, ma quando alcuni progetti molto costosi e rischiosi saranno stati abbandonati. Il Rapporto commenta che è come se la modulazione della produzione per mantenere alto il prezzo quando la domanda cade, affidata fino ad ora all’Arabia Saudita, fosse stata questa volta realizzata dalla caduta (temporanea) della produzione non convenzionale nordamericana.
Al momento la caduta della produzione da fracking (che si è diffuso in tutto il mondo) non è ancora evidente. Ma la durata nel tempo dei pozzi messi in produzione con questo tipo di tecnologia non supera l’anno. E’ come se nel complesso del campo impermeabile la frantumazione della roccia ricavasse dei cilindri, delle bottiglie, permeabili, che si svuotano rapidamente; per produrre ancora bisogna frantumare altre bottiglie, perforare altri pozzi. Quello che si vede benissimo è la caduta dei pozzi nuovi in tutti i giacimenti maggiori. Le nuove perforazioni si riducono ad un terzo (vedi link). A questi prezzi si può perforare solo dove le prospettive sono ottime (e infatti la produzione per pozzo sale).
E il gas? Il gas va un po’ per conto suo perché il mercato è segmentato. Mentre il petrolio si lascia mettere in grosse navi da mezzo milione di tonnellate e portare dove si vuole, oltre che viaggiare negli oleodotti, il gas, per varcare gli oceani deve essere compresso, raffreddato (- 160 °C) e poi rigassificato. Perciò la Russia, raggiungibile con gli oleodotti, ha il monopolio in Europa. Sono però in arrivo massicci investimenti in rigassificatori (in Australia, per esempio).
Chi ci rimette
I paesi che si preparavano a sfruttare giacimenti molto grandi e molto difficili, per la profondità e la cattiva qualità del petrolio. Un caso importante, anche perché se ne vedono già le conseguenze politiche, è il Brasile. Sulla Petrobras c’è un ottimo e scaricabile dossier del “Guardian”. Il giacimento si trova davanti alle spiagge di Rio de Janeiro e, nella parte meridionale, al largo di San Paolo, dove l’Atlantico ha due chilometri di profondità. Raggiunto il fondo, bisogna perforare tre chilometri di roccia e poi due chilometri di sale. A 7 chilometri dalla superficie c’è il giacimento, molto grande ma con un olio pessimo: acido, solforoso. Stando al dossier del Guardian, non solo la perforazione ma anche la raffinazione è stata programmata in mare (l’Atlantico è di tutti ma Ipanema è proprio dei cittadini di Rio). Gli investimenti sono stati fatti, le navi, gli impianti, i serbatoi, i terminali sono stati costruiti. La Petrobras è l’azienda più indebitata del mondo. Ma, per i pozzi già in funzione, l’azienda è in rosso dal momento del crollo dei prezzi. I pozzi nuovi costano (si legge) 300 milioni di dollari l’uno. Nessuno è così pazzo da perforarli ora. Ma intanto l’acido corrode e gli interessi si pagano. Per chi è attento ai rischi e ricorda il Golfo del Messico occorre ricordare che a settemila metri ci sono, più o meno, 700 atmosfere, che le differenze di pressione che si possono creare sul fondo sono di centinaia di atmosfere, che a 2000 metri non può lavorare nessun essere umano. La Petrobras affonda e il Brasile della Roussef segue a ruota.
Quella del Venezuela è una storia potenziale. Il giacimento nella valle dell’Orinoco, che si estende anche in mare è enorme e fa scrivere che si tratta delle maggiori riservi di idrocarburi del mondo. Ma il minerale che si trova laggiù è densissimo, più pesante dell’acqua (8 gradi API; il minerale di Gela era 7,5; l’acqua è 10 perché i gradi API diminuiscono al cresce della densità). Quando Chavez nazionalizzò il petrolio la Exxon sostenne che quello non era petrolio ma catrame. Il giudice, giustamente, gli diede ragione. Anche quello di Gela era catrame; nessuno ha mai provato a farne benzina. Chavez estese la nazionalizzazione a tutti gli idrocarburi. La Exxon si è messa d’accordo con la Guyana ex-britannica per perforare in mare in una zona di dubbia attribuzione. Catrame o non catrame, evidentemente, qualcosa vale, se si hanno soldi e credito per aspettare tempi migliori.
Le energie rinnovabili
Il bel rapporto dello IEA mette insieme gli impegni degli Stati sulle energie rinnovabili e prospetta un futuro non brillante ma non catastrofico. Certo il crollo dei prezzi non aiuta, perché le rinnovabili sono competitive a 100 dollari al barile, non a 50. Il Rapporto sottolinea che, dal punto di vista dell’ambiente e degli usi, non esiste un prezzo uniforme. Bisogna vedere dove e per cosa si confronta. Ovviamente, per chiunque non sia dirigente della Exxon e delle sue sorelle, è proprio così. Ma il crollo dei prezzi, nell’immediato, non aiuta. Il momento è buono però per smettere di sostenere con detassazioni e aiuti la produzione di idrocarburi. Speriamo che, un po’ alla volta comincino ad usarli come materia prima e non come combustibile. C’è spazio per distinguere. Speriamo che il futuro sia davvero non catastrofico, almeno per le guerre dei prezzi. Su quelle vere le cose vanno molto peggio.
Link utili
https://www.iea.org/Textbase/npsum/MTOMR2015sum.pdf
http://www.eia.gov/petroleum/drilling/
http://www.theguardian.com/environment/ng-interactive/2015/jun/25/brazils-gamble-on-deep-water-oil-guanabara-bay