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Elkann-Exor, prendi i soldi e scappa

Exor cede il volante ai francesi e i giornali, appena comprati, annuiscono. In tre vicende intrecciate, la concentrazione editoriale Repubblica-La Stampa ha accompagnato la vendita dell’ex Fiat a Peugeot e preme per l’aiuto del governo italiano.

Grande delusione di tutti noi lettori di giornali. Speravamo – o forse eravamo sicuri – che la fortuna degli Agnelli, trasfusa nell’ampia e comoda piattaforma galleggiante Exor varata dai loro discendenti Elkann, fosse una vera e propria imbarcazione di salvataggio per tanti proprietari di giornali, quell’avventurosa, malandata flotta di schifi corsari ormai destinati al naufragio.

Con il denaro dei giovani eredi, gli imprudenti editori sarebbero rimasti a galla e avrebbero raggiunto, governando con timoni improvvisati e velacci di fortuna, una spiaggia protetta. Tanto da leggere e per molti anni avvenire, nonostante la crisi della carta stampata. Non è stato così. Non solo l’affare dei giornali è andato in testa-coda, ma anche il soprastante affare della finanza e delle auto che aveva il compito di garantire il successo degli editori e la continuità della libera stampa, è molto turbato. Ma andiamo con ordine.

Un Gedi per tutti

Qualcuno ricorderà che in una puntata precedente delle nostre avventure di capitale (L’ascesa di Elkann Exor, monopolista dei giornali in perdita, pubblicata su questo sito il 27 aprile) avevamo segnalato l’accordo tra grandi (?) editori di giornali per confondere le azioni, quelle buone e quelle così così , in un’altra nuova società Gedi. L’antefatto era infatti un accordo del 2016 tra Gedi (Gruppo EDItoriale con la Repubblica e alcuni – allora una decina, oggi 14 – quotidiani locali) facente capo alla Cir dei De Benedetti, in testa Carlo, il padre, da un lato, e dall’altro Itedi (appartenente a Fca, l’impresa automobilistica del gruppo Agnelli-Elkann/Exor).

Itedi (che guidava La Stampa e il Secolo XIX) e Gedi avevano strutture editoriali differenti – bilanci basati soprattutto sulla vendita di copie nel caso di Itedi, dovute probabilmente alle rinomate cronache locali e cittadine, liguri e torinesi; spazi pubblicitari prevalenti per Gedi. Anche le entrate erano differenti, con un rapporto da uno a tre; e forse per questo avevano deciso come dividersi le spoglie.

La nuova Gedi, avendo ormai assorbita Itedi, contava di ricomprare le azioni dei soci minori conosciuti e poi concludere con il delisting, cioè togliere Gedi dalla Borsa. Ricomprata una parte consistente delle azioni in mano agli editori fratelli Cir-De Benedetti, e rintuzzato l’estremo tentativo di Carlo De Benedetti di tornare in gioco, Exor, finanziaria della famiglia Elkann, già Agnelli, si trova – all’avvento di coronavirus – con la maggioranza assoluta del capitale. Non gli rimaneva che liquidare i soci speciali rimasti, eredi di Caracciolo (Espressola Repubblica) e di Perrone (Il Secolo XIX, dopo lo scambio con Il Messaggero una storia di quando nei lontani anni ’70 era Montedison-Cefis a fare i giochi). Raggiunti così i due terzi del capitale, Exor può ora togliere Gedi dalla Borsa senza troppi traumi.[1]

Finanza e giornali

Come che sia, veniamo al sodo. Il fatto grave è che Covéa si tira indietro. Covéa, per chi se ne fosse dimenticato, è un forte gruppo assicurativo francese, molto interessato, in gennaio, all’acquisto di Partner Re per nove miliardi di dollari.

Cosa hanno a che fare Covéa e Partner Re con la stampa italica alta di gamma? Buona domanda, ma facile risposta. Covéa è un gran nome nel sistema assicurativo francese; è una mutua; per migliorare il suo asset, Covéa era intenzionato a rilevare per quella cifra Partner Re, gruppo americano di riassicurazioni, appartenente a Exor. E perché Exor l’aveva comprato, facendo anzi gran battaglia a Wall Street e dintorni e pagando, per assicurarselo, 6 o 7 miliardi nel 2015?

Probabilmente si trattava dell’ultimo suggerimento di Sergio Marchionne. E perché adesso voleva rivenderlo, dopo meno di un lustro? Forse perché era l’ultimo suggerimento di Sergio Marchionne. Questi aveva un’idea della finanza e dell’impresa probabilmente dissimile da quella degli attuali capitani di Exor. A fine aprile però c’era il rischio di non vendere più Partner Re a meno di una riduzione di un paio di miliardi; eventualità, quest’ultima esclusa, sdegnosamente, da John Elkann, capofamiglia.[2]

Prima di ricordare il secondo fulmine a ciel sereno caduto su Exor, val la pena di riferire delle ricchezze di Exor, con le quali essa prevede di sostenere i quindici quotidiani traballanti oltre che un gregge di Agnelli e agnellini superstiti. A conti fatti dal Sole 24 Ore, Exor ha il 100% di Partner Re che vale 9 miliardi di euro, o forse 7, secondo i francesi; il 23% di Ferrari per 7 miliardi di controvalore; il 28,7% di Fca, controvalore 6,7 miliardi; il 26,9 % di Cnh, cioè (Iveco, trattori, macchine movimento terra e così via) che vale 4 miliardi ; la squadra Juventus al 62% (con annessi e connessi) che vale 1,2 miliardi; e tutto il resto che vale, tutto insieme, 655 milioni di euro.

In quest’ultima milionata c’è di tutto; per esempio i cento o duecento milioni di Nuova Gedi (o come si chiama). Questi ultimi sono milioni abbastanza ben spesi, secondo certi interpreti: è il controllo di quel poco di potere romano e nazionale e milanese e torinese che con i media si possa raggiungere e orientare. Qui cade il secondo fulmine: Exor ha in corso una trattativa con i francesi di Psa (Peugeot, Citroen, Opel) per fare una fusione e sistemare finalmente FCA. La famiglia Peugeot ha ormai solo il 12% del capitale di PSA; altrettanto hanno anche lo stato francese e i cinesi di Duangfong; di questi anzi si vocifera che vogliano venir via.

Arrivano i francesi

Come spesso avviene, due imprese in procinto di fondersi osservano con assoluto, genuino stupore di valere valori identici e di scegliere distribuzioni di dividendi agli azionisti del medesimo importo: un miliardo abbondante ciascuna. Ci sono particolari, inezie: Fca distribuirà un dividendo speciale di 5,5 miliardi ai soci, mentre Psa toglierà dal mucchio da condividere un gruppo di componentistica, Faurecia, da quotare o ripartire tra gli azionisti.

Una volta sistemati questi due aspetti di dettaglio, le due imprese valgono lo stesso. Consigli di amministrazione paritetici, equa divisione degli incarichi. C’è però una scheggia trascurata che vale per entrambe le società automobilistiche e che diventa in pochi giorni di trambusto Covid-19, una trave. Le imprese che distribuiscono dividendi ai soci non possono accedere agli aiuti pubblici (o prestiti, o finanziamenti, o rimborsi, o quello che sia).

Se hanno euro per i soci, allora non hanno diritto all’intervento pubblico. Il fulmine numero due è arrivato. I dividendi di un miliardo su per giù per ciascuna impresa, non verranno distribuiti. Un sacrificio capitalistico all’altare di Covid-19. Non è abbastanza per il fisco di Roma e di Parigi. I fischi dei due paesi sono stati informati che per pareggiare i conti tra loro hanno preso decisioni. Per pareggiare i conti con Psa, Fca intende distribuire 5,5 miliardi, mentre Psa intende vendere o distribuire ai suoi vecchi soci le azioni Faurecia che sono Peugeot al 49%. Quel che riguarda i conti francesi, sarà il governo francese a regolarli, e valuteranno poi gli elettori, se ne resterà memoria. L’idea di salvare Faurecia dalle grinfie dei soci italo-americani sarà popolare, avrà forse successo.

Dal lato italiano, non è proprio così. Exor da un lato distribuisce 5,5 miliardi ai soci e a conti fatti ne tiene quasi due per sé; informa che si tratta di applicare il “granitico” accordo con i francesi che è impossibile far saltare. Ci sono poi i 6,5 miliardi che si accinge a ricevere da Banca Intesa, sulla base di una garanzia Sace e quindi del Ministero del Tesoro, nell’intenzione di salvare insieme imprese e lavoro. Exor, il finanziamento bancario, la copertura pubblica, il lauto dividendo incorporato, il patto granitico con i francesi (dice Elkann: “il dividendo non si tocca, per l’accordo Fc-Psa è scritto nella pietra”), la sede all’estero e così le imposte di Fca, tutto diventa argomento di discussione.

Non si discute troppo del fatto che sono i francesi a comprare Fca, con una valutazione della differenza di valore di Psa e Fca tra sei e sette miliardi, con calcoli che Mediobanca e i suoi pari sanno ben fare. In Borsa Psa vale 22,6 miliardi e Fca 18,5. Sono infatti i francesi a comandare, mettendo al comando il “loro” Carlos Tavares, occasionalmente nato portoghese, e stabilendo che il suo successore sarà francese. Il consiglio di amministrazione sarà a 11, cinque dei nostri e cinque dei loro con Tavares a comandare come undicesimo. Prevista una partecipazione del sindacato.

Chi, come e quando? non è spiegato, ma tanto basta a fare fumo. Il “nostro” Elkann presidente ed è tutto quello che chiede. Vuole apparire e sparire. Il tavolo di comando sarà nei Paesi Bassi. All’estero, scegliendo la migliore offerta, si pagheranno le tasse.

Stampa e propaganda

Le discussioni si fanno un po’ in politica cioè in Parlamento e molto in politica cioè nei media, nei giornali. La libertà di stampa è sancita dalla Costituzione che ingenuamente si limita così all’articolo 21: “la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni e censure”, trascurando tutti gli altri che possono limitarla.

Più avanti la Costituzione mette il becco su chi paga cosa e quanto. Infatti, all’articolo 53 spiega: “tutti sono tenuti a contribuire alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” e trascuriamo il resto. Difficile e rischioso comprare partiti, ma comprare giornali si può, anzi, si deve, con la scusa che si vuole salvarne la sopravvivenza, il primo grado della libertà.

La discussione sull’editore puro non è più di moda, anche se c’è qualche retrogrado che la tiene in memoria. Così si precisa meglio la certezza exoriana di poter assumere in proprio, con nonchalance (visto che il “francese” è di moda), i deficit dei grandi giornali Gedi e godere in cambio di un po’ di buona stampa.

Certo Exor pagherà, ma i giornali pagheranno la loro parte. Ci saranno licenziamenti, di cronisti, di prime firme, di tipografi, di grafici, di operai, di portatori, di edicolanti, di rider. “È la stampa bellezza e tu non puoi farci niente”, come diceva Humphrey Bogart. Qualcuno ha già capito e scritto di conseguenza. Altri hanno protestato, alzato la voce. Liberi di andarsene i giornalisti che non sono d’accordo.

Carlo De Benedetti non si propone un nuovo giornale, Domani? Scrivano là i giornalisti in disaccordo, domani. Facciano là le loro campagne. La Costituzione prevede la libera stampa. Possiamo immaginare che nonostante le mascherine che ostacolano il normale discorso vocale, i signorini di Gedi abbiano protestato ad alta gesticolazione. Si saranno sentiti comprati e venduti.[3] Ormai era tardi, però. Era già l’ora della merenda.

Note

[1] Trascuriamo le complicazioni, o meglio le raffinatezze che non sarà un rozzo sbilancista a comprendere, tanto meno a spiegare: su Prima Comunicazione di aprile sono indicati quattordici quotidiani di “Gedi News Network”, dal Corriere delle Alpi a La Stampa e una quindicesima testata, la Repubblica, attribuita a “Gedi Gruppo Editoriale”.

[2] Se vi capitasse di vedere la foto dei dirigenti di Covéa sapreste subito a chi tenere nella controversia. Sono cinque persone normali, tre uomini, due donne, con facce normali e normali sorrisi. Tutte persone che non guadagnano cento volte di più degli impiegati di Covéa o degli assicurati e mutuati.

[3] Il comunicato dei giornalisti di Repubblica: “I giornalisti di Repubblica, riuniti in assemblea a seguito dei servizi pubblicati sul caso Fca, ritengono che occorra la massima cautela e un surplus di attenzione quando si trattano argomenti che incrociano gli interessi economici dell’azionista. Il patto che il nostro giornale ha stretto 44 anni fa con i suoi lettori è quello dichiarato dal fondatore Eugenio Scalfari nel suo primo editoriale del 1976: “Repubblica è un giornale indipendente ma non neutrale”. Che significa libero da qualsiasi influenza che non sia garantire una informazione di qualità, autonomo nella lettura di ciò che accade in Italia e nel mondo, con una precisa collocazione politica. Valori in cui la Redazione si riconosce ancora oggi e che continuerà a difendere da qualsiasi ingerenza, interna ed esterna. L’assemblea respinge infine gli attacchi, spesso interessati, che tentano di attribuire al giornale, in questa nuova fase, manovre politiche di parte, legate agli interessi dell’editore, e respinge il tentativo di accreditare uno snaturamento dell’identità democratica e progressista della testata. Per queste ragioni l’assemblea dei giornalisti conferma la sua fiducia al Cdr e si impegna a vigilare sull’autonomia e l’indipendenza di Repubblica”.