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Economia politica della sicurezza europea

La sicurezza degli europei è messa in pericolo dal cambiamento climatico, dall’emergere di forze neofasciste, dalla guerra commerciale Usa e da possibili minacce militari. Il piano ReArm EU non risolve neanche i cruciali problemi dell’interoperabilità delle forze armate e degli approvvigionamenti.

Il benessere degli europei è minacciato da almeno quattro grandi fenomeni, profondamente interconnessi fra loro: il cambiamento climatico; l’emergere di forze politiche sovraniste, neofasciste, persino con tendenze neonaziste; la guerra commerciale dichiarata dall’amministrazione Trump; possibili minacce di carattere militare. Da quest’ultimo punto di vista, è evidente che siamo di fronte a cambiamenti profondi e pericolosi, e che la minaccia militare alla sicurezza europea non può essere solo esorcizzata, da qualsiasi parte essa provenga (si pensi alla questione della Groenlandia). Tuttavia, il ReArm Europe rappresenta una risposta errata, per molti motivi.

Due premesse. Stando alle più autorevoli analisi, la capacità di difesa è oggi più che nel passato, strettamente collegata alle capacità scientifiche e tecnologiche di un Paese (comunicazioni satellitari, fotonica, fibre ottiche, droni, robotica) più che alla dimensione quantitativa delle sue forze armate. Ma la spesa per la ricerca europea è inferiore in molti Paesi, fra cui l’Italia, e frammentata a livello nazionale: non raggiunge dimensioni comparabili con quella americana. È l’insufficiente investimento in ricerca, conoscenza, tecnologia a determinare le potenziali minacce per i cittadini europei.

È poi acquisizione comune degli analisti della difesa europea (ripresa anche nel Rapporto Draghi) che il problema di gran lunga più importante sia rappresentato dall’inesistente interoperabilità fra le forze armate e dalla frammentazione dell’apparato produttivo, più che dall’assenza di produzione (33 imprese europee sono fra le prime 100 del mondo). Basti considerare la proliferazione di sistemi d’arma oggi in Europa, dove ci sono 20 tipologie di aerei da combattimento contro 7 americani. La quota della spesa collaborativa fra più Paesi europei, come mostrato da un recente rapporto è sistematicamente non superiore al 20%. Uno studio del Cifrel-Cattolica del 2020 (recentemente ricordato da Leonardi e Rizzo) stimava risparmi per 32 miliardi all’anno solo dall’accorpamento delle truppe e di 13, ulteriori, da appalti comuni per l’acquisto di armamenti; ordini di grandezza confermati da successive ricerche.

Che cosa propone il ReArm Europe (nome poi pudicamente trasformato in Readiness 2030), come meglio esplicitato nel  sulla difesa?

Il grande obiettivo è il riarmo dei singoli Paesi europei attraverso un massiccio investimento economico. Il Libro Bianco ammette che le spese degli stati membri per la difesa sono cresciute dal 2021 al 2024 del 31%, fino a raggiungere i 326 miliardi (1,9% del PIL), anche in connessione agli enormi sforzi per le forniture militari all’Ucraina decise dai Paesi europei. Tuttavia la Commissione ritiene che questo livello sia troppo basso, rispetto a USA, Russia o Cina. Ma è vero che l’Europa è così debole e la spesa così bassa? Bene ricordare che la complessiva forza economica dell’Europa (PIL a parità di potere d’acquisto, incluso il Regno Unito) è maggiore di quella degli Stati Uniti, anche se la spesa militare è più bassa rispetto al 3,3% del PIL americano. Rispetto alla Russia, il PIL europeo, anche tenendo conto del potere d’acquisto, è invece quasi 5 volte maggiore. La spesa per la difesa, se correttamente calcolata è in Europa nel 2024, del 58% superiore a quella russa, nonostante l’impennata di quest’ultima collegata all’invasione dell’Ucraina.

La Commissione propone di intraprendere quattro principali azioni.

La più importante è attivazione della clausola di salvaguardia nazionale del Patto di stabilità “in modo controllato, coordinato e vincolato nel tempo”. Ciò darà agli Stati membri “lo spazio per investire nella difesa, immediatamente e in modo sostanziale”. Una decisione di grande importanza, molto controversa; dato che il Consiglio e Commissione, al di là di quanto previsto nel caso eccezionale del NextGeneration EU, si sono pervicacemente rifiutati di introdurre nel Patto di stabilità qualsiasi esenzione, anche per le spese in conto capitale legate al Green Deal. Secondo le previsioni della Commissione, la misura potrebbe sbloccare fino a 650 miliardi. La Commissione sarebbe orientata a prevedere un periodo di attivazione della clausola di quattro anni, fino all’1,5% del PIL per ciascuno di questi anni.

Questo significherebbe per l’Italia destinare alla difesa circa 30 miliardi aggiuntivi all’anno, ogni anno; cioè, una cifra superiore al triplo di quanto si spende oggi per l’intero sistema universitario nazionale; con conseguente aggravio del deficit e del debito pubblico. Anche per le regole europee, la riduzione di altre spese pubbliche sarebbe inevitabile.

La spesa dei singoli Stati membri potrà tuttavia orientarsi anche verso l’acquisto di armamenti dall’estero, cioè in particolare dagli Stati Uniti, come sistematicamente avvenuto negli ultimi anni; la quota degli USA sull’import europeo delle forniture americane è fortemente cresciuta: per l’Italia è superiore al 90%. Difficile sostenere che questo renderà l’Europa più autonoma e sicura.

L’Italia, insieme a diversi altri Paesi europei, ha già dichiarato che non si avvarrà della clausola di salvaguardia. Ma in futuro potrebbero determinarsi ulteriori pressioni, anche in sede comunitaria: è bene ricordare che il 12 marzo solo per pochissimi voti il Parlamento Europeo ha respinto una mozione con l’invito agli stati membri a incrementare sostanzialmente le proprie spese militari.

Al contrario, il nuovo governo tedesco di coalizione CDU-SPD ha annunciato (e reso possibile con una modifica costituzionale del cosiddetto “freno al debito”, operata tuttavia dal Parlamento uscente dopo le elezioni) un grande piano di investimenti per la difesa, nonché per le infrastrutture e per l’ambiente. È evidente in questa scelta la rilevanza dei momenti che stiamo vivendo. Essa non può che essere da un lato benvenuta, perché collide con i dogmi dell’austerità da sempre propugnati; rappresenta un utile stimolo per la ripresa economica dell’Europa e dovrebbe essere l’occasione per rimettere in questione la logica del nuovo Patto di Stabilità. Dall’altro vista con attenzione e non poca preoccupazione, data la dimensione e il ruolo della Germania in Europa (e le sue dinamiche politiche interne, con l’enorme crescita dei consensi per un partito di derivazione neonazista).

Il Regno Unito dal proprio canto ha già provveduto a incrementare le spese per la difesa, traendo parte rilevante delle necessarie risorse da una forte riduzione, dallo 0,5% (cui era già scesa dallo 0,7% di pochi anni prima) allo 0,3% del PIL delle spese per la cooperazione allo sviluppo (si veda il Financial Times del 3.3.25), con conseguenti dimissioni della ministra Dodds. È necessario chiedersi se evoluzioni del genere, rendano più o meno sicuri i cittadini britannici nei prossimi anni nello scenario mondiale.

La Commissione ha anche proposto, di offrire agli Stati membri la possibilità, in occasione della revisione di metà periodo, di destinare a spese per la difesa parte dei fondi per la coesione sociale e territoriale ancora non utilizzati (che Il Servizio Studi della Camera stima ammontino a 350 miliardi). Si tratta di una proposta odiosa, che sposterebbe l’onere del finanziamento del riarmo più che proporzionalmente sui cittadini europei che abitano nei territori a minor sviluppo.

Anche in questo caso il governo italiano ha dichiarato che non si avvarrà di questa facoltà: ma questo non mette affatto al riparo dato che, come opportunamente notato dalla Svimez, in occasione della revisione di metà percorso delle politiche di coesione 2021-27 la Commissione potrebbe avere significative armi di pressione per indurre gli Stati membri a queste scelte. Non conforta certo che il relativo Commissario europeo sia un ex ministro italiano che ha lasciato la carica segnando il record storico nel mancato utilizzo di queste risorse.

La Commissione propone, ancora, di mobilitare 150 miliardi di euro per un nuovo strumento finanziario, denominato SAFE (Security Action for Europe) per fornire prestiti agli Stati membri per accelerare l’approvvigionamento congiunto. Non è tuttora chiara quale potrebbe essere la fonte di approvvigionamento finanziario. La base giuridica dell’iniziativa SAFE è la procedura di emergenza ai sensi dell’articolo 122 TFUE, prevista per le situazioni in cui è necessario far fonte a gravi difficoltà nella fornitura di determinati prodotti, che esclude dal processo decisionale il Parlamento Europeo: si tratta di vulnus al policy-making democratico europeo. Infine, la Commissione propone di potenziare la capacità di prestito della Banca Europea degli investimenti per le stesse finalità, ma senza prevedere un aumento di capitale di quella istituzione.

Chi paga? Gli Stati membri con le proprie risorse pubbliche. Non compaiono nei documenti della Commissione, né nelle conclusioni del Consiglio proposte di forme alternative di finanziamento, a partire da modalità di indebitamento comune, pur pienamente giustificato dalla caratteristica di bene pubblico europeo della sicurezza. Non vengono proposte strade differenti da una distribuzione proporzionale dell’onere su tutti i cittadini europei, anzi con particolare intensità su quelli che vivono nelle regioni meno sviluppate.

Avrebbe potuto essere questa, al contrario, una occasione preziosa per rivedere la posizione di “paradisi fiscali” per le imprese (anche americane) di stati membri come Irlanda, Olanda e Lussemburgo, mirando alla riduzione e auspicabilmente all’eliminazione di quelle modalità di “dumping fiscale” che danneggiano gli altri stati membri e in generale i cittadini europei, ad esclusivo vantaggio delle imprese di maggiore dimensione. Potrebbe altresì essere presa in considerazione la proposta dello EU Tax Observatory che suggerisce l’introduzione di una tassazione patrimoniale sui 537 super-ricchi europei (con patrimonio personale superiore ai 100 milioni): una aliquota pari al 3% produrrebbe, si stima, un gettito di 121 miliardi, di cui 15 in Italia.

Alcune considerazioni finali. Il progetto europeo è nato per costruire la pace in Europa in un quadro internazionale il più possibile caratterizzato da intese multilaterali e intensa attività diplomatica. Certo, nel quadro attuale non è affatto facile: e tuttavia questo dovrebbe essere l’obiettivo assolutamente prioritario. Vi è motivo di pensare che non sia stato sufficientemente perseguito negli ultimi anni e il rischio è che lo sia ancora meno nei prossimi. Nulla appare più contrario allo spirito e alla storia dell’Europa unita del detto, così tanto citato di questi tempi che per perseguire la pace bisogna preparare la guerra.

La sicurezza degli europei è questione molto seria: ma non dipende solo da vecchie o nuove minacce militari. Puntare su un enorme incremento di spesa nazionale per il riarmo è assai discutibile. Si può sostenere che gli Italiani siano più sicuri non con un esercito con qualche decina di migliaia di soldati in più ma con una rapida transizione energetica verso le rinnovabili che ci metta al riparo dal ricatto dei fornitori di combustibili fossili (dal gas algerino al GNL americano), ovvero con uno sforzo molto maggiore in ricerca e sviluppo che ci faccia progressivamente recuperare i gap in tecnologie chiave, dal digitale allo spazio, ovvero con politiche di istruzione e sicurezza sociale che includano maggiormente le fasce più deboli della popolazione europea e evitino che (come negli anni Trenta del Novecento) esse esprimano sostegno a forze estremiste, neofasciste. Non si può pensare alle spese militari come se esse non avessero effetto sulle altre politiche pubbliche.

Soprattutto, la scala delle risposte a queste minacce non può che essere europea: sia per l’atteggiamento minaccioso del tradizionale alleato americano, sia per l’evidente incapacità dei singoli Paesi, anche dei più grandi e di quelli dotati di dissuasione nucleare di affrontarli singolarmente. Ma gli attuali assetti politici e giuridico-istituzionali della UE non paiono compatibili con l’assunzione di questo ruolo. La sicurezza degli europei impone l’immane compito di ridisegnare l’Unione, e la cooperazione fra i Paesi europei (forse anche al di là della stretta dimensione comunitaria) in molti fondamentali aspetti. Scorciatoie come il ReArm EU, che mette a carico dei bilanci nazionali il rafforzamento militare dei singoli Paesi, non portano in questa direzione.

Quest’articolo riprende l’intervento al seminario “Economia di pace e difesa comune. Per il futuro dell’Europa”, Università di Bari, 27 marzo 2025. Viene pubblicato in parallelo anche su Etica ed economia.