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È il momento di un’imposta sui grandi patrimoni

Intervista a Giuseppe Pisauro, già ordinario di scienza delle finanze e primo presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, sulla necessità di tassazione dei grandi patrimoni e le riforme fiscali da fare in Italia.

Intervista a Giuseppe Pisauro. Negli ultimi venti anni sono aumentate le ingiustizie anche nel sistema fiscale. Oggi vediamo però i primi segnali di una inversione di tendenza. La prima cosa da fare in Italia? Eliminare tutti i trattamenti speciali

Giuseppe Pisauro, già professore ordinario di Scienza delle finanze alla Sapienza, Università di Roma, è stato il primo presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio (2014-2022). I suoi interessi di ricerca riguardano principalmente la politica fiscale, il processo di bilancio e i programmi di spesa pubblica. Tra i fondatori del sito di informazione economica lavoce.info, è editorialista del quotidiano Domani. 

Professore, come abbiamo visto negli ultimi anni la diseguaglianza tende a ridursi tra Paesi (anche per effetto della globalizzazione) ma è in continua crescita all’interno dei singoli Stati. L’Italia, da questo punto di vista, vanta dei record. Le politiche fiscali possono essere inserite tra le cause della diseguaglianza? Politiche fiscali diverse da quelle finora praticate in Italia possono aiutare, al contrario, a colmare i divari? Una tassazione delle grandi ricchezze e dei grandi patrimoni può favorire la giustizia sociale? 

Non è certo che le politiche fiscali possano essere indicate come la causa dell’aumento delle diseguaglianze. Sicuramente si riscontra, nei paesi sviluppati, però una contemporaneità tra l’aumento dei divari e l’introduzione di determinate politiche tributarie. A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso è diminuita molto la progressività dell’imposizione sui redditi e queste scelte sono state quantomeno contemporanee all’aumento della diseguaglianza negli stessi paesi. Se non si può indicare con precisione un nesso di causa ed effetto c’è sicuramente una relazione tra i due fenomeni. La diseguaglianza all’interno dei singoli paesi è molto aumentata e oggi è più alta di quella tra paesi diversi, tra Nord e Sud del mondo.

Ad esempio, negli anni Sessanta-Settanta le aliquote fiscali per l’imposta sul reddito erano molto alte, in alcuni paesi come il Regno Unito raggiungevano il 95%. Ne troviamo traccia perfino nella musica, una canzone dei Beatles del 1966 si intitola The Taxman (con l’esattore che annunciava: ”Diciannove a me e uno a te”, il 95% appunto). Anche in Italia le aliquote marginali erano alte: l’Irpef, introdotta con la riforma tributaria del 1973, aveva un’aliquota massima del 72% (per redditi superiori a 500 milioni di lire), oggi è del 43% (per redditi superiori a 50.000 euro). Stesso fenomeno per le imposte sulle società di capitali: l’aliquota (dell’Irpeg e poi dell’Ires) è passata da oltre il 40% all’attuale 24%. Sono tutti elementi che hanno ridotto la capacità redistributiva del sistema tributario, specie se si guarda ai redditi più alti (quelli dell’1% e 0,1% più ricco) che negli ultimi decenni hanno visto aumentare in misura sproporzionata la quota del loro reddito sul totale. Una maggiore progressività ottenuta aumentando le aliquote sui più ricchi, certamente per livelli di reddito parecchio superiori all’attuale limite di 50.000 euro, può dare un contributo importante alla riduzione della disuguaglianza. Nel caso dell’Italia, il problema è la grande diffusione dell’evasione che indebolisce molto la capacità redistributiva dell’Irpef, che di fatto oggi tassa solo redditi da lavoro dipendente e pensioni. L’altra questione riguarda l’imposta sulle società di capitale. Bisogna invertire la corsa verso il basso delle aliquote determinata dalla concorrenza fiscale tra Paesi. Ognuno tende infatti a rendere attrattivo (a partire dalle politiche fiscali) per le grandi società il proprio sistema. Ultimamente ci sono segnali in controtendenza come ad esempio l’imposta minima (proposta a livello Ocse). Un altro tema riguarda l’imposta patrimoniale. E sicuramente uno spazio per questo discorso esiste. L’importante è puntare a colpire i grandi patrimoni, nell’ordine di milioni di euro. Affiancare all’imposta progressiva sul reddito un’imposta progressiva sulla ricchezza sarebbe uno sviluppo positivo, perché la diseguaglianza della distribuzione della ricchezza è ben superiore a quella della distribuzione del reddito.

Che cosa pensa delle obiezioni di una parte degli studiosi sulla concreta possibilità di applicare una tassa sulle grandi ricchezze? Quali sono le possibili scappatoie e le “fughe” dei ricchi, pensando anche all’esperienza statunitense? 

Questa è l’obiezione classica da decenni, ma le cose stanno cambiando. Ci sono molti più scambi di informazioni finanziarie e fiscali tra Paesi, sulla scia del FATCA (Foreign account tax compliance act) degli Stati Uniti nel 2010 e del CRS (Common reporting standards) dell’OCSE nel 2014. Ma è necessario fare attenzione perché in ballo non ci sono solo questioni tecniche. Le proposte si scontrano infatti con le obiezioni politiche che sono molto forti: pensiamo a tutta la discussione da noi sulle tasse sulla casa. Anche in questo caso, come per i redditi, il primo passo è fissare a un livello relativamente alto di ricchezza la soglia oltre la quale incide l’imposta. In Italia una tassa patrimoniale, in realtà, già esiste ed è l’Imu. Poi è stata fortemente depotenziata con l’esenzione di tutte le prime case. Resta in vigore per le seconde case, ma anche qui si nascondono ingiustizie per il mancato aggiornamento del catasto. Al contrario di quello che succede oggi si dovrebbe tornare a incidere sulle prime case, oltre un certo valore. Se si fissasse la soglia a 200-300.000 euro (ai valori catastali attuali), l’imposta graverebbe solo sul 20 per cento delle abitazioni.  Non ha nessun senso, trattare nello stesso modo tutte le prime case, da un attico in centro a un monolocale in periferia. 

Ci sono studiosi ed esperti del settore che criticano la proposta di introdurre tasse per i super ricchi perché pensano sia necessario intervenire “a monte”, laddove le diseguaglianze e le sperequazioni si generano. Ha un senso questa obiezione? 

Le due cose sono complementari, non certo alternative. I Paesi che mettono in campo politiche che servono a intervenite a monte (salario minimo, pari opportunità, percorsi scolastici, ecc.) sono anche quelli che redistribuiscono a valle. Basta guardare la famosa “curva del Grande Gastby” (quella che mette in relazione la diseguaglianza del reddito e la mobilità sociale, ndr).  Paesi come quelli del Nord Europa hanno contemporaneamente alta mobilità sociale e bassa diseguaglianza, al contrario Stati Uniti, Regno Unito e Italia presentano bassa mobilità sociale ed elevata disuguaglianza. Gli interventi a monte (al livello del mercato) e quelli a valle (la redistribuzione) dovrebbero marciare di pari passo. 

Ma veniamo a un altro record nazionale. Quanto pesa sulle entrate fiscali il fenomeno dell’evasione e dell’elusione fiscale? Se si dovessi impostare una campagna di sensibilizzazione su quali valori si dovrebbe puntare? Ci vorrebbe anche una rivoluzione culturale per costruire un sistema fiscale più equo?

Si dovrebbe rendere più evidente la pervasività del fenomeno, su cui dovrebbe pesare uno stigma sociale. Ma questo è un punto molto delicato e complesso. Abbiamo ancora grandi difficoltà a far passare certi discorsi anche se ne parliamo da più di un secolo (le prime inchieste parlamentari risalgono all’inizio del Novecento). Si tratta di un fenomeno che esiste in tanti altri Paesi, ma che in Italia ha una sua dimensione da record e una sua specifica pervasività che non è legata al livello delle aliquote. Anche quando esse erano basse, l’evasione fiscale era già estesa. Un aspetto che spesso è sottovalutato è che la questione va oltre un ovvio aspetto di equità (tra chi paga e chi no): tollerare l’evasione significa anche sussidiare implicitamente attività inefficienti. L’evasione non è, insomma, solo una questione etica, è anche una grande questione economica, che danneggia la crescita del Paese. Di fatto funziona come un dazio protettivo su alcuni settori, soprattutto nei servizi. Anche la bassa produttività di quei settori deriva da queste distorsioni. Il trattamento fiscale di favore per lavoratori autonomi e professionisti non fa altro che peggiorare la situazione. Non è neppure un caso, da questo punto di vista, che l’Italia continui ad avere una percentuale di lavoro autonomo molto più alta di quella di altri Paesi avanzati. Da noi il lavoro autonomo, in quota dell’occupazione totale, è il doppio rispetto a Francia e Germania e il triplo rispetto agli Stati Uniti.

Le tecnologie di cui disponiamo ci permetterebbero di tracciare le vie dell’evasione fiscale e disegnare le mappe precise dei paradisi fiscali. Perché questo non succede?

Ci sono dei passi avanti importanti, come viene segnalato anche nel World Inequality Report redatto tra gli altri da Thomas Piketty ed Emmanuel Saez. Nell’ultimo report del 2022 un capitolo tratta nello specifico i progressi sullo scambio di informazioni tra Paesi cui accennavo prima. La lentezza di questo processo è comunque facilmente spiegabile. Si tratta di uno scontro di interessi. C’è sempre chi ci guadagna, come si vede dalla mappa dei paradisi fiscali: in Europa l’Olanda, l’Irlanda e il Lussemburgo, negli Usa lo Stato del Delaware. Ma il gioco è sempre a somma negativa: un paese attrae imprese a scapito degli altri.

Dopo il discorso all’Unione del presidente Biden negli Stati Uniti il dibattito sulla tassazione delle grandi ricchezze e delle Big companies è tornato di attualità. Per quanto riguarda l’Italia e l’Europa – se lei dovesse suggerire un programma di governo – quali sono le politiche fiscali più adatte a ridurre le diseguaglianze e come potrebbe essere qui da noi una tassazione che incida in senso progressivo sulle grandi ricchezze e i grandi patrimoni?

Per l’Italia la prima cosa da fare sarebbe eliminare tutti i trattamenti speciali. Ridare una razionalità complessiva, una unità al sistema tributario. Da questo punto di vista la situazione è molto peggiorata. Gran parte dei redditi sfuggono alla tassazione progressiva. Nello stesso tempo risulta impossibile diminuire le imposte per tutti, per il semplice fatto che aumenta la pressione dal lato della spesa. Si dovranno, anzi, accomodare le spinte alla crescita della spesa che derivano dalle dinamiche demografiche, dalla transizione energetica, dalle esigenze della difesa. All’orizzonte, insomma, non si vedono riduzioni di spesa pubblica. In questo contesto il gettito fiscale complessivo non può diminuire e così ognuno cerca la sua scappatoia individuale, il che determina l’aumento (invece di una riduzione) dei trattamenti speciali e agevolati: le varie cedolari, le imposte ad aliquota piatta sugli autonomi, i diversi regimi, eccetera. Sarebbe necessario cambiare radicalmente strada, ridando una razionalità complessiva al sistema. Si tratta di rimettere insieme i vari pezzi. Fatto questo si potrebbe poi lavorare anche sulle ipotesi di nuove forme di patrimoniale (oggi abbiamo appunto solo l’Imu sulle seconde case che produce un gettito di 20 miliardi). Esisteva anche l’imposta di successione, un caposaldo dell’approccio liberale alla giustizia fiscale, che di fatto è stata cancellata. C’è quindi una questione molto rilevante di uguaglianza di opportunità e di diseguaglianze che si ereditano. Le disuguaglianze di ricchezza sono più ampie di quelle del reddito eppure una tassazione patrimoniale sembra politicamente non fattibile. I piccoli proprietari (come per il discorso delle tasse sulla casa) vengono semplicemente usati come scudo umano dai grandi patrimoni. Si è costruita una coalizione di interessi tra chi eredita somme e patrimoni minimi e grandi proprietarie e grandi ricchi. Una coalizione sociale fittizia di interessi che dovrebbe essere spezzata prima di tutto sul piano culturale.