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Dobbiamo prepararci a un’economia di guerra?

I leader mondiali stanno rispondendo alle conseguenze economiche del coronavirus con poderosi interventi di politica monetaria e fiscale. Ma la lezione del 2008 stavolta potrebbe non bastare. Il rischio è di dover fare i preparativi per una economia di guerra.

Il 23 luglio del 2012 Mario Draghi pronunciò il celebre whatever it takes che è ormai entrato nella storia. A quelle parole, e alla persona che le ha pronunciate, è attribuito il merito di aver salvato la moneta unica dalla disintegrazione.

Oggi la stessa frase è ripetuta dai responsabili della politica economica dei paesi colpiti dall’epidemia di Covid-19 (per il momento, più di 170). “Faremo tutto il necessario, e anche di più, per ripristinare la fiducia e sostenere una rapida ripresa”, ha detto il presidente dell’Eurogruppo Mário Centeno lo scorso 16 marzo. Anche il cancelliere dello scacchiere britannico, Rishi Sunak, ha citato alla lettera le parole dell’ex presidente della Banca Centrale Europea nel riferirsi agli aiuti che verranno promossi per sostenere l’economia del Regno Unito, sulla quale incombe anche l’ombra della Brexit.

Frasi simili si sono sentite a ogni latitudine, dal whatever is necessary di Angela Merkel (11 marzo) al we are going big di Donald Trump (17 marzo). L’unica che non ha usato – inizialmente – parole analoghe è stata colei dalla quale più erano attese, ovvero la (neo)presidente della BCE, Christine Lagarde. Ma l’iniziale inadeguatezza dell’intervento della Lagarde, cui ha fatto seguito un cambio di atteggiamento in senso ultra-espansivo nell’ultimo board direttivo, non è la sola cosa che preoccupa in questo quadro.

Tutti hanno detto whatever it takes, ma nessuno ha potuto pronunciare la seconda parte di quella celebre frase di Draghi: “E credetemi, quel che faremo sarà sufficiente”. Fin qui l’intervento delle autorità monetarie e fiscali è stato soprattutto finalizzato a fornire liquidità al sistema. Il governo britannico, ad esempio, in un’operazione inedita in collaborazione con la Bank of England, fornirà liquidità senza limiti predefiniti alle grandi imprese, acquistando giornalmente i cosiddetti commercial paper (in breve, strumenti finanziari a breve termine costituiti da un pagherò non garantito emesso da un’impresa privata). Schemi simili sono stati annunciati in Francia e Germania. Misure eccezionali di sostengo al reddito delle persone che hanno perso lavoro o reddito sono previste più o meno ovunque.

Le banche centrali, nel frattempo, stanno garantendo il funzionamento del marcato monetario attraverso varie finestre di finanziamento straordinario. Tutto ciò è bene ed è anche in linea con quel cambio di paradigma che già si intravedeva in Europa prima della crisi da Covid-19. Da questo punto di vista, colpisce l’apertura del Cancelliere tedesco a una possibile mutualizzazione del debito europeo finalizzata a finanziare interventi straordinari in grado di compensare gli effetti recessivi del coronavirus su occupazione ed economia. Tanto che qualcuno inizia a parlare di un Piano Marshall bis sulla falsa riga di quello del 1947 che aiutò a ricostruire il sistema produttivo del vecchio continente fra le macerie lasciate dal secondo conflitto mondiale.

Ma tutto questo potrebbe non essere abbastanza. Lo shock economico che ci sta colpendo non investe solo il mercato finanziario (l’indice Vix, una misura popolare tra gli operatori di borsa delle aspettative di volatilità nel mercato azionario, ha superato in questi giorni il valore di picco registrato nel 2008). E non è solo uno shock sul lato della domanda. È anche un gigantesco shock dal lato dell’offerta, almeno nell’immediato.

In questo senso, stimolare la domanda aggregata rischia di non essere sufficiente se le aziende sono materialmente chiuse e non possono riaprire. Il problema non è che non si compra, ma che non si può comprare e non si può produrre. Alle spinte deflattive dello shock alla domanda potrebbero fare da contraltare quelle inflattive prodotte dallo shock all’offerta. Il raffronto più utile per capire cosa ci aspetta non è la recente crisi del 2007-2008. Come si è detto da più parti, e al di là della retorica del “stringiamoci a coorte”, dobbiamo ragionare pensando a un evento bellico. E in guerra anche l’economia si riorganizza in una economia di guerra.

La distruzione di capitale fisico prodotta dai bombardamenti non è dissimile dalla paralisi del sistema produttivo a cui stiamo assistendo. La speranza è che, a differenza di quanto avvenuto nei due conflitti mondiali, la paralisi sia ora reversibile e di breve durata. La brevità di questa situazione passa inevitabilmente attraverso interventi coordinati tra i diversi paesi colpiti dall’epidemia e il senso civico dei singoli cittadini. Oltre a questo, è importante che alcuni settori strategici – a cominciare dalla produzione e distribuzione di generi di prima necessità e di materiale sanitario – siano garantiti nella loro capacità di funzionamento.

Con dieci anni di ritardo i policy maker potrebbero aver imparato la lezione del Keynes della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936). Speriamo che ciò di cui avranno davvero bisogno non sia il Keynes di Come pagare la guerra (1940).

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Giovanni Carnazza – Università degli Studi Roma Tre, Dip.to di Economia
Emilio Carnevali – Govermement Economic Service, Regno Unito.

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