La sconfessione delle tesi di Reinhart e Rogoff ci dice che non esistono formulette buone per tutti gli usi, a proposito di debiti. E prima ancora che nei conteggi, la loro teoria era stata smontata in varie sedi.
Da quando è scoppiata la crisi, il tema del debito, prima relegato ai margini dell’attenzione, ha conquistato con prepotenza il palcoscenico dell’informazione non solo economica, ma anche politica, internazionale.
Tradizionalmente chi si preoccupava, a torto o a ragione, perché in giro c’erano troppi debiti, specialmente pubblici, erano in generale soprattutto i politici e gli economisti di destra; la loro analisi era poi inevitabilmente orientata a mostrare che di conseguenza bisognava ridurre il peso del settore pubblico e l’intervento dello stato nell’economia per portare sotto controllo il fenomeno.
Questa posizione, come sappiamo bene, è ancora oggi molto forte. Si possono a questo proposito, per altro verso, ancora molto di recente ricordare gli articoli fortemente polemici di Paul Krugman contro le posizioni dei repubblicani statunitensi sul debito pubblico del paese; i rappresentanti del Gop gonfiano a fini molto strumentali, a detta dell’economista, un problema che alla luce di una serena analisi non appare poi come così grave e comunque è in via di graduale ridimensionamento (si veda ad esempio Krugman, 2013).
A sinistra i pregiudizi contro il debito sono in genere storicamente molto meno forti, specialmente quando si tratta del debito pubblico, il cui aumento è anzi visto tradizionalmente come un fattore positivo, che può portare a nuovi investimenti, sviluppo, occupazione.
Peraltro la crisi in atto ha avuto come conseguenza qualche ripensamento. Oggi non mancano a sinistra anche posizioni molto diverse. Così, ad esempio, un testo apparso relativamente di recente in Francia (Lazzarato, 2011) e al quale facciamo appena cenno, suggerisce che il debito, lungi dall’essere una minaccia per l’economia capitalistica, è invece il rapporto sociale fondamentale che struttura il capitalismo e che si situa al centro del progetto neoliberista. Il debito, dice Lazzarato, è prima di tutto una costruzione politica, mentre la relazione creditore/debitore è il rapporto sociale fondamentale delle nostre società.
Le tesi di Reinhart e Rogoff e quello che dice la scuola del valore
Ma non vorremmo inoltrarci oggi in questo dibattito teorico. Restiamo sul terreno operativo.
Su questo piano, appare difficile in termini generali valutare quale sia un livello di debito da considerare come eccessivo, per il settore pubblico come quello privato. Così, ad esempio, qualche anno fa due studiosi statunitensi (Reinhart, Rogoff, 2009), in un loro testo rimasto famoso, avevano suggerito che un rapporto debito/pil che per il settore pubblico superasse il 90% era in generale da considerare come troppo elevato. Oltre quel livello, tra l’altro l’incidenza degli interessi sul debito avrebbe spiazzato altri impieghi dei soldi pubblici e avrebbe frenato inesorabilmente la crescita dell’economia. Gli autori portavano una serie di dati a sostegno della loro scoperta.
Ma alle tesi dei due autori sono state portate nel tempo diverse obiezioni. Una tra le più importanti sottolinea come forse non è tanto l’alto livello dell’indebitamento a bloccare l’economia, ma che semmai, al contrario, può essere l’economia che non cresce a spingere all’aumento dei debiti o forse, ancora, può darsi che l’andamento delle due variabili possa dipendere da qualche altro fattore. Inoltre, in questi giorni si è aggiunta la scoperta, ampiamente pubblicizzata, che la base dei dati su cui poggiavano le conclusioni dei due autori era perlomeno molto fragile. La risposta dei due economisti a tale obiezioni è risultata molto debole.
La messa in dubbio delle tesi di Reinhart e Rogoff appare tanto più rilevante in quanto esse costituivano una delle basi teoriche più importanti su cui venivano sostenute in sede di Unione europea le politiche di austerità in atto. Non si tratta peraltro del primo colpo teorico all’edificio, dal momento che già mesi fa l’Fmi aveva messo in rilievo, quantificandole, le rilevanti conseguenze negative che una diminuzione della spesa pubblica di un paese ha sul pil.
In realtà, come sottolinea W. Munchau (Munchau, 2013), non esiste nessun numero magico che fissi con precisione la soglia massima dell’indebitamento di un paese; allo stesso modo, anche la decisione di porre a suo tempo al 3% il livello massimo del deficit annuale del bilancio pubblico sul pil non poggiava su nessuna base teorica.
La sostenibilità del debito pubblico dipende nei fatti da molti possibili fattori, e non da uno solo; entrano in gioco i tassi di interesse, il tasso di crescita dell’economia, la percentuale del debito detenuta da operatori esteri, il regime dei cambi, le caratteristiche specifiche dell’economia, la disponibilità di asset con valore di mercato, ecc. .
Segnaliamo anche come invece a livello privato, in particolare per quanto riguarda il mondo aziendale, abbiamo assistito, nei paesi anglosassoni, al fiorire di una letteratura, legata in particolare alla cosiddetta scuola del valore, che incitava le imprese a indebitarsi quanto più possibile; un forte livello di indebitamento avrebbe portato ad avere imprese più efficienti e redditive e a comportamenti del management più orientati alla massimizzazione del valore delle imprese. Queste tesi hanno incoraggiato non poco, a suo tempo, la crescita dell’indebitamento privato nello stesso mondo anglosassone.
Si è visto poi come è andata a finire.
Comunque, ci sono troppi debiti in giro
Su di un altro piano, nel mondo, nelle varie epoche, può prevalere l’indebitamento di un settore o quello di un altro. Così, con lo scoppio della crisi, abbiamo scoperto che il settore privato nei paesi anglosassoni era particolarmente indebitato; poi, in diversi paesi, per venire in soccorso del settore privato è cresciuto a dismisura il debito pubblico. La crisi di Grecia e Irlanda è stata provocata tra l’altro dall’alto livello dei debiti bancari; in questo momento il Giappone ha un rapporto debito pubblico/pil pari al 245%.
La situazione appare dunque come molto varia.
Ma oggi, da destra come da sinistra, non si può non partire dalla constatazione che il mondo sviluppato si trova in una grande bolla debitoria generale da cui sembra molto difficile uscire.
Proviamo a considerare il debito complessivo, sia quello pubblico che quello privato (imprese, sistema finanziario, famiglie) ed il quadro che ne emerge appare a dir poco terrificante.
Come sottolinea un articolo recente dell’Economist (Buttenwood, 2013), il totale del debito registrabile nei paesi sviluppati è oggi così elevato che non appare plausibile che esso possa essere ripagato anche in presenza di uno sviluppo dignitoso dell’economia, cosa che appare peraltro lungi da essere assicurata.
E ci sembra che l’analisi dell’Economist non sia priva di fondamento.
Diversa per molti aspetti la situazione attuale di molti dei paesi emergenti, in particolare di quelli più grandi; così registriamo il fatto che la Cina presenta oggi enormi livelli di liquidità e di risparmio, anche se desta qualche preoccupazione la situazione di molti enti locali, mentre la situazione della Russia non appare poi molto diversa; un po’ di riserve si possono fare invece, se vogliamo, per quanto riguarda la situazione dei consumatori brasiliani.
Le uniche soluzioni per il giornale britannico, per quanto riguarda i debiti dei paesi sviluppati, non possono che essere o la cancellazione, almeno in parte, del debito o il suo ripagamento virtuale attraverso alti livelli di inflazione.
Ricordiamo certamente che la distribuzione tramite l’inflazione può apparire un metodo apparentemente meno traumatico che non il default.
Così dopo la seconda guerra mondiale diversi paesi sono riusciti, senza grandi problemi e senza suscitare grandi rivolte, a liquidare la montagna dei debiti che avevano contratto per finanziare lo sforzo bellico.
Ma tale metodo oggi si scontra da una parte con la molta maggiore attenzione di una volta al fenomeno da parte dei creditori, più consapevoli e vigilanti, dall’altra con la depressione dell’economia e la marcata concorrenza di prezzo oggi esistente sul mercato dei beni, in particolare da parte di quella asiatica; tali fattori ostacolano non poco il ricorso a tale fonte. Ricordiamo soltanto, su di un altro piano, l’enorme fatica di un paese come il Giappone nel provare ad introdurre un po’ di inflazione nel sistema.
In ogni caso, qualcuno dovrebbe prendersi il fardello in casa e per il giornale uscire dall’attuale crisi è così complicato proprio perché nessuno se ne vuole fare invece carico.
Sino a poco tempo fa venivano riunite di frequente delle conferenze internazionali per cercare di decidere come risolvere il problema dell’indebitamento privato e pubblico dei paesi del terzo mondo. Naturalmente oggi sarebbe molto utile invece un grande accordo a livello mondiale per cercare di governare una situazione, questa volta quella dei paesi sviluppati, che appare alla lunga insostenibile, ma altrettanto naturalmente la cosa appare molto difficile. Abbiamo quindi un problema apparentemente senza soluzione, che pesa non poco sulla possibile ripresa dell’economia nei paesi ricchi.
Testi citati nell’articolo
Buttonwood, The financial-repression levy, The Economist, 23 marzo 2013
Krugman P., Cheating our children, www.nytimes.com, 28 marzo 2013
Lazzarato M., La fabrique de l’homme endetté, Editions Amsterdam, Parigi, 2011
Munchau W., Perils of placing faith in a thin theory, www.ft.com, 21 aprile 2013
Reinhart C. M., Rogoff K. S., This time is different, eight centuries of financial folly, Princeton University Press, Princeton, 2009