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Cultura, una legge strumentale

Affermare la cultura come bene essenziale per poi limitarsi a servirsene per regolare il diritto di sciopero senza porsi il problema di come garantire l’accesso alle prestazioni culturali ai cittadini è poco costituzionale

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Poche settimane fa il Parlamento ha convertito in legge il decreto del Governo – il cosiddetto “decreto Colosseo” – che colloca la cultura fra i servizi pubblici essenziali di cui va assicurato il godimento. Il decreto fu emanato dopo che un’assemblea sindacale, del resto regolarmente convocata con largo preavviso, aveva reso impossibile per alcune ore l’accesso dei turisti al Colosseo. Il Governo, sfruttando l’onda di una ben orchestrata campagna mediatica, ha deciso con la legge di considerare, per quel che riguarda i diritti sindacali, i beni culturali come attività che “rientrano tra i livelli essenziali delle prestazioni di cui all’articolo 117 secondo comma lettera m della Costituzione”. Il tutto senza nessun aggravio di spesa per le finanze pubbliche.
La discussione pubblica e la protesta dei sindacati si è concentrata sulle ripercussioni di questa decisione sull’esercizio del diritto di sciopero. Ed è più che comprensibile vista l’occasione e la strumentalità con cui la legge è stata proposta. Ma in attesa che il confronto con i sindacati sui limiti al diritto di sciopero si esaurisca con un probabile pronunciamento del Garante, sarebbe forse opportuno richiamare il Governo ad assumersi in toto la responsabilità di quel che ha legiferato. L’articolo 117 della Costituzione, al punto indicato dal decreto, prevede infatti che i livelli essenziali delle prestazioni vadano ben oltre la fruizione dei beni per i turisti e fa riferimento ai “diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Per tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro condizione economica e sociale.
Il Governo non ha evidentemente pensato a questo, cosa che richiederebbe l’apertura di un immediato tavolo di confronto con il sistema degli Enti locali per definire le prestazioni essenziali in questione atte a garantire il diritto alla cultura dei cittadini, equiparato dalla legge al diritto alla salute e all’istruzione. Gli Enti locali hanno investito in questi anni, in percentuale ai loro bilanci, ben più dello 0,21 che è la percentuale a cui è inchiodata la spesa dello Stato dedicata alla cultura sul totale della spesa pubblica, anche dopo le apprezzabili misure di rilancio del settore messe in atto dal Ministro Franceschini.
Lo hanno fatto perché hanno ritenuto gli investimenti in cultura decisivi per recuperare l’identità e la coesione sociale delle città nella crisi del tessuto industriale e nelle grandi trasformazioni che hanno fatto sì che molte di esse diventassero un melting pot di popoli, di culture, di religioni. La cultura è stata molto spesso l’unica leva che ha guidato in senso positivo la trasformazione del paesaggio urbano dovuta ai processi di deindustrializzazione e di abbandono di gran parte del patrimonio pubblico: l’alternativa più grande alla trasformazione dei luoghi dismessi in ipermercati in cui si è esercitata la creatività e l’impegno di associazioni e di centri sociali affinché restassero e si riqualificassero come luoghi pubblici, a disposizione della collettività. A volte con il sostegno, a volte contro le stesse Amministrazioni comunali, spinte dai tagli a cogliere ogni occasione per far cassa.
Ma i Comuni, soprattutto quelli più virtuosi, hanno sperimentato in questi anni come l’assenza della cultura fra i beni essenziali di cui va garantita la fruizione abbia pesato sulle loro possibilità di spesa, in presenza dei tagli ai bilanci degli Enti locali delle ultime finanziarie. Ne hanno pagato il prezzo servizi fondamentali per garantire l’accesso di tutti alla cultura come le biblioteche comunali, molte delle quali sono state costrette a ridurre il personale e i tempi di apertura. Al contempo gli stessi Comuni hanno dovuto ridurre le azioni positive per far accedere ai beni e alle attività culturali le fasce di popolazione in difficoltà economica e sociale. E quelle rivolte agli anziani e alle scuole, per avvicinare i giovani alla grande musica, all’arte, al teatro.
E se i livelli essenziali di prestazione che devono essere garantiti ai cittadini non vengono determinati, il rischio di una ulteriore contrazione della spesa sarà ancora più forte vista la perdita di autonomia e di flessibilità della fiscalità locale dopo l’abolizione della Tasi sulla prima casa, sostituita da trasferimenti dello Stato. Se vogliamo evitarlo occorre che all’interno dei trasferimenti sia inserita anche la quantità di risorse necessarie a definire e garantire i livelli essenziali di prestazione di cui parla la legge in questione. In un Paese in cui il sistema degli Enti locali ha investito in percentuale ai propri bilanci ben più dello Stato, non basta un aumento della spesa del centro per affermare che c’è stata una svolta significativa del sistema Paese sul terreno della cultura.
Infine, se la cultura è considerata bene pubblico essenziale come la sanità, le spese dei cittadini per accedere al bene cultura, al cinema, al teatro, ai musei, a un corso di una Università popolare, dovrebbero avere lo stesso trattamento fiscale e lo stesso sistema di detrazioni delle spese sanitarie. Tutto questo ha un costo, mentre la legge approvata non prevede costi. Ma proprio questo rivela i limiti e la cattiva fede che la anima. Affermare la cultura come bene essenziale per poi limitarsi a servirsene per regolare il diritto di sciopero senza porsi il problema di come garantire l’accesso alle prestazioni culturali a tutti i cittadini, è davvero poco dignitoso e poco costituzionale.