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Crisi italiana, da dove ripartire

Il nostro paese ha ancora rilevanti possibilità di crescita in diversi settori produttivi. Turismo, agroalimentare, porti e logistica: da qui si potrebbe ripartire per rilanciare l’economia

Ad analizzare l’attuale situazione economica italiana, in particolare il suo sistema delle imprese, si può essere presi da due sentimenti tra di loro conflittuali. Da una parte, si può registrare un senso di scoramento per i gravissimi problemi attuali, per le imprese che chiudono i battenti, per quelle che si trasferiscono altrove, per quelle che licenziano, per quelle che vengono acquisite dal capitale estero; dall’altra, si può essere anche tentati da un certo senso di speranza per le molte cose che si potrebbero fare per raddrizzare la situazione, per le rilevanti potenzialità che la nostra economia potrebbe anche facilmente sfruttare con delle politiche accorte, politiche che peraltro non si fanno.

Abbiamo così cercato di svolgere una breve analisi intorno a due tipi di settori, da una parte quelli che appaiono in grave crisi e con riferimento anche ai quali il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, parla da tempo a ragione di pericolo di smantellamento a breve per il nostro sistema industriale. Dall’altra quelli che potrebbero offrire delle opportunità molto rilevanti di sviluppo e di occupazione, come segnalato da tempo e da più parti.

I settori in grave crisi

Per quanto riguarda il primo tipo di settori, ne abbiamo già parlato in un articolo apparso di recente su questo stesso sito; quindi ne accenniamo qui di nuovo in maniera sintetica. Abbiamo già in effetti fatto riferimento a quelli dell’auto, degli elettrodomestici, dell’acciaio, cui vogliamo oggi aggiungere quello delle costruzioni.

Poche parole sul primo caso, tanto la pratica è nota a tutti. Dopo che il livello della produzione di auto nel nostro paese ha raggiunto abissi impensabili soltanto qualche anno fa, si attende ormai rassegnati, per i prossimi mesi, il trasferimento della sede centrale della Fiat auto all’estero, con il possibile licenziamento a Torino di migliaia di addetti, mentre sembrerebbe rimandata solo a un po’ più in avanti la chiusura di una o due fabbriche italiane. E questo per quanto riguarda il più importante settore manufatturiero italiano e mentre le industrie dell’auto in Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna, presentano in ogni caso livelli di produzione molto più importanti dei nostri e in nessun caso si sono registrati cali della produzione così drastici, mentre in qualche paese essa è invece sensibilmente aumentata.

Quello degli elettrodomestici è il secondo settore industriale del nostro paese; esso occupa ancora 130.000 persone, ma nelle scorse settimane abbiamo assistito all’annuncio della Indesit che sposta molte delle sue attività all’est con la perdita di migliaia di posti di lavoro in un’area che ha già dovuto subire la chiusura di realtà industriali importanti. Ora c’è il pericolo molto concreto che dietro l’azienda di Fabriano anche altri produttori del settore e i loro componentisti prendano la via dell’esilio.

Abbiamo poi il settore dell’acciaio, le cui vicende sono ben note. Un’imprenditoria almeno in parte irresponsabile e imprevidente ha ridotto il settore a un colabrodo; risalire la china appare ora molto difficile.

A questi tre business possiamo aggiungere, per la profondità della sua crisi, quello delle costruzioni, area che ha perso negli ultimi anni centinaia di migliaia di posti di lavoro e delle cui difficoltà non si vede il fondo.

È opportuno ricordare che il comparto ha costituito per decenni nel nostro paese il luogo di gran parte dell’”accumulazione primitiva” di capitali, come mostrano anche il caso Berlusconi e quello Ligresti. Bisogna anche aggiungere, peraltro, che questo è il settore che produce tradizionalmente i maggiori guasti “ambientali”, per l’incidenza del lavoro nero, della corruzione, dell’illegalità, dei guadagni facili, della presenza del fenomeno mafioso. Una ripresa del settore non dovrebbe prescindere da una sterzata nei comportamenti di una classe imprenditoriale in gran parte incline a lavorare al di fuori o appena ai limiti della legge.

Ma accanto alle difficoltà interne ai vari settori, bisogna aggiungere le minacce esterne. Oggi una parte consistente delle nostre aziende più interessanti è sotto la minaccia di un’acquisizione da parte del capitale straniero, che trova facile gioco nella situazione di debolezza generale del nostro sistema imprenditoriale e delle nostre istituzioni pubbliche. Abbiamo così avuto in luglio il caso della Loro Piana passata ai francesi, ma ora, nel settore del lusso, si parla della Ferragamo e di Brunello Cucinelli, altri due gioielli del made in Italy migliore. Intanto sembra che si stia preparando l’assalto a Telecom Italia; i candidati all’acquisizione sarebbero Att, Telefonica, Vodafone.

Quello che desta la maggiore meraviglia, sia per i settori in difficoltà che per le minacce di acquisizioni, è la quasi assoluta inerzia del governo, che certo deve essere nel frattempo impegnato in questioni molto più importanti e i cui interventi sono stati, quando si sono verificati, in genere molto limitati e comunque inadeguati.

I settori con rilevanti potenzialità di crescita

Passiamo al secondo caso, quello invece dei settori con rilevanti possibilità di crescita.

L’Italia presenta ancora oggi, dopo tante vicissitudini negative, degli atout importanti, anche se ancora poco sfruttati, almeno in alcuni settori. Ricordiamo soltanto i casi del turismo, della trasformazione agro-alimentare, dei porti.

Cominciamo con il settore turistico. Secondo statistiche facilmente reperibili, la Francia ha ospitato, nel 2012, 88 milioni di turisti esteri, l’Italia soltanto 33-34 milioni. Eppure le nostre bellezze naturali e artistiche non sono certamente inferiori a quelle del paese vicino.

Secondo valutazioni molto approssimate, si potrebbero creare in una decina di anni tra 500 mila e 1 milione di posti di lavoro nel settore. Naturalmente sarebbe necessario un grande progetto che coinvolga gli operatori pubblici e quelli privati, bisognerebbe rinnovare le infrastrutture di accoglienza e di trasporto, restaurare i monumenti e attrezzarli in modo adeguato, varare adeguate politiche di promozione, migliorare grandemente l’organizzazione del settore.

Molto si potrebbe fare anche senza spendere grandi somme. Ad esempio, quanti milioni di turisti in più si potrebbero portare ogni anno nel nostro paese anche semplicemente assumendo e pagando adeguatamente qualche decina di specialisti seri di turismo incoming, magari andando a prenderli dove si trovano, in Francia, in Florida, in Australia, persino in Spagna?

Poi c’è l’agroalimentare. Le produzioni italiane hanno un momento d’oro nel mondo. Il settore già oggi va bene e le esportazioni crescono, ma con adeguate politiche esse, secondo diversi operatori, potrebbero raddoppiare facilmente nel giro di pochissimi anni. Anche in questo caso il lavoro da fare sarebbe molto, ma i risultati sarebbero abbastanza facilmente a portata di mano.

Ricordiamo ancora infine il comparto dei porti e della relativa logistica. L’Italia sarebbe, per la sua posizione, l’approdo naturale più ovvio dei traffici marittimi tra l’Asia e l’Europa. Ma ovviamente la concorrenza è molto forte e sino a oggi hanno colto l’occasione non solo i grandi porti del nord Europa, ma tendenzialmente anche qualche paese africano. Il nostro immobilismo appare quasi totale e irresponsabile. Anche in questo caso sarebbero necessari importanti investimenti infrastrutturali, ma si fa molto poco. Tra l’altro l’esistenza di due porti potenzialmente molto appetibili come quelli di Taranto e di Gioia Tauro potrebbe fare del settore un volano fondamentale per il decollo dell’economia del Sud.

Su di un altro piano, a proposito di imprevidenza pubblica e privata, come risulta anche da articoli apparsi di recente sulla stampa straniera, il settore della moda e del tessile-abbigliamento, che continua per una larga parte ad andare bene e a esportare, presenta, oltre al già citato problema della conquista da parte delle grandi multinazionali estere, un’altra questione molto rilevante, di cui nessuno si cura, quella del ricambio del personale. I giovani apparentemente non gradiscono il tipo di lavori che offre il settore e manca quindi in gran parte il ricambio generazionale. Sembra che tra vent’anni, se continuasse il trend attuale, il business sarebbe già pressoché affondato dalla mancanza di quella manodopera specializzata che fa ancora oggi la forza del settore nel nostro paese. Ma né gli imprenditori del settore, né la mano pubblica fanno molto in proposito.

Vogliamo a questo punto aggiungere soltanto che, se andassimo alla ricerca di ulteriori mosse che portino un sostegno importante alla nostra economia, secondo studi fatti già da molto tempo la messa in opera, nel settore delle comunicazioni, della banda larga in tutto il paese, nonché la riforma del codice civile, potrebbero portare da soli un aumento del Pil annuo di almeno un punto all’anno, ma probabilmente anche di più.

Conclusioni

L’insipienza imprenditoriale, le derive del sistema finanziario, la mancanza di politiche pubbliche adeguate, contribuiscono a spiegare il pessimo stato in cui si trovano diversi settori di attività nel nostro paese. Ma, per altro verso, può apparire anche comodo, in un certo senso, adagiarsi sui mali antichi della nostra condizione e giustificare, facendo appello anche ai vincoli dell’eurozona, un fatalismo rassegnato e inerte. In realtà, abbiamo cercato di indicare, almeno parzialmente, come, nonostante tutto, esistano rilevanti spazi di intervento e molto si potrebbe fare per cercare di raddrizzare almeno in parte la situazione. Ma ci vuole qualcuno che si metta al lavoro.