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Coronavirus: c’è da imparare dall’Est Asia?

Pur nella difficoltà di avere dati comparabili a livello internazionale, il divario sul numero di decessi da Covid-19 tra l’Occidente e i Paesi dell’Est Asia è assai ampio. L’Italia, come altri Paesi occidentali, non ha saputo trarre profitto dalle esperienze di Corea del Sud e Giappone.

Al 29 giugno 2020, la Lombardia era la seconda area del mondo con il maggior numero di decessi per Covid-19 per milione di abitanti, di poco inferiore al New Jersey, ma superiore allo Stato di New York e di molto superiore a Wuhan e Daegu, centri dei grandi focolai della pandemia scoppiati prima in Cina e poi in Corea del Sud (si veda la tabella 1). Alla stessa data l’Italia risultava, tra i paesi medio-grandi del mondo, il quarto Stato con più decessi da Covid-19 per milione di abitanti, dopo il Belgio, il Regno Unito e la Spagna e prima di Francia, Stati Uniti, e diversi altri paesi (tabella 2).

Dalla fine di febbraio ai primi di maggio, del resto, l’Italia era stata il primo paese medio-grande del mondo in questa funesta graduatoria, mentre la provincia di Bergamo risulta ancora oggi la zona più colpita del mondo. In Italia la pandemia ha avuto effetti devastanti soprattutto nel Nord del paese e nella provincia di Pesaro-Urbino. Ne consegue che diverse altre regioni del Nord, quali Liguria, Emilia-Romagna e Piemonte risultino tra quelle con la più alta mortalità da Covid-19 pro-capite del mondo, mentre il Veneto ha fatto politiche più avvedute e ne ha sofferto in misura inferiore, ma sempre assai di più della Corea del Sud e del Giappone.

Il confronto tra paesi medio-grandi nel mondo fa subito risaltare l’enorme divario tra i decessi per milione di abitante dei paesi dell’Occidente e dell’America Latina rispetto a quelli dell’Est Asia. Sia in un paese a regime autoritario come la Cina che in due grandi democrazie come Giappone e Sud Corea, la politica di contrasto contro la pandemia ha agito con assai maggiore tempestività ed efficacia che nei grandi paesi occidentali e dell’America Latina. Ad esempio l’Italia ha avuto un numero di morti ufficialmente attribuiti al Covid-19 rapportati alla popolazione 192 volte maggiore di quello della Cina, 96 volte rispetto a quello della Corea del Sud e 72 volte rispetto al Giappone; anche la Germania, che è tra i grandi paesi europei quello che ha fatto meno peggio, ha ad esempio un rapporto 18 volte più elevato di quello della Corea del Sud.

Tabella 1. Decessi da Covid-19 ufficiali in alcune aree del mondo al 29 giugno 2020

Fonti: Worldmeter, John Hopkins, Ministero della salute, ISS, Sole-24 ore.

Tabella 2. Decessi da Covid-19 ufficiali in alcuni paesi del mondo al 29 giugno 2020

Fonte: Worldmeter (1 luglio 2020).

Due indicatori

Si è scelto di usare soprattutto i decessi Covid per milione di abitanti come misura approssimata della diffusione della pandemia e dei suoi effetti brutali su un paese o un’area e non i casi positivi confermati, poiché il primo indicatore, nonostante i suoi limiti, è assai meno debole e fuorviante del secondo. I casi positivi confermati sono spesso confusi dai mass media col vero numero dei contagi, ma secondo molti virologi questi ultimi sono, soprattutto nella fase iniziale di crescita esponenziale della pandemia, di almeno 5-10 volte più numerosi. Per l’Italia, al 28 marzo 2020, uno studio dell’Imperial College stimava addirittura che il numero dei contagiati fosse di 5,9 milioni di persone, all’incirca 45 volte di più del numero dei casi positivi confermati risultanti in quella data. In realtà il vero numero dei contagi è un’entità sconosciuta e fortemente variabile nel tempo.

Inoltre la validità dell’indicatore casi positivi confermati dipende da: a) il numero di test eseguiti; b) le priorità indicate dalle autorità per fare i test (se fatti solo alle persone con sintomi forti ricoverati agli ospedali o anche a molti asintomatici o con pochi sintomi); c) lo stato di diffusione del virus e le politiche restrittive nel frattempo realizzate.

Ora, in Italia in febbraio e agli inizi di marzo, per carenza di tamponi e reagenti e seguendo le errate indicazioni dell’Oms, si erano fatti pochissimi test concentrandoli sulle persone giunte agli ospedali con forti sintomi e trascurando quasi del tutto gli asintomatici o le persone con lievi sintomi, liberi di circolare diffondendo il virus. Si sottovalutava così fortemente la diffusione della pandemia, in crescita esponenziale soprattutto nel Nord Italia. Si è atteso quindi troppo nel fare adeguate politiche restrittive. Dopo la metà di marzo si sono fatte quantità crescenti di test, ma sempre, tranne che in Veneto, rivolgendosi in prevalenza alle persone con sintomi, sottostimando gravemente il numero dei veri contagiati e tra questi degli infetti asintomatici.

Anche l’indicatore basato sui decessi ufficiali Covid ha dei difetti, tuttavia assai inferiori a quelli dei casi positivi confermati. I principali limiti sono tre: a) l’indicatore segue di qualche tempo la probabile curva dei contagi; b) dipende molto dall’efficienza e resilienza del sistema sanitario, dalle politiche adottate e dalla composizione per età e genere della popolazione; c) sottostima, in misura diversa nel tempo e tra i paesi, il reale numero di decessi direttamente o indirettamente attribuibile alla pandemia, anche perché si basa soprattutto sui decessi avvenuti nelle strutture ospedaliere, mentre molti decessi sono avvenuti anche nelle Rsa o a casa.

Questi numeri vanno quindi controllati anche con quelli derivanti dall’eccesso dei morti nel periodo della pandemia rispetto agli stessi periodi dei cinque anni precedenti, tenendo conto dei mutamenti demografici avvenuti nel frattempo, ma tali dati pervengono normalmente con oltre un mese di ritardo. La sottostima varia nel tempo e fra i paesi. In Italia la differenza tra i decessi totali e quelli dei 5 anni precedenti e i decessi ufficiali Covid è stata dell’82,7% in marzo 2020 e del 39,6% in aprile (dati Istat-Iss), ma ciò è dovuto in grande prevalenza al Nord Italia. I decessi attribuibili direttamente o indirettamente al Covid sono quindi notevolmente più numerosi di quelli ufficialmente dichiarati soprattutto nelle zone più colpite dalla pandemia, ma la differenza man mano si riduce dopo periodi di forti lockdown e di calo dei contagiati ancora attivi, cioè non guariti o deceduti. In altri paesi le differenze sono diverse e quindi i confronti internazionali vanno fatti con cautela.

Perché l’Italia e gran parte dei paesi occidentali non hanno imparato dall’Est Asia?

Pur tenendo conto dei limiti di comparabilità dei dati sui decessi, il divario tra i risultati ottenuti in Occidente e nei paesi dell’Est Asia, che per primi hanno dovuto affrontare la pandemia, è enorme. In Giappone, Corea del Sud e Cina il virus non è stato ancora sconfitto: serpeggia sotto traccia per poi esplodere in piccoli focolai, ma da oltre due mesi i tre paesi si sono dimostrati in grado di saper contenere e spegnere tali focolai, limitando a poche decine la diffusione giornaliera dei casi positivi e a zero o poche unità i decessi. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito la pandemia è ancora molto viva, e i decessi elevati, così come in Brasile, Messico e India; in Spagna, Francia e Italia si sta progressivamente riducendo, ma il numero settimanale di morti è in Italia ancora di diverse decine.

Ci si deve chiedere come mai l’Italia, e successivamente la Spagna, il Regno Unito, la Francia, gli Stati Uniti non abbiano imparato le lezioni dell’Est Asia, e in particolare delle due democrazie, Corea del Sud e Giappone, che non hanno fatto ricorso ai metodi forti adottati dalle autorità cinesi soprattutto a Wuhan e nello Hubei. Cinque sono le ragioni principali:

(a) Il vasto uso di dati assai deboli e fuorvianti quali “i casi positivi confermati” come indicatore approssimato dei “contagi” e bussola per le iniziali, deboli, politiche di contrasto.

(b) Il minor numero di letti in ospedale della maggior parte dei paesi occidentali rispetto a Sud Corea e Giappone, dovuto a ripetuti tagli nella sanità e, come in Lombardia, a un’eccessiva crescita del settore privato.

(c) Il “ritardo di conoscenza” sul virus e i suoi effetti e i rimedi assai tardivi nella preparazione dei test (tamponi e reagenti), mascherine, ventilatori, letti di ospedali e di cura intensiva, eccetera.

(d) La presunzione, o ignoranza, o etno-centrismo di noi occidentali e la sudditanza alla grande ricerca anglo-sassone.

(e) La mancanza di coraggio politico nell’affrontare le resistenze dei gruppi di interesse e della società e di imporre tempestivamente delle restrizioni e forme ben organizzate di tracciamento e di isolamento degli infetti.

Un confronto fra Italia e Corea del Sud

Per meglio illustrare l’incapacità dell’Italia di trarre profitto dall’esperienza dell’Est Asia, si può tracciare un confronto tra l’Italia e il paese democratico dell’Est Asia che meglio ha finora saputo contrastare la pandemia, e cioè la Corea del Sud. Se in parte i minori decessi Covid della Corea del Sud sono attribuibili alla minore senilità della popolazione, gran parte della differenza è dovuta alle politiche di medio e breve periodo.

Il paese asiatico aveva mantenuto, per lungimiranza e anche per l’esperienza fatta con le epidemie SARS e MERS, un sistema sanitario più resiliente, dotato di un numero di letti in ospedali per mille abitanti pari a quasi quattro volte rispetto a quello dell’Italia. Esso ha inoltre saputo reagire con immediatezza alla crisi generata dal grande focolaio scoppiato a Daegu il 18 febbraio 2020, solo tre giorni prima della prima morte per Covid accertata in Italia a Vo’ e il primo caso positivo di Codogno. Le autorità coreane hanno avviato subito un gran numero di test sia ai sintomatici, sia agli asintomatici, e hanno avviato procedure ben organizzate di tracciatura, isolamento e di protezione del personale sanitario e degli anziani. Hanno realizzato severe misure restrittive per il distanziamento sociale e l’uso delle protezioni individuali e, senza imporre veri e propri lockdown, hanno spento il grande focolaio di Daegu e poi via via i focolai minori apparsi in altre zone del paese favorendo un agevole accesso ai test e imponendo un isolamento controllato in un gran numero di strutture protette o a casa per molte persone risultate positive. Si sono così evitati il collasso delle strutture ospedaliere e gran parte della crescita esponenziale della pandemia, avvenuta invece nel Nord Italia a febbraio e marzo 2020.

In Italia si sono invece bloccati i voli diretti con la Cina, ma non quelli indiretti. Non ci si è preparati per tempo per avere un numero adeguato di mascherine, posti letto, ventilatori, ICU, personale sanitario addizionale. Non si sono fatte zone rosse nelle province di Bergamo e Brescia, limitandosi a quelle assai ridotte di Vo’ e di Codogno e vicinanze. Solo in Veneto si è tratto profitto dello studio su Vo’ condotto dalla equipe del professore Andrea Crisanti, che ha posto in evidenza l’importanza dei test e dell’isolamento esteso agli asintomatici. Il tracciamento con app è stato timidamente avviato con tre mesi di ritardo. Conflitti di competenza tra governo, regioni, protezione civile, sanità pubblica e privata hanno condotto a confusioni e ritardi. Il decreto “Tutti a casa” senza adeguate strutture di isolamento e protezioni per personale sanitario e anziani e per le Rsa ha condotto a molti contagi, decessi di anziani, e a gravi perdite di medici, infermieri e ausiliari. In Lombardia non si è avuto il coraggio politico di chiudere molte attività produttive prima, e si è dovuto chiuderle poi per più tempo e con danni assai più gravi per l’economia e la società.

Il risultato complessivo è: molti più morti Covid in Lombardia che in Giappone, Corea del sud e Cina messi assieme; crollo del Pil reale previsto dal Fondo Monetario Internazionale per l’Italia nel 2020 del -12,8% oppure del -14% nel caso di un secondo shock Covid in autunno, contro il -2,1% della Corea del Sud.

* Questo scritto rivisita e aggiorna alcuni dei temi già trattati in due note precedenti apparse nel 2020 su Sbilanciamoci.info il 13 aprile 2020 e sulla newsletter n. 15 dell’OEET-Osservatorio sulle economie emergenti-Torino.