Top menu

Coronavirus, 200 milioni stanno perdendo il lavoro

L’Ilo stima che 2,7 miliardi di lavoratori, l’81% della forza lavoro mondiale, sono toccati in tutto il globo dal blocco delle attività economiche. Nel secondo trimestre 2020 in 197 milioni perderanno il posto. E la storia conferma la lezione: in tempi di epidemia i lavoratori pagano il prezzo più alto.

I lavoratori nel mondo intero sono 3,3 miliardi. Quest’anno, ai primi di aprile, arriva un’osservazione che spaventa: la parte preponderante di uomini e donne che lavorano vive di lavori a rischio, per via del Covid-19. I conti sono fatti dall’Ilo e quel che l’Organizzazione internazionale del lavoro – un’istituzione dell’Onu che però è nata ancor prima di quello, avendo compiuto proprio l’anno scorso il secolo – mette in mostra è impressionante e molto attendibile: nel secondo trimestre del 2020 perderanno il lavoro 197 milioni di persone, per via della caduta dell’attività economica: si calcola siano il 6,7 per cento del totale. Tali dunque gli effetti del Covid-19 e ammesso che le cose migliorino e la pandemia si tiri da parte, sarà difficile e lungo recuperare. Non basterà il terzo trimestre e già un trimestre soltanto è sufficiente per morire di fame.

Lungo e difficile, difficile e lungo. Lo storico Walter Scheidel nel suo recente scritto sul New York Times ce ne dà qualche esempio che riassumeremo, per quanto sappiamo farlo, nella parte finale di questo scritto. Il fatto è che ogni persona dovrà ritrovare un lavoro, un salario, dovrà ripagare il proprio debito, i prestiti ricevuti, ritrovare casa se non ce l’ha più, recuperare gli oggetti che ha impegnato, nel caso migliore ricostituire i propri risparmi, dar da mangiare ai figli; e tutto questo in un sistema di concorrenza generale tra lavoratori rimasti da settimane e mesi senza entrate, in un mondo in cui città e province e stati cercano di superare le difficoltà offrendo il lavoro di cui dispongono al massimo ribasso.

Il blocco totale o parziale introdotto riguarda, osservando con maggiore precisione soltanto (soltanto!) 2,7 miliardi di lavoratori, quanto a dire l’81% della forza lavoro. Rientrano nel novero (è sempre l’Ilo a spiegare) l’87% dei lavoratori dei paesi a medio-alto reddito di lavoro in cui vige un blocco obbligatorio o consigliato delle attività lavorative e il 70% dei lavoratori in quelli a reddito alto – l’Europa affluente – in cui sono presenti i medesimi blocchi.

La decisione di chiusura totale del lavoro ha inizio il 25 gennaio 2020. L’avvio riguarda, in un colpo solo, il 20-22% della forza lavoro mondiale. Guardando la figura che l’Ilo fornisce, si ricorda la decisione cinese di chiudere tutto e naturalmente la sua forza politica e sociale nel farlo. Dal 24 febbraio si affiancano paesi di altri lavoratori che valgono per un altro 2-3% cui lo “stare a casa” (come ci si è abituati a dire in seguito) è però consigliato. Verso il 13 marzo e fino alla fine del mese il blocco – severo per tutti fino al giorno 25 e un po’ più blando in seguito per un 30% della forza lavoro mondiale complessiva – raggiunge ormai l’81% della forza lavoro mondiale.

Sappiamo tutti che otto ore di lavoro non riscuotono sempre la stessa paga; anzi quasi mai, per quanto i sindacati si diano da fare. Alcuni lavori sono pagati più di altri, alcune abilità, alcune esperienze tecniche, alcune conoscenze sono pagate ben più di altre. Sappiamo tutti che per pari lavoro le donne sono pagate meno degli uomini e al Sud la stessa ora vale meno che al Nord. L’età, molto più alta o molto più bassa – in miniera, in fornace – vale mezza paga per carichi altrettanto pesanti, per altrettanti mattoni o tappeti.

L’Ilo, questa volta, rivolge un po’ di attenzione anche al lavoro informale. Circa 2 miliardi di persone lavorano nel settore informale. “Con il termine di economia informale – spiega l’Ilo in una nota al testo – ci si riferisce a tutte le attività economiche dei lavoratori e alle unità economiche che sono – per legge o in pratica – non coperte o insufficientemente coperte da accordi formali. Ciò include lavoratori a salario senza protezione sociale o altro accordo formale in imprese tanto nel settore formale che informale, lavoratori in conto proprio come i venditori ambulanti e i lavoratori domestici”. Il testo dell’Ilo fa il caso dell’India con il 90 per cento o quasi dei lavoratori addetti al settore informale e poco meno di 400 milioni imprigionati nelle limitazioni del Covid-19, nessun lavoro di ambulante ormai possibile e dunque tutti spinti o costretti a trovare una fuga nei villaggi dai quali erano partiti per cercare fortuna in città.

Una riduzione della possibilità di lavorare, guadagnarsi la vita, per uomini e donne che complessivamente devono sopportare un taglio del 6,7% nel lavoro e nel guadagno mette a rischio vero la vita di un miliardo di persone per la durata del secondo trimestre dell’anno 2020, obbliga tutto il mondo dei politici a riflettere e trovare una soluzione. Il terzo trimestre sarà la prova di quello che governi, partiti, confindustrie, sindacati, banchieri, finanza, religioni, terzi settori, eserciti di tutte le latitudini sapranno inventare o fare. Il testo dell’Ilo, puntuale, offre a tutti i lettori l’occasione di saperne di più e di fare un ragionamento sulla storia del mondo; quella dei prossimi anni, del futuro insomma: di tutti insieme e anche – a ben vedere – la propria.

Se la storia del futuro è incandescente e misteriosa, possiamo rileggere alcuni episodi di quella del passato, la storia propriamente detta. Chiediamo a questo fine l’aiuto a uno storico vero, Walter Scheidel, austriaco che insegna alla Stanford University. La sua “opinione”, “The wealthy fear every pandemic” pubblicata in apertura di The New York Times (11-12 aprile 2020) ripercorre millecinquecento anni di storia con un carico pesante di pandemie e di epidemie. Il ragionamento muove dai topi partiti dall’Oriente che hanno portato a Venezia e di lì in Europa la peste detta anche della “Morte Nera”.

Il ricordo di Scheidel muove da una citazione di Boccaccio, meglio un elegante riassunto, che ci permettiamo di reintegrare: “…non bastando la terra sacra alle sepolture e massimamente volendo dare a ciascuno luogo proprio secondo l’antico costume si facevano per gli cimiteri delle chiese, poiché ogni parte era piena, fosse grandissime nelle quali a centinaia i mettevano i sopravvegnenti; e in quelle stivati, come si mettono le mercantie nelle navi a suolo a suolo, con poca terra si ricoprieno infino a tanto che della fossa al sommo si pervenia”.

Alla ripresa dell’attività precedente, a Firenze, oppure nei paesi arabi, secondo quanto tramanda Ibn Khaldun, oppure in Inghilterra negli stessi anni, conclusa la stessa peste, si poteva notare nella società, nelle città, nelle contee, nei regni, un prevalere dei ricchi o dei poveri? In altre parole, i lavoratori ottenevano per lo stesso lavoro, nelle costruzioni, nei campi, nelle botteghe, di più o di meno, oppure lo stesso salario, in moneta o in pane, di prima? L’epidemia che “decima”, nel senso che riduce a un decimo la popolazione vivente, è l’occasione di un aumento dei salari o una loro decurtazione?

Lo storico sa che qualcosa è avvenuta ogni volta. La pestilenza ha sopraffatto la popolazione? O la popolazione povera ha guadagnato qualcosa, tra tanti dolori? Lo storico “preferirebbe” segnalare l’avanzamento, la crescita inarrestabile della classe operaia, secondo l’insegnamento dei classici, ma sa che non è sempre così. Il punto è la forza, soprattutto la forza dei numeri. Se i braccianti sono troppi, il feudatario, il conte, il padrone insomma, può proclamare: “Posso scegliere chi voglio. Se ti va, bene. Se no va bene lo stesso”.

Scheidel ricorda anche gli schiavi e la conquista dell’America latina, dove gli europei hanno portato ogni malattia mortale e i residenti sono stati sterminati. È servito un secolo per restaurare in parte la popolazione originaria. All’inizio i viceré spagnoli hanno ottenuto che i nativi, pur se pochi a lavorare, non potessero ricevere salari bastevoli; occorsero cento e più anni per far sì che “il mercato del lavoro finalmente si aprisse e dopo il 1600 i salari reali nel Messico centrale triplicassero”.

In occasione del Covid-19, suggerisce lo storico, i ricchi si sono organizzati e sono pronti a riaprire, a rischiare le pandemie (dei vecchi, degli altri) pur di rimettersi subito a guadagnare. Sembra che temano – dicono di temere – soprattutto di essere sopraffatti dai loro concorrenti, più ricchi, più abili, meglio appoggiati dai rispettivi governi. Per questo chiedono legislazione di favore ai governi e pace sociale agli operai. Questi ultimi non si fidano, e fanno bene. Non hanno però una visione storica che li difenda e faccia loro ottenere salari più giusti. Il ricatto di fabbriche che “camminano” e vanno altrove, di altri operai, qui e subito, senza lavoro e disposti a salari ridotti, che offrono la via per moltiplicare i guadagni. Una grande alleanza di lavoratori è sempre possibile. Forse questa è la volta buona.