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Controfinanziaria, cambiare si può

In un paese dove il disagio sociale aumenta esponenzialmente i fondi destinati a finanziare i servizi e gli interventi di assistenza alle persone e alle famiglie hanno subito tagli consistenti

Cambiano i governi, ma la ricetta è sempre la stessa. Tagliare la spesa pubblica, in particolare quella sociale: è questo l’imperativo categorico che ci sentiamo ripetere ormai da diversi anni. I diritti sociali di cittadinanza sono ridotti a “costi” da tagliare e si fa strada un modello di welfare “selettivo”, che liquida come “insostenibile” l’universalità di alcuni diritti sociali fondamentali come quelli alla salute, all’istruzione, alla casa, alla protezione sociale. Tutto ciò sulla base di un dato propagandato come “oggettivo”, ma del tutto infondato: quello secondo il quale la spesa sociale italiana sarebbe superiore alla media europea. Il vincolo delle compatibilità macroeconomiche ha così definito il perimetro delle iniziative istituzionali orientate, a partire dalla seconda metà degli anni ’90, a ridisegnare il fragile modello di welfare affermatosi nel nostro paese e caratterizzato dai seguenti elementi: 1) una composizione della spesa sbilanciata a favore della previdenza rispetto ai settori della sanità e dell’assistenza; 2) la centralità dei trasferimenti monetari rispetto alla fornitura di servizi; 3) la dicotomia tra beneficiari forti (lavoratori dipendenti) e beneficiari deboli (soggetti esterni al mondo del lavoro); 4) la residualità dei servizi sociali di sostegno alla persona delegati alla famiglia sulla base della ripartizione tra ruoli produttivi (affidati agli uomini) e ruoli di riproduzione e di cura (affidati alle donne).

Ma il “welfare non è un lusso”. Lo sanno bene i cittadini che sono chiamati a compartecipare in modo crescente alle spese sanitarie e sociali; le migliaia di famiglie che vengono sfrattate ogni anno per “morosità”; i detenuti che vivono in carceri disumane; le persone non autosufficienti costrette a ricorrere all’assistenza privata; i migranti, i profughi e i richiedenti asilo che subiscono le “politiche del rifiuto” a colpi di respingimenti ed espulsioni, ammesso che riescano ad arrivare nel nostro paese. E lo sanno benissimo le donne, sulle quali grava gran parte di quel lavoro di cura non remunerato e non riconosciuto che si aggiunge al lavoro salariato.

Il sistema di welfare, nel contesto di un diverso modello di sviluppo che smetta di mitizzare la crescita e torni a rimettere in campo la priorità del benessere delle persone, potrebbe invece diventare uno dei migliori investimenti per rilanciare l’occupazione: un’occupazione sana, qualificata, umana. Finanziare il welfare è possibile anche in tempi di crisi: con un diverso utilizzo delle risorse, il riorientamento e la riqualificazione dell’intervento pubblico e una maggiore equità fiscale. Del resto i dati parlano chiaro.

L’Italia è sempre più povera

Nel 2012, 3 milioni 232 mila famiglie, il 12,7%, sono relativamente povere e 1 milione 725 mila famiglie, il 6,8%, lo sono in termini assoluti.

Ciò significa che 9 milioni 563 mila persone, il 15,8% della popolazione, vivono al di sotto della soglia di povertà (per una famiglia di 2 componenti pari a una spesa media mensile di 990,88 euro) e che 4 milioni 814 mila persone, l’8% della popolazione, non sono in grado di sostenere la spesa mensile minima necessaria per acquisire i beni e i servizi considerati essenziali per condurre una vita minimamente accettabile.

Tra il 2011 e il 2012 è aumentata sia l’incidenza di povertà relativa (dall’11,1% al 12,7%) sia quella di povertà assoluta (dal 5,2% al 6,8%) in tutto il paese (ma metà delle persone in povertà assoluta vivono al Sud) e per molti sottogruppi di popolazione, in particolare tra le coppie con uno o due figli e le famiglie con a capo una persona in cerca di occupazione. In questo ultimo gruppo di popolazione la quota di famiglie povere è passata dal 27,8% del 2011 al 35,6% del 2012.

Particolarmente allarmante il dato sulle condizioni di povertà dei minori: quelli che vivono in condizioni di povertà assoluta sono 1 milione 0,58 mila: nel 2011 erano 723 mila, l’incidenza è salita dal 7% al 10,3%.

La spesa sociale

Negli anni la spesa pubblica per la protezione sociale è cresciuta, diventando il primo capitolo di spesa pubblica (dal 30% del totale nel 1990 al 40% nel 2011), ma l’efficacia del nostro sistema di welfare è sempre più limitata. La nostra spesa sociale resta molto sbilanciata a favore della previdenza e della sanità a danno dell’assistenza.

Mentre il disagio sociale cresce, i fondi destinati a finanziare i servizi e gli interventi di assistenza alle persone e alle famiglie hanno subito tagli consistenti.

Il Fondo Nazionale delle Politiche Sociali nel 2008 pari a 1,464 miliardi, è sceso nel 2012 a 42,9 milioni di euro. La quota del fondo distribuita alle Regioni e alle Province autonome di Trento e di Bolzano, pari nel 2008 a 656,4 milioni, è scesa fino ad arrivare a 10,8 milioni nel 2012. Solo a seguito di una forte pressione sociale, il dibattito parlamentare sulla legge di stabilità 2013 ha reintegrato in parte i Fondi Sociali stanziando 343,7 milioni (295 i milioni trasferiti alle Regioni) per il Fnps e 275 milioni al Fondo per la Non Autosufficienza, azzerato nel 2011 e ridotto a pochi euro nel 2012. Il Fondo Nazionale Infanzia e Adolescenza è l’unico sostanzialmente stabile, mentre un taglio progressivo ha subito anche il Fondo per le Pari Opportunità che dai 64,4 milioni del 2008 è sceso agli 11 milioni del 2012 e del 2013. Un’evoluzione analoga ha interessato il Fondo per la Famiglia: pari a 346,4 milioni di euro nel 2008, è sceso nel 2013 a 19,8 milioni di euro.

Sono i Comuni a farsi carico del funzionamento dei sistemi sociali territoriali, ma il progressivo taglio dei trasferimenti agli enti locali ha una ripercussione immediata sulla loro capacità di far fronte ai crescenti bisogni sociali delle famiglie. Nel 2010 i Comuni italiani, singoli o associati, hanno speso per interventi e servizi sociali sui territori 7.126.891.416 euro, un valore pari allo 0,46% del Pil nazionale. A tale importo, finanziato per il 62,7% dai Comuni stessi con risorse proprie, si deve poi aggiungere la compartecipazione degli utenti al costo delle prestazioni (pari a 966.862.361 euro) e la compartecipazione del Servizio Sanitario Nazionale per le prestazioni sociosanitarie erogate dai Comuni o dagli enti associativi (pari a 1.220.840.949 euro). Nel confronto con l’anno precedente la spesa sociale comunale è aumentata dello 0,7%, facendo però registrare una discontinuità rispetto alla precedente dinamica di crescita: nel periodo compreso fra il 2003 e il 2009 l’incremento medio annuo è stato, infatti, del 6%. La variazione avvenuta tra il 2009 e il 2010 risulta di segno negativo se calcolata a prezzi costanti (-1,5%), ossia tenendo conto dell’inflazione registrata nel periodo. La spesa comunale media per abitante è passata da 90,2 euro nel 2003 a 117,8 euro nel 2010, ma l’incremento risulta di soli 10 euro procapite se calcolato a prezzi costanti. Notevoli risultano le differenze territoriali: dai 304,4 euro per abitante della Provincia Autonoma di Trento, ai 25,8 euro della Calabria (nel 2009 erano rispettivamente 294,7 e 31,1 euro). La spesa sociale dei Comuni singoli e associati viene impiegata per il 39,1% in interventi e servizi, per il 34,4% in strutture e per il 26,5% in trasferimenti in denaro. Nell’anno scolastico 2011/2012 sono stati 155.404 i bambini di età tra zero e due anni compiuti, iscritti agli asili nido comunali; in 46.161 hanno usufruito di asili nido convenzionati o sovvenzionati dai Comuni per un totale di 201.565 utenti. La spesa impegnata dai Comuni è stata di 1 miliardo e 534 milioni di euro, ma per il 18,8% è stata pagata dalle famiglie, dunque quella a carico dei Comuni è stata di circa 1 miliardo e 245 milioni di euro. Rispetto agli anni precedenti, vi è stata una drastica contrazione della crescita della spesa (+1,5%): i Comuni hanno speso in media 397 euro all’anno per ciascun bambino, 100 euro in meno rispetto al 2004. (Fonte: Istat). Speculare al progressivo disimpegno pubblico nel sociale, è la crescita del ricorso delle famiglie alle collaboratrici domestiche e familiari. Secondo i dati dell’Osservatorio Inps sui lavoratori domestici, gli impiegati in questo settore sono passati dai 553.234 del 2002 agli 881.072 del 2011. Si tratta in grandissima parte di lavoratrici straniere, più di 601.000 nel 2011, alle quali si aggiungono le migliaia di persone occupate al nero, invisibili nelle statistiche. Le collaboratrici domestiche e familiari straniere svolgono un vero e proprio ruolo sostitutivo dello stato nello welfare. Sono loro a prendersi cura della casa, dei bambini e degli anziani. I relativi costi, naturalmente, sono a carico delle famiglie.

Quello che serve

La questione sociale e i diritti di cittadinanza, ignorati dai Governi che si sono succeduti nel corso degli anni, devono rientrare tra gli obiettivi prioritari della politica pubblica del nostro paese. Tagliare le risorse per le politiche sociali significa abbandonare a se stesse le persone più colpite dalla crisi, alimentare la crescita delle diseguaglianze e rinunciare alla coesione sociale, senza la quale non può esistere una “buona economia”.

1. Occorre definire i Livelli Essenziali delle Prestazioni Sociali (Liveas) così come previsto dalla legge 328 tuttora in vigore, in assenza dei quali qualsiasi ipotesi di fissazione dei cosiddetti costi standard rischierebbe di aumentare i divari territoriali e geografici relativi alla garanzia dei diritti di cittadinanza e di far crescere le diseguaglianze sociali.

2. È necessario aumentare le risorse per i Fondi Sociali, investire nell’istruzione, nel sistema di protezione sociale, nei servizi e nelle infrastrutture sociali territoriali, privilegiando gli interventi di qualità rispetto ai sussidi economici caritatevoli come la social card.

3. È urgente promuovere misure che siano capaci di fermare il progressivo impoverimento della popolazione. L’introduzione di una forma di reddito minimo garantito non è rinviabile e i tagli mirati (e non lineari) della spesa pubblica inutile e dannosa (come quella militare e per le grandi opere), l’avvio di un serio piano di lotta all’evasione fiscale, insieme a una maggiore equità fiscale potrebbero garantirne la copertura. Tale misura dovrebbe essere ben meditata nel contesto di una ridefinizione del nostro modello di welfare e di un piano a sostegno dell’occupazione.

4. Non è rinviabile un Piano di edilizia popolare pubblica che, senza cementificare ulteriormente il nostro territorio, affronti il disagio abitativo che attraversa le nostre città ristrutturando gli alloggi popolari esistenti ma non agibili, adibendo ad uso abitativo parte degli immobili di proprietà pubblica in disuso, contrastando il mercato degli affitti al nero e assegnando maggiori risorse al sostegno per l’affitto per le classi più deboli.

Il testo pubblicato costituisce un estratto dal XV Rapporto annuale di Sbilanciamoci!, “Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace, l’ambiente”.

Appuntamento
Contro le diseguaglianze, per i diritti, la pace e l’ambiente

Roma, il 28 novembre alle ore 10.30, presso Fandango Incontro, Via dei Prefetti, 22, la campagna Sbilanciamoci! – all’interno della giornata organizzata con la Campagna 0,05, presenterà il suo XV Rapporto annuale “Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace, l’ambiente”.