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Come dare una pensione ai giovani non garantiti

Dal Rapporto sullo stato sociale, due proposte per evitare una vecchiaia da fame ai giovani lavoratori: integrazione garantita, e l’aumento dei contributi per i parasubordinati

Il Rapporto sullo stato sociale per il 2011 è dedicato a “Questione giovanile, crisi e welfare state”. Pubblichiamo qui alcuni stralci dell’introduzione di Felice Roberto Pizzuti, ossia la parte contenente le proposte sulle nuove pensioni e le conclusioni.

A seguito delle riforme iniziate negli anni ’90, la dinamica della spesa previdenziale, un tempo molto più accentuata, si è allineata a quella del Pil già dal 2006.

Nel biennio 2008-2009 la forbice si è riaperta, ma essenzialmente a causa del forte calo del Pil indotto dalla crisi globale.

Per il futuro, le proiezioni effettuate con il modello realizzato nel nostro dipartimento indicano che il rapporto tra la spesa pensionistica IVS (invalidità, vecchiaia e superstiti, ndr) e il Pil, dopo l’aumento dal 14,3% del 2008 al 15,4% del 2010 (collegato al calo del denominatore), avrà un andamento piatto fino al 2020. Successivamente, è atteso prima un leggero aumento fino al 15,8% nel 2028 e poi la diminuzione continua fino al 13,8% nel 2050 .

Tuttavia, già a partire dal 2025, la pensione media perderà terreno rispetto al reddito medio degli occupati; il rapporto calerà ininterrottamente fino a ridursi del 20% alla metà del secolo cioè quando andranno in pensione i giovani che oggi stanno entrando nel mondo del lavoro.

Il calo della copertura pensionistica offerta dal sistema pubblico sarà naturalmente maggiore per i non pochi lavoratori cui si prospetta la combinazione di una carriera lavorativa discontinua, lunghi periodi di contratti con basse aliquote contributive e retribuzioni salariali modeste.

In effetti, l’evoluzione assunta dal mondo del lavoro successivamente all’introduzione del sistema contributivo sta determinando un problema di copertura pensionistica di notevoli dimensioni che manifesterà maggiormente il suo impatto economico e sociale solo tra 15-20 anni, ma è già adesso che richiede di essere affrontato con modifiche dell’assetto normativo vigente.

Quelle che seguono sono alcune proposte presenti nel Rapporto.

1. Sarebbe auspicabile che le sperequazioni previdenziali generate dalle segmentazioni del mondo del lavoro fossero rimosse alla radice.

Un passo in tal senso sarebbe l’equiparazione al 33% delle aliquote contributive dei lavoratori parasubordinati; in tal modo, oltre a migliorare la copertura pensionistica di questi lavoratori, si eliminerebbe una differenziazione del costo del lavoro economicamente e socialmente distorsiva che incentiva i rapporti di lavoro instabili e i settori produttivi meno innovativi.

Questa misura avrebbe anche il non trascurabile effetto di migliorare da subito e stabilmente il bilancio pubblico di un ammontare pari allo 0,7% del Pil.

2. Nell’ambito del necessario potenziamento del nostro sistema di ammortizzatori sociali, andrebbero previste contribuzioni figurative per i periodi di disoccupazione.

3. Anche in omaggio all’equità attuariale, nel calcolo della pensione si dovrebbe tener conto che le attività lavorative più usuranti riducono la durata di vita: i coefficienti di trasformazione dovrebbero essere corrispondentemente aumentati.

4. In attesa che misure come quelle sopra accennate possano essere decise e avere effetto, occorrerebbe pensare a coloro che, pur essendo entrati nel mondo del lavoro anche da oltre un decennio, hanno accumulato una contribuzione così bassa da aver già compromesso la possibilità di maturare una pensione adeguata.

In primo luogo per costoro, ma per chiunque venisse a trovarsi in queste condizioni, andrebbe introdotto un meccanismo di integrazione pensionistica rispetto alla prestazione calcolata nell’assetto vigente.

Il livello massimo della pensione da garantire dovrebbe essere definito applicando un adeguato tasso di sostituzione alla retribuzione salariale media corrente.

Tuttavia, per disincentivare comportamenti opportunistici, la pensione da garantire a ciascun lavoratore dovrebbe variare proporzionalmente sia alla lunghezza del suo periodo di presenza accertata nel mercato del lavoro (inclusi i periodi di disoccupazione) sia alla sua età al momento del pensionamento.

Anche per limitare l’onere del suo finanziamento, che comunque sarebbe parzialmente bilanciato dalla riduzione dei vigenti assegni sociali, l’integrazione potrebbe essere concessa solo a partire dall’età del pensionamento di vecchiaia e solo a chi ha redditi complessivi inferiori ad un dato limite.

La previdenza complementare

Le adesioni dei lavoratori alla previdenza complementare, che il governo contava di portare al 40% sono arrivate solo al 23%, testimoniando una scarsa propensione dei lavoratori, specialmente i più giovani, a spostare verso i mercati finanziari i loro risparmi.

D’altra parte, a causa dello scarso spessore dei nostri mercati finanziari e della bassa propensione delle nostre imprese a quotarsi in Borsa, soltanto una parte irrisoria di questo risparmio torna a sostenere le nostre aziende come investimento in titoli di capitale; lo 0,9% da parte dei fondi negoziali e il 3,3% da quelli aperti. Anche l’investimento in titoli di debito viene diretto per circa i due terzi all’estero.

5. Per favorire un maggior impiego del nostro risparmio previdenziale nel nostro sistema produttivo e, allo stesso tempo, per offrire ai fondi pensioni nuove forme d’investimento con rendimenti più stabili e costi minori, potrebbero essere pensati nuovi titoli del nostro debito pubblico emessi espressamente per il finanziamento di infrastrutture economico-sociali e per l’innovazione del nostro sistema produttivo.

L’acquisto di questi titoli potrebbe essere effettuato anche direttamente dai fondi pensione, risparmiando i costi dei gestori.

Ma per tutti gli altri impieghi va ribadito il principio della separatezza di funzioni tra gli amministratori dei fondi cui competono le scelte degli indirizzi strategici e la responsabilità professionale dei gestori cui è affidata la puntuale allocazione delle risorse tra i vari titoli finanziari. Questa separazione è indispensabile per garantire la competenza delle scelte allocative e per evitare conflitti d’interesse che in altri sistemi hanno avuto effetti distruttivi del risparmio previdenziale.

6. Il numero complessivo degli iscritti ai fondi della previdenza complementare nell’ultimo anno ha registrato un aumento del 4,3%, che, tuttavia, è la media di una riduzione dell’1,4% nei fondi negoziali e di aumenti del 3,4% nei fondi aperti e di quasi il 30% nei nuovi PIP. Questi andamenti appaiono del tutto irrazionali se si pensa che i fondi negoziali sostengono costi di gestione 6 o 7 volte inferiori rispetto ai fondi aperti e ai PIP e che solo l’adesione ai primi consente ai lavoratori di usufruire dei contributi aggiuntivi dei datori di lavoro.

Evidentemente c’è quanto meno un deficit informativo tra i lavoratori.

Nelle simulazioni delle prestazioni attese a distanza di trenta o quarant’anni che i fondi sono obbligati ad offrire ai loro iscritti sarebbe opportuno sottolineare ulteriormente l’estrema aleatorietà di previsioni riferite a periodi così lunghi. A tal fine, gli scenari adottati dai fondi per le simulazioni dovrebbero essere compresi in una varietà estesa e omogenea che sia stabilita e periodicamente aggiornata dalle autorità di controllo. Attualmente, invece, il prospetto esemplificativo si fonda su un solo scenario e molto ottimistico che, dunque, rischia di ingenerare aspettative di pensioni difficilmente realizzabili.

7. In una organizzazione ottimale del complessivo sistema pensionistico, i fondi pensione privati e a capitalizzazione dovrebbero svolgere un ruolo aggiuntivo, non sostitutivo, rispetto a quello del sistema pubblico, obbligatorio e a ripartizione. A quest’ultimo, per le sue intrinseche caratteristiche di avere costi minori e offrire prestazioni più stabili e meglio allineate alle tendenze economico-demografiche del paese, dovrebbe essere affidato l’obiettivo previdenziale di garantire una adeguata continuità di reddito dopo il ritiro dal lavoro e comunque di erogare pensioni sufficienti alla sussistenza.

La possibilità di estendere sopra questi livelli la copertura pensionistica è certamente auspicabile; ma per come realizzarla, a ciascun individuo dovrebbe essere lasciata la scelta libera e reversibile tra tutti i canali esistenti.

Diversamente da quanto è previsto dall’assetto normativo attuale, ad ogni lavoratore, oltre che iscriversi ad un qualsiasi fondo privato, dovrebbe essere concessa anche la scelta di aumentare la propria contribuzione al sistema pubblico, nella misura e per il tempo voluto.

Questa innovazione produrrebbe diversi effetti positivi.

Considerando i versamenti per il TFR e la contribuzione delle imprese private e dei loro dipendenti, questi lavoratori hanno una potenzialità di contribuzione aggiuntiva a fini previdenziali pari a circa il 10% del costo del lavoro.

Se il 72 % dei lavoratori dipendenti del settore privato che non aderisce ai fondi pensione versasse solo poco più della metà di quella potenzialità contributiva al sistema pensionistico pubblico, andando in pensione a 65 anni, maturerebbero un aumento del tasso di sostituzione di circa sette punti. Allo stesso tempo, per il bilancio pubblico ci sarebbe da subito un miglioramento stabile pari all’1,4% del Pil.

8. In ogni caso, tutte le scelte possibili per incrementare la copertura pensionistica dovrebbero essere trattate in modo fiscalmente omogeneo e comunque nel rispetto del criterio dell’imposizione progressiva, eliminando dunque gli elementi di regressività che attualmente caratterizzano l’adesione alla previdenza privata.

Conclusioni

L’analisi della condizione dei giovani e delle loro prospettive mostra l’esistenza di una vera e propria questione giovanile.

L’indebolimento economico-sociale generato dalle tendenze e dalle politiche affermatesi negli ultimi tre decenni, la conseguente crisi globale e le attuali incerte prospettive penalizzano in maggiori misura i giovani poiché è in questo contesto deteriorato che essi stanno passando all’età adulta.

Sarebbe fuorviante e controproducente attribuire tale esito a un più accentuato conflitto intergenerazionale determinato da comportamenti egoistici dei “padri” verso i “figli”; piuttosto il peggioramento della condizione giovanile è il risultato congiunto di un mutamento strutturale degli equilibri complessivi che nella sua essenza non discrimina tanto in base all’età delle persone, quanto in rapporto alla loro appartenenza a classi sociali, settori produttivi, famiglie e territori d’appartenenza più o meno favoriti o penalizzati dai nuovi assetti economici, sociali e politici.

Per affrontare la questione giovanile vanno intraprese anche politiche specificamente rivolte ad alleviare la condizione della generazione dei giovani d’oggi.

Ma sarebbe illusorio pensare di risolvere questi problemi senza affrontare quelli più complessivi del modello di crescita e di sviluppo venuti al pettine con la crisi globale.

La natura e la dimensione dei problemi, inclusi quelli particolari dei giovani, hanno anche una specificità nazionale.

L’Italia, come altri paesi europei dell’area mediterranea, mostra particolari difficoltà che affondano le loro origini nella maturità del sistema produttivo, nel mercato del lavoro segmentato che genera una selezione avversa delle iniziative imprenditoriali a danno di quelle più innovative, in alcune specifiche inadeguatezze del sistema di welfare e in una progressiva deresponsabilizzazione delle istituzioni che, sotto il vincolo di bilancio, tendono a scaricare problemi tipicamente collettivi sulle famiglie e sugli individui.

Nel Rapporto sono presentate alcune proposte che tendono a disinnescare la bomba previdenziale che sta inesorabilmente maturando nel nostro paese ma, allo stesso tempo, puntano a ridurre le distorsive disomogeneità esistenti nel mercato del lavoro e, non da ultimo, a migliorare il bilancio pubblico.

I problemi dei giovani sono aumentati con la crisi globale la quale si sta manifestando con modalità più eclatanti nel nostro continente perché s’intreccia negativamente con le contraddizioni del processo unitario europeo.

Il superamento di queste contraddizioni favorirebbe la possibilità e l’efficacia di misure comuni necessarie a rilanciare la crescita complessiva e, contemporaneamente, la riduzione degli squilibri regionali.

Il potenziamento e la riqualificazione del cosiddetto Modello Sociale Europeo fondato sui sistemi di welfare pubblici potrebbe giocare un significativo ruolo propulsivo.

Purtroppo, il dibattito sul nuovo Patto di Stabilità non autorizza a pensare che si stia andando in questa direzione.

Tuttavia, i margini per politiche di progresso economico e sociale perseguite autonomamente a livello nazionale sono sempre più ristretti per tutti i paesi membri, anche i più grandi.

Se la consapevolezza di questa circostanza guiderà le scelte degli adulti che oggi hanno maggiori responsabilità decisionali e se essi avranno la capacità d’invertire le tendenze economiche, sociali e politiche sfociate nella crisi globale, la condizione presente e futura delle attuali giovani generazioni di cittadini europei potrà avvantaggiarsene.

Rapporto sullo stato sociale 2011, a cura di Felice Roberto Pizzuti,Simone editore (40 euro)