Il mito della Barcellona risorta con le Olimpiadi del ’92 ha indicato la strada per la rinascita alle altre città europee post industriali. Ma Barcellona è davvero un esempio da seguire?
Il mito della Barcellona risorta con le Olimpiadi del ’92 ha indicato la strada per la rinascita alle altre città europee post industriali. Ma Barcellona è davvero un esempio da seguire?
Nel capoluogo della Catalogna c’è chi, da anni, mette in discussione il suo modello di sviluppo urbano, assurto a dogma da amministratori e media mainstream e preso a riferimento anche da molte città italiane. Tra le voci critiche più interessanti, ci sono i sociologi e antropologi Giuseppe Aricò e Marc Dalmau i Torvà: il primo è membro dell’Osservatorio di Antropologia del Conflitto Urbano (OACU), il secondo, socio della cooperativa La Ciutat invisible, ha partecipato all’esperienza di Can Battló, caso esemplare di recupero del patrimonio industriale da parte della cittadinanza. E’ per conoscere il loro punto di vista che sono venuto qui. E perché la questione urbana è una delle grandi questioni del nostro tempo.
Ogni volta che torno a Barcellona sono preda di sentimenti contrastanti. Da una parte la città sembra avere tutto ciò che si possa desiderare: mare, clima, bellezza e dolce vita. Dall’altra, continua a perdere pezzi della sua identità e assomiglia sempre più ad altre città globali. Cammini a Sant Antoni, un tempo quartiere popolare, e ti sembra di stare a Shoreditch o a Williamsburg, i quartieri hipster più famosi di Londra e New York: ristoranti dalla cucina ricercata, café veg, cibi organici, succhi estratti a freddo, negozi vintage e mobili retrò. E gli affitti in zona sono schizzati alle stelle. Trasformazioni non meno radicali hanno interessato il poco distante Poble Sec, l’ex quartiere operaio ubicato tra il centralissimo Raval e la collina del Montjuic: oggi, tra bar e ristoranti, si contano ben 45 attività commerciali lungo i circa 620 metri della sua “rambla” pedonalizzata. Processi simili, poi, sono in atto anche nel vecchio pueblo di Gracia e nel quartiere del Poblenou, simbolo del passato industriale della città. Per non parlare del quartiere marinaro della Barceloneta, dove invece degli economici chiringuitos di una volta si trovano più ambiziosi gastro-chiringuitos e si sorseggiano cocktail all’ombra di un hotel a vela che fa tanto Dubai.
Emergenza casa
Nessun quartiere viene risparmiato. Si chiama gentrification: chi più, chi meno, chi prima, chi dopo, tutti subiscono una metamorfosi identitaria, che comincia con l’impennata degli affitti e si conclude con la sostituzione di classi medio-basse e basse con classi medio-alte e alte. Idealista, portale online leader nell’ambito dell’ospitalità, sostiene che in alcuni quartieri gli affitti sono saliti addirittura del 15% rispetto ai picchi del 2007, quando si era ancora in piena bolla immobiliare. Un aumento vertiginoso, favorito anche dal proliferare di appartamenti turistici, che, secondo uno studio del comune, sfiorano le 16000 unità, di cui il 40% senza licenza. In una città come Barcellona, ormai una delle principali mete del turismo internazionale, gli affitti brevi rendono molto di più degli affitti a lungo termine e molti proprietari non si sono lasciati scappare l’occasione. Per questo, la sindaca Ada Colau ha intrapreso una battaglia legale contro Airbnb e Homeway, veri e propri colossi di internet nel settore degli affitti a breve termine.
Non è questa l’unica iniziativa dell’attuale giunta per affrontare l’emergenza abitativa, priorità assoluta per Ada Colau, che nel decennio passato è stata protagonista delle lotte per la casa, prima con il collettivo “V de Vivienda” e poi guidando la piattaforma contro gli sfratti (PAH). L’azione della sindaca si sta sviluppando in due direzioni: da una parte, ha predisposto la costruzione di oltre 2000 alloggi da destinare all’edilizia pubblica, oggi ferma all’1,5% contro il 15% della media europea; dall’altra, sta studiando come limitare i prezzi degli affitti. Inoltre, è notizia di questi ultimi giorni, l’amministrazione comunale starebbe preparando in segreto un piano contro la gentrificazione.
A ogni città i suoi palazzinari
Basterà? Secondo Giuseppe Aricò le cose non potranno cambiare in profondità senza puntare il dito contro i veri responsabili: “Un vero cambiamento non può che toccare i poteri forti della città, che hanno nome e cognome: Jose Luiz Navarro, la famiglia Sanahuja, quella Koplowitz e altri grandi grandi investitori immobiliari. Perché tutto inizia e finisce con il settore immobiliare in una città come questa”.
Pensando alla grande speculazione in atto a Roma con lo stadio di Tor di Valle, verrebbe da dire: a ogni città i suoi palazzinari. Palazzinari che a Roma hanno esercitato enormi pressioni per la candidatura dell’Urbe alle Olimpiadi del 2024, sbandierandole come volano economico dai benefici universali: guardate – dicevano – le Olimpiadi di Barcellona come hanno cambiato pelle alla città e guardate Torino che ha seguito quel modello e si è rilanciata con i giochi olimpici invernali del 2006 (dimenticano però di dire che il capoluogo piemontese è così diventato la città più indebitata d’Italia, con una eredità di strutture costruite per l’occasione e costate decine di milioni di euro, oggi in stato di abbandono). I grandi eventi, quindi, vengono universalmente presentati come propulsori della trasformazione, o, come viene chiamata spesso, rigenerazione. In nome di una logica che, in tempi di crisi – soprattutto di idee – è rimasta uno dei pochi appigli a cui aggrapparsi.
Le Olimpiadi come tassello mancante di un lungo processo
Per capirne dinamiche e conseguenze, occorre ripercorrere brevemente la storia di Barcellona. A guardarla bene, emerge un quadro diverso da quello diffuso nell’opinione pubblica: le tanto celebrate Olimpiadi sono state solo un importante tassello di un processo che veniva da lontano e che rispondeva a un’ideologia precisa. “L’origine del modello Barcellona – spiega Marc Dalmau i Torvà – possiamo datarlo con la prima esposizione universale (1888), quando si decise di seguire un modello urbanistico di crescita illimitata, nonostante i limiti geografici”. Ma è circa 60 anni fa che si gettano le fondamenta dell’impianto che conosciamo oggi. Si era allora in pieno franchismo e sullo scranno più alto del governo cittadino sedeva il notaio Josep Maria de Porcioles, longa manus del regime e collante con il catalanismo. Nei suoi ben 16 anni di amministrazione, dal ’57 al ’73, Porcioles avviò uno sviluppo urbanistico senza precedenti, per fare di Barcellona una meta turistico-commerciale di fama internazionale. Come recitava uno slogan del tempo, “Barcellona, città del turismo e dei congressi”.
E’ in quest’epoca che si affermano quelle collaborazioni pubblico-private che guideranno la trasformazione olimpica della città. L’era Porcioles, infatti, sdogana la privatizzazione delle politiche comunali e arricchisce alcuni gruppi immobiliari della città attraverso grandi opere speculative e continue riqualificazioni del suolo urbano. Ritrovare i nomi delle stesse imprese nella maggior parte degli interventi cittadini degli ultimi 50 anni pone qualche dubbio sulla vulgata comune, che suddivide la storia urbanistica di Barcellona in tappe e, soprattutto, in tre fasi distinte: il periodo franchista, la transizione e, infine, l’eldorado felice dell’urbanismo democratico, condiviso per il bene di tutti e simboleggiato dalle Olimpiadi. “Si è soliti pensare – mi racconta Giuseppe Aricò – che abbiamo vissuto un urbanismo del prima, dove non si permetteva la partecipazione cittadina, e un urbanismo del dopo, ispirato dal principio di una città aperta, una città partecipativa. Nonostante gli slogan di allora, le Olimpiadi, però, ci hanno mostrato che non è così: la collaborazione pubblico-privata è stato un trionfo non tanto del pubblico, quanto del privato, ossia degli interessi privati del mercato immobiliare”.
E che un filo accomuni i diversi periodi storici lo si capisce anche dalla continuità dei piani urbanistici. Nel 1976, tre anni dopo la fine dell’amministrazione di Porcioles, fu approvato il piano tutt’ora vigente: alla sua base, l’idea di una città terziaria, fondata sul consumo e abitata in particolare da classi medie e medio alte, che non necessitino di molti servizi. Con buona pace delle classi più basse. Per trasformare i desideri in realtà serviva, però, un grande evento. Porcioles, per il suo piano Pla Barcelona 2000, presentato nel 1967 e poi naufragato in un mare di proteste, lo aveva individuato nell’Esposizione Universale del 1982. Toccherà invece alle Olimpiadi realizzare i sogni di rigenerazione urbana del sindaco franchista e dei grandi gruppi immobiliari.
Che la “riqualificazione” abbia inizio!
Sin dalla prima metà degli anni ’80, in concomitanza con il processo di candidatura di Barcellona alle Olimpiadi, fioriscono i primi interventi di “agopuntura urbana”. “Si tratta – continua Giuseppe Aricò – di micro e piccole operazioni, distribuite a pioggia. E’ nel centro che si è concentrata la maggior parte degli interventi, ma hanno subito trasformazioni anche quartieri considerati periferici, convertiti in nuove centralità”. All’agopuntura urbana si affiancarono, poi, i progetti per aprire Barcellona al mare, recuperando il litorale dalla Barceloneta alla Mar Bella. “L’apertura verso il mare cancellò la storia delle popolazioni che vivevano nei quartieri lungo il litorale”.
L’azione più radicale riguardò il quartiere di Icaria, che venne raso al suolo per far spazio alla Vila Olimpica (Città Olimpica), un quartiere residenziale per ceti abbienti, a due passi dal mare. “E’ il quartiere dei premi Fad, premi d’architettura e interior design, istituiti da Oriol Bohigas, il principale ideologo dei criteri di trasformazione urbanistica della Barcellona democratica”. L’impatto delle archistar si rivela spesso devastante per gli equilibri sociali delle aree in cui operano. E la Vila Olimpica non fa eccezione, incarnando ancora, a decenni di distanza, l’immagine di un “non-quartiere”: composta da blocchi di edifici, progettati da famosi architetti e cinti da giardini privati, ospita vite indipendenti, senza punti d’incontro e relazione e senza attività commerciali. Un “non-quartiere” che esprime una concezione di città esclusiva ed escludente, a scapito dei tessuti sociali pre-esistenti. Un esempio lampante di come rigenerazione non costituisca di per sé una parola positiva, ma possa rivelarsi portatrice di effetti negativi, quando non tiene in considerazione il rispetto della storia di un luogo e dei suoi abitanti.
Città imprenditoriali per un necrourbanismo
Il geografo e urbanista David Harvey, uno dei massimi studiosi di Marx, sostiene che l’urbanizzazione capitalista svolge “un ruolo particolarmente attivo (insieme ad altri fenomeni come le spese militari) nell’assorbire le eccedenze che i capitalisti producono costantemente nella loro ricerca di plusvalore”. Come nota lo stesso autore, questo ruolo pare notevolmente aumentato da quando la crisi degli anni ’70 ha spinto le città a passare da una funzione manageriale, in cui gestivano le risorse fornitegli da Stati keynesiani, a una funzione imprenditoriale, in cui perseguono obiettivi di crescita e si pongono in competizione tra loro.
Il risultato di quest’ultima fase, quella neoliberista, è ciò che Marc Dalmau i Torvà definisce “necrourbanismo”. “Lo chiamo così perché è specialista nel generare spazi vivi per il capitale e per la circolazione delle merci e in cambio uccide, depreda tutti gli spazi pubblici, di convivialità, di reciprocità, di socialità, che è quello che in definitiva dovrebbe caratterizzare qualsiasi spazio pubblico”. La morte della città nella sua vera essenza. “Il capitalismo neoliberista sta uccidendo la dimensione umana delle città e sta costruendo un’altra cosa: metropoli, conurbazioni, spazi totalmente segregati, disciplinati dal perseguimento del plusvalore”. Con impatti tremendi sulla vita delle persone. “La nostra vita va a rotoli. A causa di questo modello, che durante molti anni è stato premiato e preso a riferimento da altre città, veniamo espulsi dai nostri quartieri, dove coltiviamo relazioni, ci aiutiamo e ci procuriamo i mezzi di sostentamento. Per gli urbanisti e i politici responsabili di questo sviluppo può essere un gioco, ma per noi, che siamo di carne e ossa e viviamo tra le pietre del nostro quartiere, è una questione vitale importantissima, perché perdiamo i nostri riferimenti, i nostri spazi comuni e i luoghi di cui ci appropriamo quotidianamente”.
C’è chi dice no
Ma Barcellona è una città tutt’altro che remissiva. Qui, le lotte non sono mai mancate. “Si è soliti pensare – spiega Giuseppe Aricò – che la protesta cittadina sia qualcosa di molto recente, relazionato, non solo qui ma in tutta la Spagna, con i movimenti del 15 maggio 2011 (giorno d’inizio delle proteste degli Indignados, che darà il nome al Movimento 15-M). Questo è un falso mito, perché le lotte hanno caratterizzato questa città sin dal principio del secolo scorso e non sono mai entrate in letargo. Piuttosto, sono state occultate”. Durante le Olimpiadi, ad esempio. “Una protesta nota come l’intifada del Besos (quartiere che deve il suo nome all’omonimo fiume, n.d.r.) riuscì a paralizzare un piano di costruzione di case in vista della celebrazione olimpica”. E da lotte più recenti, alla Barceloneta, usciranno le persone che fonderanno la PAH di Ada Colau.
Lotte che, nonostante qualche importante vittoria, non sono però riuscite a fermare l’onda della trasformazione neoliberista e della conseguente gentrificazione. Con qualche eccezione, come, per esempio, Can Battlò, ex fabbrica tessile ubicata a Santz, quartiere di grande tradizione operaia. Una storia che vale la pena di essere raccontata.
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