Rischi e omissioni nelle 12 proposte legislative chiamate “Fit for 55” con cui Ursula von del Leyen e la Commissione europea hanno aggiornato gli obiettivi del Green Deal per ridurre le emissioni del 55% entro il 2030 istituendo un Fondo sociale per ridurre l’impatto della transizione.
La presidente della Commissione europea Ursula Von Der Leyen insieme ai Commissari Timmermans, Gentiloni, Simson, Aldean, Wojciechowski ha presentato il 14 luglio quello che è uno dei più consistenti pacchetti legislativi mai completati nella sua storia. Il pacchetto di proposte legislative si chiama “Fit for 55”. Si tratta di 8 proposte di revisione di direttive e regolamenti esistenti e di 4 nuove iniziative in materia soprattutto energetica che rappresentano un pezzo centrale del Green Deal europeo, il programma partito due anni fa per portare la UE a essere il primo continente a emissioni zero nel 2050 attraverso una lunga lista di norme in tutti i settori dell’economia, industria, ambiente, accompagnate dal riorientamento e dall’aumento delle risorse a disposizione della UE. Il Green Deal è un elemento chiave di Next Generation EU ed è quindi integrato anche nello sforzo di uscita dalla crisi pandemica intrapreso a livello europeo.
La decisione di aumentare dal 40% al 55% gli obiettivi di riduzione delle emissioni al 2030 e di raggiungere la neutralità climatica nel 2050, racchiusi nella Legge sul Clima che entra in vigore questo mese, sono una conseguenza diretta dei richiami incessanti di scienziati ed esperti, delle grandi mobilitazioni dei “Friday for Future” e della crescente consapevolezza dell’estrema minaccia rappresentata dai cambiamenti climatici non solo per l’ambiente, ma anche per l’economia e la vita tout court. L’idea è cioè che il Green deal sia una “strategia per la crescita” alternativa a quella attuale ancora fondata sui combustibili fossili. Il piano ha anche l’obbiettivo di portarci fuori dalla crisi, di dare nuove prospettive di lavoro e di inclusione sociale, di ridisegnare il nostro modo di muoverci, di abitare, di consumare, il tutto riducendo le diseguaglianze e il nostro impatto su risorse e ambiente.
Un sogno? Forse, e come vedremo i problemi non mancano. Bisogna però riconoscere che al di là del merito, il grande lavoro fatto dalla Commissione europea, con il suo scarso (in termini numerici) e spesso criticato staff, è stato davvero straordinario e rappresenta il senso e l’utilità del progetto europeo. In questi mesi c’è stato anche uno sforzo reale di ascolto dei vari attori in campo, dalle ONG all’industria, anche se ovviamente alcune voci sono forse state più ascoltate di altre.
Citiamo per capi. Le proposte di direttive, regolamenti e altre iniziative riguardano l’aumento degli obbiettivi per rinnovabili, efficienza energetica, la riorganizzazione del sistema di scambio delle emissioni (ETS) e la sua controversa estensione al settore degli edifici e dei trasporti, il regolamento detto di “condivisione dello sforzo” per l’abbattimento delle emissioni nei settori finora non coperti dall’Ets, la tassazione energetica, che prevedeva finora stimoli ai combustibili fossili, l’uso del suolo, le misure a tutela della silvicultura, la strategia forestale, le norme più stringenti per ridurre le emissioni di automobili e furgoni, le regole per le infrastrutture per i carburanti alternativi (leggi ricariche per mobilità elettrica) e per i carburanti per aviazione e navigazione, le misure per imporre dazi ad importazioni ad alto contenuto di CO2 (misure di adeguamento del carbonio alle frontiere). E infine la proposta di un Fondo Sociale per il Clima con l’obiettivo di attenuare il rischio del riproporsi di contestazioni come quelle dei “gilets jaunes” come reazione di rigetto di queste misure da parte dei settori sociali più in difficoltà. Il Fondo verrebbe finanziato con 72,2 miliardi di risorse europee provenienti per il 25% dai proventi del sistema di scambio di emissioni e potenzialmente da altrettante nazionali nei prossimi 7 anni.
Nei prossimi mesi il pacchetto sarà completato dalle linee guida per l’applicazione concreta del principio “Energy efficiency first”, il super controverso pacchetto sul gas, la direttiva sugli edifici e le nuove linee guida sugli aiuti di Stato, tutti aspetti molto importanti dell’agenda sul Green deal. Ora la parola passa al Parlamento Europeo e al Consiglio dei rappresentanti degli Stati, che sono co-legislatori a pari livello. Si prevede che i negoziati dureranno per tutto il 2022.
La proposta della Commissione è un insieme di migliaia di pagine di norme e articoli e ci vorrà un po’ per digerirli tutti, ma già possiamo fare alcune considerazioni generali.
Innanzitutto, il pacchetto è al centro dell’attenzione di due forti tendenze, che vanno in senso diametralmente opposto, come è evidente da alcune delle primissime reazioni. Da un lato ci sono le voci di coloro che pur non potendo più negare che i cambiamenti climatici esistono e vadano governati, dopo avere per anni impedito di agire per tempo, oggi continuano a spingere per ritardare, fare distinguo, chiedere prudenza, usando l’argomento sicuramente importante della salvaguardia dei posti di lavoro per non attrezzarsi a cambiare e soprattutto pretendono il privilegio di continuare ad essere esentati dai costi reali della transizione, che anche in questo pacchetto continuano ad essere in buona misura scaricati su cittadini e finanze pubbliche. Parliamo di una parte ancora troppo importante dell’industria automobilistica ed energivora che soprattutto in Germania (e quindi in Commissione), ma anche in Italia, ha un impatto davvero sproporzionato data la sua capacità di influenza e la sua disponibilità economica nel fare lobby a tutti i livelli (vedi le dichiarazioni di Cingolani sul “bagno di sangue” rappresentato dalla transizione ecologica).
Dall’altro lato della barricata c’è invece l’evidenza dell’accelerazione dei fenomeni distruttivi e di grande e negativo impatto dei cambiamenti climatici, dello sfruttamento eccessivo delle risorse e dell’inquinamento, fenomeni che non permettono di perdere tempo. Bisogna liberarsi al più presto della dipendenza dai fossili, gas incluso. L’attivista Greta Thunberg in un recente intervento, durissimo e lucidissimo, denuncia come le azioni intraprese potrebbero essere molto positive perché siamo ancora in tempo per invertire la marcia. Ci sono però ancora troppe scappatoie e ambiguità. Ad esempio continuano investimenti e sussidi miliardari ai fossili e le politiche in atto non sono assolutamente abbastanza radicali mentre i governi si danno a un green-washing continuo e irresponsabile. È chiaro che la trasformazione necessaria sarà difficile e dura.
La drammaticità e la necessità di accelerare gli interventi è la conseguenza del grande ritardo accumulato e più tempo si perde facendo scelte a metà e peggio sarà anche dal punto di vista della sostenibilità e del consenso sociale. L’alternativa di frenare in ogni caso lo sarebbe ancora di più.
Se scegliamo il secondo punto di vista, è chiaro che il pacchetto presenta molti punti deboli e che bisognerà mettere in atto una mobilitazione notevole in Italia e in Europa per poterlo migliorare. Peraltro, se in Europa esistono gli strumenti di relativa trasparenza per capire chi dice cosa e chi preme in quale direzione, è molto più difficile vedere come si forma la posizione che l’Italia rappresenta in Europa su questi temi, data l’assenza di dibattito pubblico, il disinteresse dei media e l’opacità dei meccanismi di controllo.
Il macroscopico punto debole del pacchetto sta nel tentativo della Commissione di trovare una impossibile ed inefficace mezza via tra i due orientamenti spiegati più sopra. Questo tentativo rischia di mettere in pericolo l’essenza stessa del Green Deal, come denunciano da tempo le associazioni ambientaliste europee riunite in “Climate Action Network” o EEB, ma anche diverse associazioni dell’industria più consapevole dei rischi e anche delle enormi opportunità che esistono in termini di business, competitività e lavoro.
L’origine della debolezza del pacchetto sta nel target insufficiente di riduzione delle emissioni del 55% per il 2030 inserito dalla Legge sul Clima dopo una battaglia furibonda. La scienza considera necessario che l’UE contribuisca con una riduzione di emissioni del 65% entro il 2030 al raggiungimento dell’obbiettivo globale di 1,5° massimo di riscaldamento del pianeta entro la fine del secolo. Dunque ci vorrebbe un aumento delle rinnovabili e dell’efficienza rispettivamente del 50% e del 45% . Gli obbiettivi proposti di aumento di rinnovabili (40%) e di efficienza energetica (36%) sono pertanto insufficienti ad avvicinarci alla neutralità climatica nei limiti stabiliti dagli scienziati.
Altro elemento di grandissima preoccupazione – perché se è vero che la trasformazione è urgente e necessaria, è anche vero che i suoi costi devono essere sostenuti in modo equo – è la proposta di ampliare il sistema di scambio di emissioni. Questa misura ha lo scopo di spingere al cambio di sistema, aumentando i prezzi delle tecnologie più inquinanti, i settori edile e dei trasporti, mantenendo allo stesso tempo fino al 2035 un sistema di esenzioni e vantaggi per le industrie energivore. E ciò al contempo non facendo nulla per ridurre i sussidi pubblici ai settori “fossili” (in Italia 19 miliardi di euro all’anno).
È evidente che in questo modo si segue il modello tedesco di fare pagare ai cittadini il costo della transizione. Modello improponibile per una parte importante della UE e un’arma formidabile in mano ai boicottatori del Green Deal. Non a caso le prime voci “fossili” che si sono levate hanno usato l’argomento dei costi sociali per respingere le misure più ambiziose del pacchetto ritenendole insostenibili.
Personalmente, sono anche abbastanza diffidente sulle assicurazioni date dalla Commissione rispetto alla capacità dell’istituendo Fondo sociale di coprire davvero i costi dei vantaggi concessi all’industria poco green, ma anche all’agricoltura che resta il settore meno toccato dalle nuove regole del Green Deal e l’unico per il quale non esistono obblighi numerici di riduzione delle emissioni.
Come ha sottolineato recentemente la Corte dei Conti Europea il principio di “chi inquina paga” è applicato in modo ancora inefficace nella UE e fondi pubblici coprono costi che dovrebbero essere gli inquinatori a pagare. Quindi c’è il rischio che anche questo fondo copra spese (magari per incrementare l’acquisto di auto elettriche) che alla fine finirebbero per avvantaggiare ancora una volta settori restii a contribuire direttamente alla transizione. Peraltro, questa politica di sconti ed esenzioni ha finora fortemente rallentato la decarbonizzazione di una parte importante dell’industria e del settore agricolo europei. E’ molto prevedibile che le lobby agiranno molto attivamente per mantenere i loro privilegi nell’imminente processo legislativo.
Preoccupa anche l’insistenza sul potenziale dell’idrogeno e delle biomasse come nuove soluzioni miracolose, a discapito di una valorizzazione dell’economia circolare e del cambio di modelli di produzione e consumo, che sarebbe invece molto più tempestivo ed efficace sia per la decarbonizzazione.
Ci sono numerosi aspetti molto positivi e molto importanti da difendere con le unghie e con i denti nel pacchetto. Dalle misure sull’efficienza energetica, che estendono obblighi sfidanti a tutte le attività del settore pubblico, dall’acqua agli edifici, ed escludono i risparmi ottenuti con dispositivi fossili, all’importanza del principio dell’efficienza energetica prima di tutto; dall’inclusione delle emissioni marittime e dell’aviazione nell’ETS, all’allineamento della fiscalità energetica sugli obiettivi climatici, alle misure che faciliteranno l’istallazione di energie rinnovabili (in Italia dovremmo moltiplicarle per 6 per realizzare i nostri obiettivi). Ma è chiaro che ancora nulla è acquisito e il lungo percorso verso la neutralità climatica dell’UE, che ci permetterà di giocare a pieno il ruolo positivo ed essenziale che ci siamo dati nella battaglia globale per il clima, è ancora irto di ostacoli.
Resto perciò convinta che solo una ripresa potente e immediata, dopo lo stop imposto dal COVID, della mobilitazione dei giovani (e meno giovani) dei “Fridays for Future” e di tutto l’associazionismo ambientalista e non solo, un controllo stretto del processo legislativo da parte dei media, del mondo accademico, dell’impresa e agricoltura green potranno spingere le istituzioni a tutti i livelli a rinunciare alla loro persistente dipendenza fossile e a realizzare pienamente il Patto verde europeo.