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Città che osano la selvaticità

Animali selvatici si riprendono le città deserte di uomini e ci ricordano che è proprio il rapporto con la natura non addomesticata ad averci portato a questa pandemia. Ed è bene allora dare più slancio ai piani di rinaturalizzazione delle aree urbane.

Lo stupore e una certa emozione circola sul web nel vedere che nelle nostre città, come molti stanno dicendo e segnalando, la natura si riprende i suoi spazi e stanno migliorando la qualità dell’aria e delle acque. Dunque anche nelle nostre, in genere inquinatissime e congestionatissime, aree metropolitane, dove in genere il nostro orizzonte visivo e mentale è dominato dal grigio, del territorio edificato, invece che dal verde, dei sistemi naturali, improvvisamente irrompe la vita selvatica. Certo, siamo in una condizione eccezionale, dovuta ad un’emergenza sanitaria senza precedenti che ci auguriamo non possa ripetersi. In una condizione sospesa, però, durante la quale, in questo come in altri campi, potrebbe essere avviata o accelerata una riflessione sulla realizzazione di un rapporto più equilibrato tra città e sistemi naturali, nella consapevolezza che la natura nei nostri centri urbani può contribuire a migliorare non solo la nostra qualità della vita, ma il nostro benessere e le nostra salute.

Un rapporto interessante riguarda una quota significativa della popolazione del nostro pianeta su scala globale, comunitaria e nazionale, visto che nelle aree urbane – secondo la relazione Onu Worl Urbanization Prospects 2018 – vive oggi circa il 55% della popolazione mondiale. E al 2050 si stima che vi risiederà il 68% dell’umanità. Mentre in Europa due terzi della popolazione del continente (500 milioni di persone) già oggi vive nelle città e in Italia l’Istat ha rilevato che, al 2016, i comuni italiani con un’alta urbanizzazione rappresentano meno del 5% del territorio, ma accolgono più del 33% dei cittadini.

Le agenzie che ci occupano di salute, a cominciare dall’Organizzazione mondiale della Sanità, ci dicono chiaramente che l’inquinamento atmosferico e il cambiamento climatico – che vengono amplificati dalla cementificazione e dalla densità edilizia – sono tra i fattori di rischio per tutta la popolazione. Come giustamente viene ricordato nel report “Urban Nature 2018” del Wwf  dall’Associazione nazionale pediatri, la perdita progressiva di superficie verdi a causa dell’urbanizzazione rappresenta in Italia un rischio concreto per la popolazione e per i soggetti più fragili come i bambini, le donne in gravidanza, gli anziani. La presenza di aree verdi, di converso, in tutte le parti del mondo ha un effetto molto importante nel miglioramento della qualità dell’aria (riducendo ad esempio la concentrazione di Pm10 e di ozono), nell’assorbimento di Co2, nella mitigazione delle ondate di calore e più in generale nell’assorbimento dell’inquinamento e del rumore.

Queste cose, le dovremmo sapere, ma nella vita quotidiana ce ne dimentichiamo, fino a perderne la cognizione. Dovremmo capire, invece, come superare questa deprivazione emotiva, per stare meglio ed avere un rapporto più equilibrato e salubre con la natura. C’è anche il risvolto della medaglia. La rimozione del nostro rapporto precauzionale nelle relazioni con i sistemi naturali rischia di  portarci ad essere avventati e a mettere a rischio le nostre comunità. E’ quello che risulta sia avvenuto nel mercato di Wuhan in Cina (città con 12 milioni circa di abitanti)  in una situazione in cui l’epidemia dovuta ad una zoonosi  è stata ingigantita e accelerata, come ricordato dalla virologa Ilaria Capua, dalla insorgenza della malattia in una megalopoli densamente abitata e con fitte e articolate relazioni commerciali con il resto del mondo.

Per quanto siamo stati abituati a vivere in un ambiente artificiale, creato e plasmato dall’umanità dovremmo sempre tenere bene a mente  che, come ricordato da Gianfranco Bologna, presidente onorario del Comitato Scientifico del Wwf Italia –  sulla base di quanto sostenuto nel Millenium Ecosystem Assessment, e nei rapporti del programma Teeb –  The Economics of Ecosystems and Biodiversity  e di Ipbes  Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services  – : “La nostra specie proviene dall’evoluzione naturale, dipende da essa e senza di essa non può vivere, come ci documentano tutte le ricerche svolte nei numerosi campi disciplinari scientifici (dalla genomica alla biologia evolutiva dello sviluppo). Senza una biodiversità in salute è impossibile pensare ad uno sviluppo sostenibile dell’umanità. E ancora che: “Lo stato di salute della biodiversità della Terra costituisce una reale sicurezza, per mantenere la capacità di resilienza dei sistemi ecologici e garantire le prospettive del futuro benessere e sviluppo delle società umane”.

Prendiamo, dunque, quegli animali che bussano alle porte delle nostre città e delle nostre case come dei messaggeri di un patto per la natura e le persone – volendo parafrasare un forte messaggio che è stato lanciato in occasione dell’ultima Assembla Generale dell’ONU lo scorso settembre dal WWF internazionale, che in realtà non è mai venuto meno e che troppo spesso e con troppa leggerezza ci dimentichiamo.

I tursiopi che dapprima hanno costeggiato i moli del porto di Cagliari e poi hanno fatto capolino nelle rade degli altri porti italiani, da Trieste a Reggio Calabria. I pesci, i cigni e le anatre nelle acque lagunari, per una volta cristalline, che si insinuano nei canali di Venezia. Come le lepri nelle aree verdi a nord di Milano e i cigni nei Navigli e i lupi che si avventurano persino nelle strade di Pescara, sono tutti lì a testimoniare che l’effetto barriera creato dalle nostre muraglie di cemento e mattoni, dalle nostre distese di asfalto, è in realtà inesistente. E è bene che lo sia nel modo con cui ci rapportiamo con il territorio e con la natura.

Certo è che in Italia abbiamo fatto di tutto per cancellare questa interazione, come viene confermato negli studi prodotti per il Wwf dal gruppo di ricerca dell’Università dell’Aquila coordinato dal professor Bernardino Romano. Lo studio, prendendo in esame la relazione tra territorio urbanizzato e la rete Natura 2000 – le aree di maggior pregio naturalistico tutelate dall’Unione europea – rileva come nella fascia chilometrica di immediata adiacenza dei SIC negli anni ’50 c’erano 84.000 ettari di aree urbanizzate, divenuti poi oltre 300.000 dopo il 2000, con un incremento medio del 260%, con una accentuazione importante della insularizzazione di questi habitat strategici.

Questa frammentazione, in un territorio come quello del nostro Paese dove l’insediamento presenta una densità media di circa il 7% di aree urbanizzate (più un 3% di superficie stradale extraurbana) e dove si riscontra una elevata densità demografica (quasi 200 abitanti/km2), dovrebbe portare ad una ricucitura eco-funzionale dei SIC (che occupano uno spazio medio su scala nazionale di 10 ettari, ogni km2) in reti ecologiche definite dalle Regioni. Ma le Regioni italiane nelle quali una rete ecologica territoriale “disegnata” è entrata a far parte delle normative ordinarie di controllo delle trasformazioni urbane, sono pochissime (Umbria, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana e Marche).

Andiamo ad esaminare quanto siano verdi le nostre città più importanti. Ed è sempre il gruppo di ricerca dell’Università dell’Aquila, ad aver prodotto studi specifici sulle 14 aree e città metropolitane italiane (Cm) – quali  Torino, Milano, Venezia-Mestre, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Cagliari, Bari, Reggio Calabria, Messina, Catania, Palermo. Queste aree, pur interessando solo l’1,2% del territorio nazionale, ospitano attualmente ben il 16% della popolazione italiana (9 milioni e mezzo di persone: delle quali 2 milioni e 800 mila e 1 milione e 300 mila, concentrate, rispettivamente, solo a Roma e Milano.  Da questi studi emerge che il patrimonio di verde (pubblico e privato) progettato e inglobato nelle 14 Cm ammonta complessivamente a circa 1.200 km2 – un’estensione equivalente a 4 volte l’area urbanizzata della città di Roma inclusa nel Gran raccordo anulare-, con 465 km2  concentrati nelle aree metropolitane di Roma e di Milano, che ospitano da sole più del 35% delle aree verdi urbane. La copertura media considerata su scala nazionale del verde urbano (pubblico e privato) nelle Cm è quindi del 30% della struttura urbana, ma le singole realtà urbane sono molto differenziate: si passa dal 42% di Bologna al 9% di Cagliari. 

I nostri maggiori insediamenti urbani, nonostante un’urbanizzazione imponente dal secondo dopoguerra ad oggi, sono quindi, inaspettatamente più verdi di quanto ci immaginiamo, come testimonia la ricchezza della stessa biodiversità urbana. D’altra parte, la dotazione di verde dovrebbe essere nella nostra pianificazione pubblica fin dagli anni ’60, quando venne introdotto lo “standard” di verde pubblico obbligatorio e “minimo inderogabile”. Infatti, per quanto ci ostiniamo a rimuoverla e a cancellarla, molte sono le specie animali e vegetali con cui conviviamo nelle nostre città.

Sebbene spesso percepite come un ambiente del tutto artificiale e antropizzato, in realtà le nostre città e borghi racchiudono una biodiversità inaspettatamente ricca, e non solo grazie agli animali da compagnia che vivono nelle nostre case. Accanto alla presenza di aree semi-naturali o ri-naturalizzate, come campi agricoli, orti urbani, parchi e giardini, a uno sguardo più attento, anche i più piccoli lembi delle nostre strade, case e palazzi ospitano moltissime specie che hanno imparato a sopravvivere in questi ambienti difficili, ma dove proprio per questo la competizione con altre specie meno adattabili è minore rispetto ad ambienti più naturali, il cibo è più disponibile e le temperature più miti. 

Basta guardare bene le fessure nell’asfalto o tra i mattoni per scorgere piante come la bocca di leone e la verbena selvatica, la parietaria  e la violaciocca. Sui muri esterni delle case è possibile ammirare l’edera e il cappero, mentre nel terreno più ombreggiato ai piedi di mura e ruderi troviamo spesso la celidonia e l’ortica, tra cui volano farfalle come le bellissime vanesse. Ma le piante non sono le uniche colonizzatrici di questi ambienti così particolari: possiamo trovare anche i licheni, come la flavoparmelia e la xanthoria. 

Tetti e coppi sono “location” perfette per i nidi di balestrucci e rondoni, che nonostante l’apparente somiglianza, appartengono a generi diversi. Taccole, merli, cornacchie grigie, le varie specie di passeri, e ovviamente i piccioni, sono tra le specie più comuni. Ma sul far della sera non è difficile udire il richiamo di rapaci notturni come la civetta, mentre è più facile scorgere le evoluzioni delle varie specie di pipistrelli a caccia di falene e zanzare. Monumenti, tetti e ruderi sono casa di lucertole muraiole e nelle zone a clima più mite come le coste, anche del geco comune e del geco verrucoso. 

Ma è nei parchi cittadini e di periferia, tra prati, arbusteti e veri e propri boschi, che la biodiversità esplode in maniera ancora maggiore. In città come Roma o Napoli sono state censite oltre 50 specie di uccelli, come la colorata ghiandaia o rapaci come il barbagianni. A terra, soprattutto nelle ore crepuscolari, con un po’ di silenziosa attesa, è possibile scorgere il movimento furtivo della volpe, mentre altri mammiferi come tasso, faina e riccio attendono la notte per muoversi e alimentarsi. Le zone umide e i fiumi cittadini meno inquinati rappresentano habitat ideali rispettivamente per anfibi come la rana verde e il rospo smeraldino o talvolta il più acquatico tritone crestato italiano, e per pesci d’acqua dolce, come la carpa e la scardola mentre sulle loro rive abbondano il salice e la salcerella con i suoi fiori purpurei. 

Consapevoli o no, siamo in una relazione costante, quotidiana con la biodiversità urbana, senza quasi accorgercene, con specie che si adattano e si diffondono, malgrado noi, e con cui faremo meglio a convivere. Perché ne vale non solo del miglioramento della nostra qualità della vita, ma del nostro benessere, della nostra salute e anche della nostra sicurezza.

Perché  una più matura comprensione e consapevolezza che la pianificazione e la progettazione di spazi liberi e la conservazione di sistemi naturali resilienti, anche in ambito urbano, non è solo necessaria ad affrontare le quotidiane emergenze indotte dal cambiamento climatico, ma è cruciale per assicurare un futuro a sistemi urbani. La liberazione di spazi edificati abbandonati e delle nostre aree golenali e la loro ri-naturalizzazione con l’applicazione di “nature based solution” (ad es. deimpermeabilizzazione, pianificazioni di “vegetalizzazione” delle città come nel caso di Parigi e Lione) garantisce la resilienza dei sistemi naturali e la migliore convivenza con i nostri corsi d’acqua e con i fenomeni meteorologici estremi, favorendo l’assorbimento nel suolo e la laminazione delle acque. Sulla più ampia scommessa della convivenza tra natura e città troviamo consolidati esempi in Europa e anche nel nostro Paese, che dovrebbero stimolarci alla riflessione, alla progettazione e all’azione di città diverse, intese come sistemi con-viventi.

Nel luglio 2019 Londra ad esempio – come ci ricordano Gianni Celestini del dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi La Sapienza di Roma e Annalisa Metta del dipartimento di Architettura dell’Università Roma Tre nel loro contributo al Report Urban Nature 2019 del WWF – si è proclamata prima National Park City al mondo (Npc). Un progetto concepito proprio per rendere questa città – capitale del Regno Unito, dove vivono circa 9 milioni di abitanti e punta di diamante delle città europee – ”più verde, più salubre, più selvaggia” e capace di rispondere  più adeguatamente alle sfide derivanti dai cambiamenti climatici. Un progetto sostenuto sino in fondo dall’amministrazione comunale, presieduta dal sindaco Sadiq Khan, con strumenti di pianificazione strategica quale la strategia ambientale e il piano urbanistico- territoriale, con l’obiettivo di realizzare una copertura verde del 10% della città entro il 2050,  grazie alla piantumazione di 250 mila nuovi alberi e la realizzazione di 250 nuove aree verdi nell’arco di soli tre anni, aumentando così la quantità e la qualità del verde urbano, migliorando gli habitat per la vita selvatica, diffondendo tetti e muri verdi al fine di migliorare la biodiversità urbana e combattere meglio i cambiamenti climatici.

La cerimonia per l’istituzione di “London national Park city”  ha coinciso con il lancio della Universal Charter of National Park Cities, che così definisce la città-Parco nazionale: «È un luogo, una visione e un’ampia comunità urbana che lavora congiuntamente per migliorare l’esistenza delle persone, delle forme di vita selvatica e della natura» (AA.VV., 2019).  Sul modello di Londra, altre città del mondo si sono organizzate nella The National parco city Foundation” e cresce l’attesa su quale sarà la prossima città capace di seguirne l’esempio, con Glasgow, in Scozia, e Adelaide, in Australia, a contendersi la seconda posizione. L’ambizione dichiarata dall’organizzazione è di avere venticinque Npc nel mondo entro il 2025

In campo c’è anche il progetto “Clever Cities”, finanziato con i fondi europei Horizon,, che ha come obiettivo di indicare soluzioni praticabili per una trasformazione urbana basata sulla natura per città sostenibili e socialmente inclusive in Europa, Sud America e Cina. Le città capofila sono, ancora una volta, Londra e, poi, Amburgo e Milano, con le proprie amministrazioni comunali che fanno parte di una squadra globale che coinvolge anche realtà europee ed extraeuropee come Belgrado, Larissa, Madrid, Malmo, Sfantu Gheorghe e Quito. 

Ed ecco che sempre a Londra in un’area suburbana, si prevede un intervento da 1,5 miliardi di sterline per la rigenerazione urbana con riprogettazione e recupero degli spazi verdi e di zone umide con nature based solutions a Thamesmead un insediamento multiculturale di 45mila persone sorto negli anni 60 nel quadrante nord ovest della capitale UK, che sorge sulla sponda destra Tamigi.

Poi c’è il progetto di Amburgo che si affaccia sul Mare del Nord ed è attraversata dal fiume Elba,  – seconda città della Germania e primo porto della Repubblica federale tedesca, abitata da 1,7 milioni di abitanti –  in cui si prevede  di realizzare un corridoio ecologico est-ovest per collegare il resto della città con i quartieri, del quadrante sud ovest della città, di Neugraben-Fischbek, due villaggi ricchi di storia che sono stati inglobati negli anni trenta nell’area urbana, in cui si pensa anche di migliorare la biodiversità e di realizzare tetti verdi. 

A Milano- 1,5 milioni di abitanti –  il progetto Clever prevede lo sviluppo di una campagna partecipativa di promozione, mirata alla diffusione di  progettazioni sperimentali per la realizzazione di tetti e facciate verdi in tutta la città e anche di due importanti azioni mirate per: la realizzazione di un nuovo parco per Giambellino 129, con lo sviluppo di aree verdi pubbliche  progettate, realizzate, e gestite con procedure partecipate; il monitoraggio e l’integrazione sperimentale del verde nell’area della Stazione Tibaldi, che fa parte delle infrastrutture ferroviarie localizzate a Sud di Milano.

A Madrid – la capitale spagnola che conta circa 7 milioni di abitanti –  si prevede, sempre nell’ambito del progetto “Clever Cities”, un progetto nel distretto di Usera (localizzato nell’area sud-est della città dove vivono 134mila abitanti) con interventi per migliorare la qualità degli spazi verdi e favorire l’adattamento ai cambiamenti climatici di un’area densamente abitata e la realizzazione di un corridoio ecologico che colleghi i due parchi più importanti di quest’area di Rio e di Pradolongo.

Nel caso di Amburgo e Milano oltre a quanto queste città stanno facendo nell’ambito del progetto “Clever Cities”, si devono anche, brevemente, ricordare le iniziative già consolidate in queste importanti centri della vita economica e sociale europea. Nel caso di Amburgo, “Capitale Verde d’Europa 2011” (come vedremo qui di seguito) la sua esperienza di punta è nota e consolidata data la scelta lungimirante del progettista urbano Fritz Schumacher, che già all’inizio del secolo scorso propose un piano basato su un “concetto assiale” per offrire ai cittadini di Amburgo un immediato accesso alla natura dotandola di un’alta percentuale di verde. Si deve anche menzionare la realizzazione, avviata 5 anni fa, del programmaGrünes Netz” (Green Network), che ha lo scopo di collegare le due grandi aree verde poste a Nord e a Sud della città con una fitta rete di parchi, giardini pubblici, piste ciclabili, con l’obiettivo in 20 anni di potere attraversare tutta la città a piedi o in bicicletta, immersi nella natura e avendo abbattuto significativamente l’inquinamento atmosferico e le emissioni di gas serra. Milano, invece, può innanzitutto vantare la realizzazione nel 2014 del “Bosco verticale” (due palazzi residenziali a torre progettati da Boeri Studio situati nel Centro direzionale di Milano, ai margini del quartiere Isola) che presenta più di duemila essenze arboree, tra arbusti e alberi ad alto fusto, distribuite sui prospetti. Il capoluogo lombardo ha lanciato, inoltre, il 22 novembre 2019 il Fondo ForestaMi, che come dichiarato  dal sindaco Giuseppe Sala in occasione  World Forum on Urban Forests Milano calling 2019 si pone l’obiettivo di piantare in tutta la città e nell’area metropolitana un totale di tre milioni di nuovi alberi entro il 2030, grazie ad un progetto di forestazione urbana (che prevede anche interventi in parchi urbani e zone umide e interventi di forestazione di fontanili, compensazioni ambientali e depavimentazione di parcheggi), proposto, già a partire dal 2018, dal Politecnico, di Milano in cui sono coinvolti istituzioni, imprese, associazioni, cittadini. Progetto che, a partire dal 2018, ha già consentito di piantare già 85mila alberi che diventeranno 200mila nella primavera 2020.

Su scala continentale esiste poi l’iniziativa lanciata nel 2008 dalla Commissione Europea dello European Green capital Award, affiancata dal premio “Green Leaf City” per le città più piccole. La prima edizione, nel 2010 ha visto assegnare il “Green Capital Award” europeo a Stoccolma anche per la qualità dei suoi interventi per le migliorare la biodiversità nelle ampie aree verdi della capitale svedese. 

In tempi più recenti la Capitale Verde europea del 2016 è stata la città slovena di Lubiana che ha realizzato interventi per preservare e incrementare il verde urbano e puntare a una migliore gestione delle acque. Nel 2017 è stata la volta di Essen – la nona città più grande della Germania con oltre mezzo milione di abitanti, situata nella zona della Ruhr, dove nel 1986 è stata chiusa l’attività di estrazione del carbone –  che ha realizzato corridoi verdi e d’acqua all’interno della città e sta investendo in infrastrutture verdi per incrementare la biodiversità e far fronte ai cambiamenti climatici. Nel 2018 è stata scelta invece la città olandese di Nijmegen, Nimega, per la sua visione ambientale chiara e integrata della pianificazione urbana. Nel 2019 ha vinto Oslo, la capitale norvegese che è circondata dal parco nazionale della Marka Forest e che ha deciso di riqualificare il sistema di aree verdi e di canali d’acqua navigabili che la collegano all’area protetta e al suo fiordo. Nel 2020, infine, il premio è stato assegnato a Lisbona, la capitale portoghese, per la realizzazione della sua strategia ambientale che ha portato, tra l’altro, a far conseguire al Parco urbano di Monsanto la “Sustainable Forest Management Certification” e a realizzare il corridoio ecologico della valle dell’Alcantara, creato per favorire la biodiversità urbana.

Di grande interesse – come ci viene sempre ricordato dagli architetti Celestini e Metta –  ci sono anche ambizioni programmi nazionali.

In Germania il governo centrale – attraverso il Ministero dell’Ambiente e l’Agenzia Federale per la Conservazione della Natura – sta finanziando il programma “Città che osano la selvaticità” per supportare progetti di rinaturazione urbana nelle tre città pilota di Hannover, Francoforte e Dessau-Roßlau nel periodo 2016-2021. «Il ritorno alla natura e alla vita selvatica nelle nostre città è auspicabile, vantaggioso e persino possibile! Il progetto ‘Städte wagen Wildnis’ è un impegno congiunto per offrire opportunità di sviluppo alle successioni naturali che avvengono e possono avvenire in diversi spazi verdi urbani, per incrementare la diversità di specie e di habitat e la qualità della vita dei cittadini» (SWW, 2015).

Un altro caso interessante è il programma Green Deal Temporary Nature (Gdtn), attivato dal governo olandese nel 2011 per realizzare ambiti di natura spontanea temporanea, in aree urbane il cui sviluppo immobiliare è sospeso o rinviato, situazione divenuta piuttosto frequente in Europa per effetto della perdurante crisi economica degli ultimi dieci anni.  Il programma Gdtn – iniziativa del dipartimento Ambiente, natura ed energia e dell’Agenzia per la Natura e le foreste – interviene per interrompere questo circolo vizioso: è un accordo tra amministrazioni pubbliche e proprietari dei suoli, che garantisce a chi, tra questi ultimi, lasci sviluppare temporaneamente sulla propria terra condizioni di selvaticità, il diritto di rimuoverle poi in modo concertato. 

Il fiorire di tutte queste iniziative ci dimostra come anche le città del nostro paese siano e possano essere sempre di più luoghi di frontiera, laboratori straordinari dove sperimentare e mettere in gioco le migliori capacità esistenti per una progettualità creativa e innovativa, per fare in modo che i nostri centri urbani siano finalmente considerati degli organismi viventi, in cui si dedichi la giusta attenzione alla tutela dei sistemi naturali e alla loro resilienza, alla base del nostro benessere e delle nostre possibilità di uno sviluppo sostenibile. Le città non devono essere deserti artificiali, delle trappole dove il nostro benessere, la nostra salute e la nostra sicurezza vengono messi a rischio per soddisfare scelte fatte per mantenere modelli di produzione e di consumo superati e insostenibili: nel modo con cui concepiamo e costruiamo le nostre aree urbane,  facciamo le nostre scelte energetiche e di mobilità, gestiamo il ciclo di vita dei beni di consumo, il loro recupero, riutilizzo e smaltimento per i prossimi decenni.

E’ proprio in questo momento di sospensione forzata del modello business as usual che  proprio a cominciare da questi luoghi di frontiera che sono le città – nelle quali l’innovazione è favorita da un fitto sistema integrato di relazioni che nemmeno il diradamento sociale riesce a interrompere – dove vale la pena di porre e vincere la sfida su come assicurare un futuro all’umanità che sia basato sulla convivenza con sistemi naturali vitali, salubri e resilienti.