Cina e India tendono a pesare sempre di più sullo scacchiere mondiale nell’ambito di un processo che qualcuno ha definito come quello di una rapida orientalizzazione in atto del mondo. Un processo che qui in Italia appare del tutto assente dal dibattito politico ed economico
Può essere utile, in questo incerto inizio d’anno, fare brevemente il punto sulla situazione e sulle prospettive economiche, tecnologiche e sociali comparate di Cina e d’India, tema sul quale il livello di informazioni appare da noi piuttosto ridotto, comunque confuso e in larga parte fuorviante, mentre i due paesi tendono a pesare sempre di più sullo scacchiere mondiale, nell’ambito di un processo che qualcuno ha, a nostro parere correttamente, individuato come quello di una rapida orientalizzazione in atto del mondo. Tale processo è da noi del tutto assente da un dibattito politico ed economico che appare anche per questo come asfittico.
Lo sviluppo economico
Al momento in cui, verso la fine degli anni settanta del Novecento, Deng Tsiao Ping avviò la grande trasformazione dell’economia cinese, le dimensioni del pil di quel paese e di quello indiano erano sostanzialmente le stesse, con l’India che presentava un leggero vantaggio in termini di pil pro-capite, mentre peraltro gli indicatori sociali, dal livello di istruzione alla sanità, alla concentrazione della ricchezza, pendevano già nettamente a favore della Cina.
Se facciamo ora un salto e guardiamo ai dati del 2017 l’economia cinese è ormai grande di diverse volte rispetto a quella indiana, sia che si usi il criterio di calcolo dei prezzi di mercato o quello della parità dei poteri di acquisto.
Incidentalmente, come mostrano le cifre del Fondo Monetario Internazionale (FMI, 2017), sempre nel 2017, utilizzando il criterio della parità dei poteri di acquisto, l’insieme delle economie emergenti produceva il 58,2% del pil mondiale, mentre quindi i paesi avanzati ne controllavano soltanto ormai il 41,8%. La Cina poi aveva al suo attivo il 17,7% dello stesso pil e gli Stati Uniti “soltanto” il 15,5%. Dal momento che, sempre secondo le previsioni del Fondo, nel 2017 i paesi ricchi sono cresciuti complessivamente in media del 2,2%, mentre nel 2018 è previsto per loro un più 2,0% e poi un più 1,7% nel 2022, mentre quelli emergenti sono cresciuti nel 2017 del 4,6% mentre si prevede che lo faranno del 4,9% nel 2018 e del 5,0% nel 2022, la quota sul pil mondiale di questi ultimi è destinata ad accrescersi ancora e rapidamente. Se le tendenze in atto continueranno con la stessa intensità, fra non moltissimi anni il peso complessivo dell’economia dei paesi emergenti raggiungerà il 70% di quella globale.
Per quanto riguarda in specifico le due nazioni sopra citate, sempre secondo le stime del Fondo nel 2017 il tasso di crescita del pil cinese dovrebbe attestarsi intorno al 6.8% e quello dell’India intorno al 6,7%, mentre per quanto riguarda il 2018 la prima dovrebbe crescere del 6,5% e la seconda invece del 7,4%. A questi ritmi di espansione, abbastanza simili, anche se forse nei prossimi anni con un leggero vantaggio per l’India, il distacco del pil dell’India da quello della Cina in valori assoluti dovrebbe ampliarsi invece di ridursi, come invece speravano e avevano anche previsto in tanti, in India come in Occidente.
Più in generale, parlare male quanto più possibile della Cina e sottovalutare le sue prestazioni economiche è uno dei più praticati e costanti giochi che si fanno in questa parte del mondo. Così, ad esempio, da tempo i media ci raccontano che la Cina ha delle città molto inquinate, ma omettono di dire che quelle indiane lo sono in media parecchio di più, ottenendo in sostanza queste ultime un primato a livello mondiale. L’inquinamento delle grandi città cinesi comincia ora a ridursi, mentre quello indiano no, anche se anche il governo di quest’ultimo paese sembra stia ora adottando delle misure per migliorare la situazione.
L’incidenza dello sviluppo tecnologico
Il divario nella crescita scientifica e tecnologica dei due paesi, a parte qualche nicchia specifica, è ancora più rilevante, come mostrano molti possibili indicatori, quali il numero dei brevetti depositati ogni anno, o quello delle pubblicazioni scientifiche, o ancora quello del numero delle imprese tecnologiche il cui valore supera sul mercato il miliardo di dollari (i cosiddetti “unicorni”), o infine per quanto riguarda il numero dei robot che ogni anno vengono installati nei due paesi, numero che in Cina supera ormai un terzo del totale mondiale, mentre nel caso dell’India esso appare un fenomeno sostanzialmente trascurabile. Così nel 2016 (fonte: International Federation of Robotics) il mercato cinese ha assorbito 87.000 robot nel settore industriale, l’India solo 2.600.
A proposito di quest’ultimo tema, si puo’ indicare un altro aspetto della questione. Oggi ormai i robot sono in grado di ridurre i costi di produzione rispetto all’impiego di lavoratori non solo a fronte del livello dei salari statunitensi, giapponesi o tedeschi, ma anche a quello degli operai cinesi e persino indiani, vietnamiti e tailandesi. Tali nuovi sviluppi potrebbero tra l’altro permettere alle imprese occidentali di mantenere i processi industriali in sede, piuttosto che continuare a delocalizzarli; questo almeno nel caso in cui la motivazione dell’investimento estero sia quella della riduzione dei costi e non risulti invece di altro tipo.
Questi sviluppi favoriscono tendenzialmente la Cina e danneggiano l’India. Intanto nel caso cinese il processo di industrializzazione è già andato molto avanti, le motivazioni dell’investimento estero sono ormai di gran lunga quelle legate alla presenza produttiva in quel mercato- che è ormai diventato per molti prodotti il più importante del mondo- e non tanto una questione di costi; poi, la Cina, che presenta una tendenziale caduta della popolazione, tenderà per necessità ad accrescere l’installazione di robot nel paese. Nel caso dell’India, invece, la motivazione degli investimenti esteri è più spiccatamente rivolta alla riduzione dei costi, mentre il processo di industrializzazione del paese è appena agli albori ed il paese presenta ancora una crescita rilevante della popolazione.
Gli indicatori sociali
Ma ci interessa soprattutto rilevare alcuni indicatori della situazione sociale delle due grandi nazioni.
Lo possiamo fare intanto con le cifre ricavabili da un volume di qualche anno fa nel quale, Amartya Sen, il grande economista indiano, fa, insieme a Jean Drèze (Sen, Drèze, 2013), un bilancio della situazione dei due paesi nei primi anni del secondo decennio di questo secolo.
Secondo tali cifre, dunque, l’aspettativa di vita alla nascita era nel 2010 di 65 anni per gli abitanti dell’India e di 73 per quelli della Cina (le cifre per il 2015 fornite dalla Banca Mondiale parlano rispettivamente di 68 e di 76 anni); il tasso di mortalità infantile si collocava rispettivamente al 47 e al 13 per mille; il numero medio degli anni di scolarità era di 4,4 in India e di 7,5 in Cina; il tasso di alfabetizzazione indiano risultava del 77% per le femmine e dell’88% per i maschi e quello cinese del 99% nei due casi. La sottonutrizione toccava il 43% dei bambini di età inferiore ai 5 anni nel primo paese contro il 4% nel secondo; e così via.
Su di un altro fronte, possiamo comparare alcuni dati sui livelli di disuguaglianza. Le informazioni fiscali e patrimoniali disponibili, incrociate con delle inchieste sul campo e con i conti nazionali, rilevano come in tutti e due i casi lo sforzo di sviluppo ha certo permesso una riduzione della povertà, riduzione peraltro molto più marcata in Cina che in India, ma della crescita hanno tratto profitto in maniera sproporzionata in tutti e due i paesi i cittadini più agiati (De Vergès, 2017, che riporta i dati forniti dal progetto World Wealth and Income Database, WID.world). Quest’ultima constatazione appare piuttosto scoraggiante.
Ma l’aumento delle diseguaglianze è stato molto più forte nel caso indiano. Così, tra il 1980 e il 2014 la parte del reddito catturata dal 10% degli indiani più ricchi è passata dal 30% al 56% del totale; in Cina dal 27% al 41%. Il reddito del 50% dei cittadini più poveri è cresciuto nel periodo di otto volte e mezzo meno che quello del primo 1% dei cittadini indiani, mentre in Cina esso è aumentato di “sole” cinque volte (De Vergès, 2017).
La politica
Tra moltissimi economisti e politici ha a lungo prevalso l’idea che un rilevante sviluppo economico di un paese fosse impossibile senza un regime politico democratico. Più tardi, di fronte all’emergere dei fatti, la posizione è diventata quella, un po’ meno drastica, di pensare che solo un regime democratico permettesse di raggiungere un livello di sviluppo avanzato sino a fare conquiste consistenti sul piano tecnologico. Si citava come prova il caso sovietico che in effetti era finito in un fallimento storico prima di tutto sul piano economico.
Ma il caso cinese, che contrasta con tutte tali idee –il tasso di crescita dell’economia cinese è ancora molto forte, mentre le grandi imprese tecnologiche del paese rivaleggiano tranquillamente con quelle statunitensi-, mostra che esse erano basate su presupposti fortemente ideologici, mentre esso mette in rilievo come si possano raggiungere risultati molto avanzati mantenendo un regime autoritario, cosa che ancora oggi molti commentatori anglosassoni non riescono in alcun modo a capire come possa succedere.
Noi auspichiamo che sia la Cina che l’India, questi due grandi paesi, riescano a continuare a svilupparsi in maniera molto importante nei prossimi anni a livello economico e sociale e che ambedue acquisiscano un posto sempre più importante nel mondo anche a livello politico, vista anche la dimensione delle loro popolazioni, che dovrebbe orami raggiungere complessivamente, secondo le ultime cifre della Banca Mondiale, circa 2,7 miliardi di abitanti, una fetta molto consistente della popolazione mondiale complessiva.
Testi citati nell’articolo
-Drèze J., Sen A., An uncertain glory, India and its contradictions, Allen lane, Londra, 2013
-De Vergès M., L’inde plus inégalitaire que la Chine, Le Monde, 16 dicembre 2017
-International Monetary Fund, World Economic Outlook, IMF, ottobre 2017