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Cina e Germania tra rivalità e collaborazione

La Germania appare divisa tre le esigenze della sua economia, che la spingono ad avere rapporti importanti con la Cina – e la Russia, a cominciare dal Nord Stream 2 – e quelle di tipo politico di stretti legami storici con gli Stati Uniti.

Produzione e finanza

Come è stato ricordato di recente da qualcuno (Rowley, 2021), Lord Henry Pilkington, proprietario di una grande impresa inglese operante nella produzione di vetro, ricordava con orgoglio, molti decenni fa, come egli fosse un produttore di cose e non un maneggiatore di denaro. Ma la Gran Bretagna è diventato un Paese post-industriale ed oggi, ed anche più in generale negli altri Paesi anglosassoni, l’etica del maneggio di denaro è diventata quella dominante. Se Pilkington fosse ancora in vita non ne sarebbe certo felice. Quella finanziaria è oggi la professione meglio remunerata e la più considerata socialmente in tale area del mondo e i cervelli più brillanti che escono dalle migliori università vengono indirizzati in quella direzione. In particolare l’isola al di là della Manica vede nel settore finanziario ed assicurativo l’asse portante della sua economia. 

Ma ci sono alcuni Paesi che hanno rifiutato di abbandonare sostanzialmente al suo destino il settore industriale. Così, la marcata predilezione per la manifattura è una delle principali affinità che si possono trovare oggi in particolare tra la Cina e la Germania.

Il Paese asiatico è da molti anni ormai e di gran lunga al primo posto nel mondo per il livello della produzione industriale, ottenendo quasi il 30% di quella mondiale, contro con poco più della metà di tale cifra per gli Stati Uniti (l’ex-leader) e mentre la Germania si colloca al quarto posto, dopo il Giappone, con circa il 6% del totale. Segue la Corea del Sud, altro Paese molto attento alla produzione delle cose e i cui rapporti con la Cina sembrano seguire un andamento in qualche modo simile a quello della Germania. 

La Cina e la Germania

I cinesi sono rimasti molto legati nel tempo all’industria, senza trascurare peraltro la dimensione finanziaria, ma non permettendo comunque che tale secondo aspetto diventasse troppo potente e dominasse la sfera produttiva, come dimostrano anche le sue recenti mosse, uniche al mondo, per mettere sotto controllo le attività dei grandi gruppi digital-finanziari del Paese. Le cronache di queste settimane sono così piene dei casi di Alibaba e Tencent che vengono ora strapazzati su molti fronti e senza mezzi termini. D’altro canto, in Cina oggi si laureano circa 5 milioni di persone in materia scientifiche all’anno (su di un totale complessivo di quasi 9 milioni di laureati), dieci volte tanto che negli Stati Uniti.

Ricordiamo infine, a riprova parziale di quanto affermato e con riferimento ai problemi della pandemia, che nel 2020 la Cina ha venduto nel mondo mascherine per un volume di 40 unità a testa per ogni abitante della terra e che essa sta producendo all’incirca l’80% delle necessità mondiali di aghi e siringhe necessari per effettuare le vaccinazioni.

Intanto la Germania è di gran lunga il più importante Paese industriale dell’UE, con alcuni settori, dall’auto e i veicoli industriali, alla meccanica strumentale, alla chimica, in cui essa si colloca tra i massimi leader mondiali. Sappiamo tutti invece come il settore finanziario non brilli molto nel Paese, in particolare con le poche grandi banche residue che si trovano in una situazione difficile da parecchio tempo e con una Borsa, quella di Francoforte, che non è nota per una particolare dinamicità. Per altro verso, il Paese è al momento, forse di nuovo non a caso, all’avanguardia in Occidente per quanto riguarda le normative che cercano di mettere ordine nei grandi gruppi digital-finanziari.  

L’economia tedesca

I dati per il 2020 mostrano come il pil dell’economia tedesca si sia ridotto nell’anno di poco più del 5,0%, dopo dieci anni di crescita continua, indicando comunque che il Paese ha resistito alla pandemia meglio dei suoi vicini (Italia, -8,8%) e meglio di quanto si prevedesse allo scoppio della pandemia, nel marzo del 2020. La riduzione appare anche un poco meno forte che nel 2009 con la crisi del sub-prime

L’industria, in particolare, ha tenuto grazie alla resistenza delle importazioni asiatiche, soprattutto cinesi (come volevasi dimostrare), mentre si è registrato un boom dei commerci in linea e mentre le misure di sostegno all’economia, molto importanti, hanno funzionato (Boutelet, 2021, a). Ricordiamo come la parte del commercio estero di beni come percentuale del pil è del 38,5% per la Germania, del 21% per la Francia e del 7,6% per gli Stati Uniti (Boutelet, 2021, b). 

Il bilancio federale ha mostrato nel 2020 un deficit mai visto, di più di 158 miliardi di euro, creando nuovo debito per 130 miliardi di euro in un Paese che aveva fatto del pareggio di bilancio (lo “Schwarze null” di Schauble) un dogma pressoché assoluto. Così il governo, con un clamoroso rovesciamento di atteggiamento, ha annunciato che nel 2020 avrebbe superato il limite costituzionale di indebitamento che essa si è imposta a partire dal 2011. Le spese effettive nel 2020, nel quadro dei piani di sostegno e rilancio dell’economia, sono state in Germania pari all’8,3% del Pil, contro il 5,3% della Francia, il 3,7% della Spagna, il 3,4% dell’Italia (Boutelet, 2021, b). Il rapporto debito/Pil è ormai alla fine del 2020 pari al 71% contro il 59% della fine dell’anno precedente, mentre si prevede che esso raggiunga il 74% nel 2021 (Bufacchi, 2021).  

Ma il Paese è diviso tra i conservatori che vorrebbero ora di nuovo delle restrizioni alla spesa, secondo le tradizionali linee di politica economica e chi invece sottolinea come sia necessario varare un programma di spesa per facilitare gli investimenti nelle infrastrutture, i processi di digitalizzazione, la decarbonizzazione dell’economia, nonché il sostegno e la partecipazione ad una forte politica industriale a livello europeo. In queste settimane è in corso nel Paese un aspro dibattito sul tema (Hall, 2021). 

La maggioranza della classe dirigente sembra avere comunque preso coscienza dell’erosione del suo modello industriale e commerciale e della sua fragilità nei confronti di Stati Uniti e Cina (Albert, 2021). E’ maturata così la convinzione della necessità di una politica industriale con un forte intervento dello Stato. 

Le previsioni per l’economia e per il 2021 sono molto incerte e legate ovviamente in particolare all’andamento della pandemia e le ultime stime parlano di un +3,0% per quest’anno, ridimensionando precedenti valutazioni. L’anno è purtroppo cominciato con nuove chiusure che non si sa quanto potranno durare ed appare quindi anche per questo necessario mantenere, a parere di molti, gli stimoli fiscali e gli investimenti pubblici per tenere a galla l’economia.

Ancora Cina e Germania

E’ apparso evidente che la Merkel ha fatto tutto il possibile perché si arrivasse, alla fine di dicembre 2020, alla firma del trattato sugli investimenti tra UE e Cina, andando anche oltre agli interessati moniti degli Stati Uniti. Alla fine ci è anche riuscita, anche se, per diventare operativo, il trattato deve essere approvato dal Parlamento europeo e dagli Stati membri, cosa non facile, vista l’esistenza di un forte partito americano nel nostro continente, nonché delle riserve abbastanza diffuse e legate al rispetto dei diritti umani nel Paese asiatico. Invece i rappresentanti dell’industria tedesca hanno applaudito con forza la conclusione dell’accordo.

La ragione principale di tale impegno del governo tedesco appare legata alla struttura stessa dell’economia del paese e alla sua già citata notevole dipendenza dalle esportazioni di beni industriali.

Mentre in generale il livello degli scambi commerciali tra UE e la Cina è cresciuto di otto volte tra il 2000 e il 2019, sino a raggiungere i 560 miliardi di euro, alla Germania ne tocca ben il 37% (The Economist, 2021); nel 2020 la Cina è diventata il principale cliente e il principale fornitore della Germania, oltre che dell’intera UE, mentre la Germania è il principale cliente della Cina tra i paesi dell’Unione Europea. D’altro canto, dei 140 miliardi di euro investiti dai paesi dell’UE negli ultimi 20 anni in Cina, ben 86 vengono sempre dalla Germania.

La dipendenza tedesca dal Paese asiatico è poi concentrata nei suoi settori più grandi ed importanti. Così il produttore di chip Infineon effettua il 42% delle sue vendite nel Paese asiatico (The Economist, 2021), mentre la BMW vi colloca il 33,4% del totale, la Daimler il 35,8% e la Volkswagen il 41,4%, con la presenza di 26 sue fabbriche nel paese.  Il livello dei profitti realizzati in Cina sul totale mondiale è poi anche più elevato per quanto riguarda il settore dei veicoli (nel caso della Volkswagen circa il 50% del totale). “La Cina è il presente ed il futuro dei produttori di auto tedesche”, come dichiara un esperto. Più in generale, un responsabile economico tedesco ha affermato: “Se tu non sei a tavola con i cinesi, sei nel menù”.  

Con lo scoppio della pandemia tale dipendenza è diventata anche più accentuata e le case tedesche, mentre frenano gli investimenti nella madre patria, incrementano quelli in Cina per decine di miliardi di euro. 

Ma nel frattempo le imprese cinesi competono sempre di più con quelle tedesche in particolare nella produzione di macchinari, altra costola fondamentale dell’economia tedesca e delle sue esportazioni verso il Paese asiatico, oltre che nelle nuove tecnologie dell’auto, da quella elettrica a quella con guida autonoma. Un problema di concorrenza nel settore industriale che hanno sempre più anche altri paesi, dalla Corea del Sud al Giappone, per limitarsi al continente asiatico.

D’altro canto, gli insediamenti diretti tedeschi in Cina da una parte portano al Paese asiatico prodotti e tecnologie di cui esso ha bisogno nella sua spinta allo sviluppo, dall’altra la crescente capacità di innovazione della Cina porta importanti benefici alle aziende tedesche e contribuisce a rafforzare la loro competitività globale (Fatiguso, 2020).

Conclusioni

La Germania appare da tempo sicuramente divisa tre le esigenze della sua economia, esigenze che la spingono ad avere rapporti molto importanti con la Cina (e la Russia) e quelle di tipo politico di stretti legami storici con gli Stati Uniti, nonché di notevoli riserve sulla gestione dei diritti umani nei due Paesi sopra citati. Peraltro i contrasti con gli Usa sembrano accentuarsi, in particolare sul fronte del Nord-Stream 2, sul contenzioso nel settore aereo, sull’Iran, sul trattato UE-Cina e così via. D’altro canto, i risultati della sua industria di punta sono minacciati nell’auto dall’arrivo di nuovi entranti e di nuove tecnologie e nei beni strumentali dalla crescente concorrenza cinese (The Economist, 2021). In particolare, c’è nel Paese l’esigenza primaria di integrare il settore industriale con le tecnologie digitali, esigenza sulla quale ci si presenta oggi con qualche ritardo, mentre la Cina sembra aver fatto più rapidamente tale passaggio.

La politica del governo tedesco affronta dunque acque molto agitate e le risposte sui vari fronti appaiono incerte. Ma il futuro economico della Germania sembra avere bisogno in ogni caso di legami abbastanza forti con la Cina ed anche con il resto dell’Asia. L’asse atlantico si potrebbe in qualche modo indebolire.

Testi citati nell’articolo

-Autore sconosciuto, Senza riforme anche la Germania perde competitività, Il Sole 24 Ore, 5 gennaio 2021

-Albert E., Berlin se convertit à la politique industrielle, Le Monde, 26 gennaio 2021

-Bufacchi I., Germania, percorso di rientro rapido per il debito anti Covid, Il Sole 24 Ore, 23 dicembre 2020

-Boutelet C., Résiliente, l’Allemagne s’inquiète pour 2021, Le Monde, 16 gennaio 2021, a

-Boutelet C., Berlin se convertit à la politique industrielle, Le Monde, 26 gennaio 2021, b

-Fatiguso R., Germania motore degli investimenti diretti esteri in Cina, Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2020 

-Hall B., Europe should pay attention to Germany’s debt brake debate, www.ft.com, 2 febbraio 2021

-Rowley A., China’s rein on financial innovation shows it won’t give up manufacturing for a runaway services sector, www.scmp.com, 17 gennaio 2021

The Economist, Riding high, 9 gennaio 2021