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Brexit: svolta o regresso? Lo deciderà anche il commercio

Molta retorica su una competizione tra Ue e Uk “aperta ma giusta” nelle oltre 1.200 pagine dell’accordo Brexit. In realtà un emendamento passato ai Comuni amplia la sorveglianza sugli standard sociali e ambientali. Sempre che Londra non aggiri la trasparenza.

In vista del Capodanno la tua banca inglese ti scrive: ma non è per farti gli auguri. E’ per ricordare a te, cittadino inglese che lavora e abita in un altro Paese dell’Europa, che sei caldamente invitato a chiudere il conto corrente. L’istituto di credito, infatti, preferisce perdere un cliente privato, con le sue semplici transazioni quotidiane, piuttosto che misurarsi con i cambiamenti imposti dalla fine del passporting: l’impossibilità di trattare come i correntisti inglesi quelli residenti in un Paese diventato “straniero”. Questo è solo uno degli effetti secondari della Brexit nella vita concreta di cittadine e cittadini ex-europei. 

Con il Trattato commerciale e di cooperazione sottoscritto a Natale, Unione europea, Euratom, Regno Unito e Irlanda del Nord hanno dichiarato di voler mitigare le previsioni di catastrofiche interruzioni di filiera, disservizi bancari e penurie di prodotti anche essenziali paventate fin dal giugno 2016, data della vittoria dei leavers. Ma le 1.246 pagine del documento diffuse il 24 dicembre scorso oltre a non riuscire a intervenire, come mostra il caso raccontato, su tutte le problematiche ordinarie legate dall’uscita dall’Unione e da decenni di concrezioni normative, pur con la specifica postura mantenuta dal Regno Unito in ambito Ue, ripropongono le stesse problematiche democratiche, di trasparenza e di impostazione neoliberista che anche la Gran Bretagna ha sostenuto in tutti i trattati commerciali bilaterali negoziati dalla Commissione europea negli ultimi anni.

Un macchinoso Forum con circa venti sotto-commissioni ne sorveglierà il funzionamento, con la stessa riservatezza e difficoltà di partecipazione che si contesta in tutti i trattati bilaterali dell’Ue. Un’eccezione alla continuità neoliberista c’è: per proteggere gli interessi degli investitori ci facciamo bastare i tribunali e le procedure amministrative ordinari, senza bisogno di corsie arbitrali specifiche. Il trattato presenta, in più, una inedita, maniacale preoccupazione semantica di rassicurare chi lo legga che la competizione tra Unione ed ex membri sarà “aperta ma giusta”, anche per le imprese di medie dimensioni. E inoltre che si preverranno non soltanto le solite “ingiustificate barriere al commercio e agli investimenti” contestate a tutti gli altri partner commerciale, ma anche ogni occasione di competizione giocata sul lavoro, gli standard sociali, la lotta ai cambiamenti climatici e la tassazione. Stante il volume importante di attività transfrontaliere, la prospettiva della ulteriore accelerazione digitale spinta dalla pandemia, e l’intensa propaganda Uk first del governo Johnson, che non trova grande riscontro in quanto ottenuto. 

La lettera del trattato, al netto della pubblicistica di Downing street, è un bagno di realtà per chi, anche nel Labour, pensava che bastasse il leave perché il Regno Unito potesse riorientare quel 47% del suo export che l’Ue assorbe verso una maggiore ridistribuzione e sostenibilità sociale e ambientale. E l’Unione non ha colto l’occasione di un accordo stretto con un Paese ex membro, che vale l’8% del suo export complessivo, per sperimentare strutture più avanzate e indicare regole e priorità più consone a una fase post pandemica e di strutturale crisi economica, ambientale e sociale di quelle dettate dal neoliberismo classico. Anzi: nonostante il capo della trattativa per parte Ue, Michel Barnier, lo abbia descritto come “il modello per i prossimi trattati di libero scambio che l’Unione firmerà in futuro”, e la retorica anti dumping diffusa a piene mani nelle sue pagine, questo trattato non pone assolutamente l’impatto sui diritti, la salute e l’ambiente come misura e/o condizione della qualità e quantità dei flussi commerciali bilaterali. 

Il Regno Unito, peraltro, per garantire che l’uscita dall’Unione non danneggi approvvigionamento e mercati di sbocco rispetto ai Paesi con i quali commerciava con le regole stabilite in ambito Ue, si è già assicurato, in via preliminare o definitiva, il rinnovo o la riscrittura di trattati commerciali con oltre 50 Paesi nel mondo. In nessuno di questi si ravvisano quegli avanzamenti che associazioni e sindacati inglesi, vicini al Labour ma anche ai conservatori – questi ultimi in chiave più protezionista – avevano auspicato di poter ottenere una volta allentatasi la stretta della normativa Ue. La storica associazione democratica inglese Global justice now, ad esempio, aveva chiesto dal 2017, supportata da un numero importante di parlamentari, di riconfigurare la politica commerciale esterna del Paese intorno a dieci principi di buonsenso tra i quali il rispetto dei diritti umani lungo le filiere, la valutazione dell’impatto ambientale, la soppressione delle clausole arbitrali a favore degli investitori privati, e di ricondurre il campo d’azione dei trattati alle sole merci, escludendo beni comuni, servizi essenziali e diritti. Una priorità da sostenere anche presso l’Organizzazione mondiale del commercio, come chiesto dalle campagne della società civile da una ventina d’anni

La conferma di una linea decisamente lontana dagli auspici ha prodotto, tuttavia, una prima reazione parlamentare molto positiva in direzione contraria, sotto una forte pressione sociale e sindacale. Troppo evidenti i contenuti del negoziato con l’Europa, ma ancor più di quello con gli Usa, forzato dal governo Johnson nonostante comporti un pericoloso allentamento degli standard di sicurezza alimentare, sociale, climatica e addirittura finanziaria e digitale rispetto ai livelli Ue.

Anche il cittadino più sprovveduto ha capito quanto, in questa fase storica, sia distopico e fuori tempo massimo in entrambi i campi. “Il Manifesto conservatore per le elezioni riporta l’impegno di non svendere gli standard sociali e ambientali dopo la Brexit, ma è impossibile ottenere un altro risultato se un accordo commerciale con gli Stati Uniti diventerà la priorità per il loro governo, e questi standard non saranno legalmente garantiti. Per questo c’è bisogno di una supervisione attenta del Parlamento”, sottolinea non da ieri Friends of the Earth Uk. E infatti, dopo mesi di pressioni, il Parlamento inglese ha approvato un emendamento che gli attribuisce una maggiore incidenza nei contenuti e nella trasparenza dei negoziati commerciali prossimi venturi rispetto al governo. “Speriamo fortemente che il governo prenda atto della portata di questa sconfitta, del livello di sostegno tra i partiti per questo emendamento, e lo accetti come parte della politica commerciale del Regno Unito quando il disegno di legge tornerà ai Comuni “, è l’auspicio di Jean Blaylock, tra i protagonisti delle campagne anti liberiste d’Oltremanica. Uno spazio politico tutto da costruire e da agire con determinazione.